Countdown, storia preventiva dello strike
Ad accogliere i visitatori nel quartier generale dell’aviazione israeliana di Tel Aviv è un poster: “Le aquile d’Israele sopra Auschwitz”. Dieci anni fa lo stato ebraico ottenne, suscitando numerose proteste internazionali, di alzare i propri velivoli militari sopra la tomba invisibile di milioni di ebrei. Il poster mostra due caccia F-15, pilotati da nipoti e figli di sopravvissuti alla Shoah, che sorvolano i resti delle camere a gas nel campo di sterminio nazista. “Siamo arrivati troppo tardi per coloro che sono morti qui”, disse Ehud Barak, attuale ministro della Difesa israeliano.
Ad accogliere i visitatori nel quartier generale dell’aviazione israeliana di Tel Aviv è un poster: “Le aquile d’Israele sopra Auschwitz”. Dieci anni fa lo stato ebraico ottenne, suscitando numerose proteste internazionali, di alzare i propri velivoli militari sopra la tomba invisibile di milioni di ebrei. Il poster mostra due caccia F-15, pilotati da nipoti e figli di sopravvissuti alla Shoah, che sorvolano i resti delle camere a gas nel campo di sterminio nazista. “Siamo arrivati troppo tardi per coloro che sono morti qui”, disse Ehud Barak, attuale ministro della Difesa israeliano. A guidare l’esercitazione c’era Amir Eshel, che oggi è il candidato principale per il comando dell’aviazione israeliana e quindi di un eventuale attacco militare alle installazioni nucleari in Iran. “L’Iran è il nuovo Amalek che apparirà nella storia per provare, ancora una volta, a distruggere gli ebrei”, disse Benjamin Netanyahu, oggi primo ministro d’Israele, di fronte ai resti delle camere a gas di Birkenau. “Ricorderemo sempre che cosa ci ha fatto l’Amalek nazista. Non dobbiamo dimenticare d’essere pronti ad affrontare i nuovi amaleciti. E’ come il 1938, e la nuova Germania è l’Iran, che sta preparando un nuovo Olocausto dello stato ebraico”.
In un recente articolo sul New York Times, Ronen Bergman, uno dei più noti giornalisti investigativi israeliani, ha scritto: “Dopo aver parlato con numerosi leader e militari israeliani sono arrivato alla conclusione che Israele attaccherà l’Iran nel 2012”. Sei mesi, al massimo un anno, è il tempo prima dell’“ora X”, prima cioé che Teheran sviluppi le capacità tecniche per assemblare un ordigno nucleare. A meno che non accetti di fermarsi o il suo programma non venga distrutto da un attacco militare. E’ il countdown, il conto alla rovescia sull’atomica degli ayatollah.
Il capo di stato maggiore d’Israele, Benny Gantz, ha appena definito il 2012 “l’anno dell’Iran”. Lo scorso giovedì il capo dell’intelligence militare israeliana, Aviv Kochavi, ha detto che l’Iran “ha già materiale fissile sufficiente per costruire quattro bombe atomiche”. Il giorno stesso Moshe Ya’alon, vice primo ministro ed ex capo di stato maggiore, annunciava che “Israele può distruggere tutte le strutture nucleari iraniane”. La tensione sale ogni giorno di più. Secondo una previsione del segretario alla Difesa americano Leon Panetta raccolta da David Ignatius, famoso giornalista del Washington Post, gli Stati Uniti temono che Israele possa attaccare i siti nucleari iraniani in “aprile, maggio o giugno”. L’aviazione di Gerusalemme penserebbe di colpire i bersagli iraniani per “4 o 5 giorni”.
“L’orologio tecnologico prevede che l’Iran sviluppi la bomba atomica entro massimo un anno”, spiega al Foglio il più noto giornalista militare israeliano, Ron Ben Yishai, corrispondente di Yedioth Ahronoth immortalato nel film “Valzer con Bashir”, in quanto fu il primo giornalista al mondo a entrare nel campo di Sabra e Shatila. “L’orologio delle sanzioni scatterà invece non prima di luglio e per Israele quella data è considerata troppo tardi per fermare i piani iraniani. Israele teme che non resti tempo per fermare l’atomica iraniana e non può permettersi che Teheran sviluppi una sorta di ‘immunità’ sul nucleare, portando il programma ancora più sotto terra, dopodiché sarebbe impossibile fermare Teheran. L’attuale ‘red line’ dell’America è se l’Iran supera il trenta per cento di produzione di uranio arricchito, per Israele questa linea rossa è inaccettabile, perché da lì in poi entro tre mesi Teheran potrebbe assemblare la bomba. Israele quindi potrebbe decidere di attaccare, con o senza gli americani, avendo senza ombra di dubbio le capacità di paralizzare o distruggere il programma nucleare iraniano”.
Scrive Ronen Bergman che Benjamin Netanyahu “è l’uomo che ha fatto dell’Iran la questione numero uno in Israele”. Vent’anni fa, quando ancora non si parlava di Qom, Bushehr, Fordow e Isfahan, ovvero la fitta rete di fabbriche nucleari che il regime iraniano ha costruito nei sotterranei dell’antica Persia, Netanyahu pubblicò un libro dal titolo “Fighting Terrorism”, in cui scriveva: “Non c’è più tempo, il mondo è di fronte a un abisso e una volta che l’Iran avrà acquisito armi atomiche nulla può escludere che possa spingersi verso l’irrazionalità”. All’epoca Netanyahu era semplicemente il “Dottor No” della destra e i baroni del Likud gli davano dell’“amerikano”, per il suo inglese impeccabile, per gli studi al Massachusetts Institute of Technology e perché durante la guerra del Golfo era il “darling della Cnn”. Negli studi dell’emittente americana a Gerusalemme, Netanyahu andava in tv indossando una maschera antigas, a testimoniare l’angoscia d’Israele mentre Saddam Hussein lanciava missili scud su Tel Aviv. “A Netanyahu spetta la decisione di attaccare l’Iran, la storia d’Israele poggia sulle spalle dei primi ministri e sono loro a decidere per il bene del popolo ebraico”, dice al Foglio Yoel Guzansky, uno dei massimi esperti d’Iran e direttore della sezione iraniana dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv, il maggiore pensatoio per la sicurezza nazionale in Israele. “Per Israele oggi conta soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico, non il rapporto con gli Stati Uniti”.
Vent’anni dopo la pubblicazione di quel libro, Netanyahu ha lanciato la più vasta distribuzione di maschere antigas dai tempi della guerra del Golfo. Nei giorni scorsi il maggiore Eshel ha detto che ancora metà della popolazione è senza la nuova maschera antigas. Israele sta correndo ai ripari, timoroso della “biologia nera” nelle mani di Iran, Siria e Hezbollah. La distribuzione della nuova maschera, che porta il nomignolo di “Candy”, fa parte di un piano di autodifesa del “fronte interno” in caso di strike all’Iran. In ogni casa israeliana si conservano ancora le vecchie maschere dentro brutte scatole color caki, nella stanza meno usata, per esorcizzare il pericolo. Tutti ricordano le immagini dei genitori che all’interno di una stanza sigillata leggevano una fiaba al figlio che aveva in testa una specie di casco da astronauta in grado di proteggerlo dai veleni.
L’uso preventivo della forza da parte d’Israele sarebbe giustificato. “Ogni persona e ogni stato ha il diritto di difendersi se sotto minaccia esistenziale, non devi aspettare il punto in cui il tuo nemico ti possa attaccare per distruggerti”, dice al Foglio Avi Sagi, filosofo morale e coautore dello “Spirit of the IDF”, il più recente codice di condotta etica dell’esercito ebraico. “Se Israele è certo che possa finire sotto attacco atomico, allora ha il diritto a un attacco preventivo. C’è una piccola linea rossa invisibile in cui si intreccia la questione tecnica dell’atomica ma anche la volontà della leadership di Teheran. Cosa c’è nella mente degli iraniani? Gli iraniani sono abbastanza razionali da avere la bomba senza usarla, come avvenne durante la crisi dei missili a Cuba? L’attacco preventivo venne usato già durante la Seconda intifada, quando Israele eliminò alcuni capi terroristi in esecuzioni extragiudiziali. E’ una moralità che fa parte dell’ethos ebraico. Israele è prigioniero da sempre di una guerra asimmetrica, in cui soldati combattono terroristi in abiti civili. Israele ha sospeso operazioni militari per il timore di vittimi civili fra i palestinesi e gli iraniani devono sapere che in caso di strike Israele farà tutto il possibile per evitare vittime civili e che l’obiettivo sono le sue infrastrutture nucleari. Ma l’esercito d’Israele è nato per difendere gli ebrei”.
Il countdown inizia dalla mente del primo ministro. “Per Menachem Begin (primo ministro all’epoca dell’attacco alla centrale nucleare di Osirak) era una questione fra lui e Dio”, dice Ariel Levite, ex consigliere per la sicurezza nazionale. “Anche Netanyahu pensa di essere parte di una missione storica”. La posizione di Netanyahu su Teheran, dicono fonti vicine al primo ministro, è plasmata “da Amalek e dall’Olocausto”. E’ il tema della festa di Purim, quando gli ebrei celebrano la sconfitta di Aman che ai tempi del re Assuero di Persia voleva annientare tutti gli ebrei. Dopo Amalek, il terribile guerriero del deserto, vennero i Romani con la distruzione di Gerusalemme e l’imperatore Tito che entrò nel canone ebraico come successore di Aman; poi è stata la volta di Hitler, dell’Olp di Yasser Arafat e infine dell’Iran nuclearizzato, che secondo Netanyahu primeggia come metafisico persecutore fra gli odiatori assoluti di ebrei. Ahmadinejad come Aman, protagonista della Meghilà di Ester, il libro di Ester.
I giornalisti più maligni, non senza ragione, dicono che questa ideologia di Netanyahu proviene da suo padre, un intellettuale di fama mondiale. “L’Olocausto non è mai finito, l’Iran promette che il movimento sionista è arrivato alla fine e che non ci saranno più sionisti al mondo”, ha appena detto il venerando Ben Zion Netanyahu di fronte a una platea di amici e parenti riuniti per festeggiare i suoi cent’anni. “Il popolo ebraico deve riporre la fede nel proprio potere militare. La nazione d’Israele mostra al mondo cosa deve fare uno stato di fronte a una minaccia mortale: guardare negli occhi il pericolo e decidere cosa fare. E farlo quando ancora c’è la possibilità di farlo”.
L’anziano medievista, nato a Varsavia e da molti considerato il più grande studioso mondiale d’Inquisizione spagnola, dal suo quartiere di Katamon, in una zona di Gerusalemme dove la famiglia Netanyahu risiede da più di mezzo secolo, seguita a scrivere libri sulle persecuzioni. Secondo Amir Oren di Haaretz, Netanyahu vede se stesso come l’ultimo paladino della saga revisionista. “Il primo ministro è convinto di essere nato per anticipare gli eventi. Ze’ev Jabotinsky, di cui Ben Zion Netanyahu fu il segretario per tutta la vita, previde l’Olocausto. Netanyahu vede l’Olocausto dell’Iran e continuerà questa dinastia profetica”.
Un anno fa Netanyahu ha reso nota una lettera del padre scritta proprio durante la Pasqua ebraica del 1941, quando gli ebrei venivano spediti a morte nelle camere a gas e all’epoca il professor Netanyahu era direttore della Zionist Organization of America e perorava la causa degli ebrei europei: “Attraverso oceani di sangue, il nostro sangue, attraverso oceani di lacrime, le nostre lacrime, soltanto una nazione del nostro calibro poteva sopravvivere attraverso epoche di sofferenza impareggiabili. Ma siamo vivi e lottiamo per la libertà”. Ci dice un ex consulente del premier che il padre ha instillato nel figlio “questa viscerale identificazione con il miracolo della sopravvivenza ebraica”.
Una delle più note firme di Haaretz, Ari Shavit, dice che “Benjamin Netanyahu crede di essere uscito dal grembo di sua madre per salvare il popolo ebraico e la civiltà occidentale dal pericolo che sorge da Natanz (la centrale nucleare iraniana). Vuole essere la persona che sconfiggerà il nazismo del XXI secolo”. Ne parliamo con Yossi Klein Halevi, scrittore e intellettuale di punta del mondo ebraico americano. “Ci sono similarità e differenze fra Menachem Begin, che attaccò il reattore nucleare in Iraq, e Benjamin Netanyahu, l’uomo dell’Iran. Begin fu l’unico leader israeliano nell’Europa dell’est imprigionato dai comunisti e la cui famiglia venne uccisa dai nazisti. La Shoah era parte essenziale della vita di Begin. Netanyahu è nato in Israele, ha servito con Ehud Barak nelle unità d’élite dell’esercito, è un simbolo del potere ebraico e della capacità del popolo ebraico di difendersi. Ma sull’Iran Netanyahu è tornato a Begin e alle origini della destra. Quando parla degli anni Trenta, Netanyahu intende la mentalità occidentale di appeasement riguardo all’Iran”.
Secondo Halevi, l’Olocausto è decisivo per capire cosa farà Israele nel caso in cui l’America si rifiuti di entrare in guerra contro gli iraniani. “Anche il socialista Barak, sostenitore dello strike, è stato influenzato dalla dottrina Osirak di Begin e pensa che Israele deve sparare il colpo preventivo prima che ci sia un altro Olocausto. Netanyahu sa che Ahmadinejad è un nemico molto più mortale per Israele di quanto non lo fosse Saddam Hussein. La dottrina Begin si basa proprio sulla capacità degli ebrei di fare da soli anche senza l’America. Quando Israele attaccò Osirak, l’Amministrazione di Ronald Reagan non venne avvertita da Israele. E sfido a paragonare Barack Obama a Reagan sulla difesa d’Israele per capire come potrebbe agire oggi Netanyahu. Oggi l’America è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dall’atomica iraniana”. Halevi dice anche che esiste un momento preciso che ha cambiato per sempre il “dossier Iran” in Israele, specie nella classe dirigente vicina a Netanyahu: “Fu quando nel 2005 Ahmadinejad organizzò ufficialmente la conferenza sul negazionismo della Shoah. L’Iran è l’unico stato mondiale devoto a dimostrare la falsità dell’Olocausto. Da allora Israele non ha più guardato a Teheran allo stesso modo. Anche se lasciamo da parte gli scenari apocalittici, nessuno può essere certo che l’Iran non possa lanciare una testata atomica su Tel Aviv. Allora la storia ebraica sarebbe finita. Netanyahu inoltre sa che l’Iran darà il via libera a una difesa nucleare nella regione per Hezbollah e Hamas. Sarebbe la fine della deterrenza d’Israele. Inoltre, i rivoluzionari di Teheran potrebbero passare una ‘bomba sporca’ ai terroristi e usarla contro lo stato ebraico. Infine, ci sarebbe una corsa alla bomba atomica nella regione. Se Israele sa che il punto di non ritorno è vicino, lancerà un attacco contro l’Iran, con o senza americani. In gioco c’è soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico”.
L’albero genealogico di Netanyahu reca anche un fratello eroe, caduto a Entebbe, nel famoso salvataggio degli ostaggi ebrei. E il ricordo di quel fratello eroe gioca un ruolo decisivo nella mente del primo ministro. Ogni anno, quando tutto il paese è concentrato nel ricordo dei suoi caduti e Yom Hazikaron, il Giorno del Ricordo, si stende su Israele tanto da bruciare, da rodere, da ferire, il primo ministro si reca sulla tomba del fratello ucciso. Il 4 luglio di trentaquattro anni fa un commando di teste di cuoio israeliane fu protagonista di un clamoroso blitz a migliaia di chilometri di distanza da casa. In Uganda gli israeliani volarono per liberare un centinaio di passeggeri ebrei di un jet della Air France dirottato da terroristi palestinesi. Il reparto è guidato da Yoni, fratello del premier e unica vittima del blitz. “Yoni si è battuto ed è morto per il popolo ebraico, ma la sua battaglia aveva orizzonti più ampi, Yoni vedeva questa guerra come una battaglia fra la civiltà e la barbarie”, si legge nel libro del 1997 scritto dal primo ministro. “E’ una battaglia che dall’inizio della Storia ha contrapposto le forze delle tenebre a quelle dei lumi”. La stessa dicotomia è applicata alle fornaci nucleari iraniane. Nel suo capolavoro, “Le Origini dell’Inquisizione”, pubblicato negli Stati Uniti da Random House, il padre di Netanyahu sostiene che l’Inquisizione fu il prototipo della persecuzione antiebraica del Novecento e che non era nata per estirpare il giudaismo come religione, ma gli ebrei come popolazione. La morale del professor Netanyahu è che “la persecuzione è eterna, cosmica”. E’ il grande messaggio che ha trasmesso ai figli: uno è morto combattendo i terroristi, l’altro vuole difendere Israele dalle centrali atomiche iraniane.
Secondo l’esperto di Iran Yoel Guzansky, la formazione ideologica di Netanyahu potrebbe spingerlo ad agire anche senza il consenso degli americani. “Netanyahu sa che le possibilità di uno scontro fra America e Iran sono molto basse al momento sulla questione nucleare, perché Washington è preoccupata più dallo Stretto di Hormuz che dal nucleare. Netanyahu potrebbe decidere di lanciare una campagna militare anche senza il consenso americano. Tutto dipende dai dati che Israele avrà in mano, non certo dal dispiacere che potrebbe provocare negli Stati Uniti. Se Israele pensa che è rimasto solo in questa operazione, agirà da solo. Netanyahu attaccherà se l’intelligence gli fornirà certezze sul danno permanente che Israele può causare al programma iraniano. Abbiamo una opzione militare contro l’Iran e possiamo distruggere ancora le centrali iraniane”.
Per capire questa mentalità israeliana si deve sfogliare un altro libro di Netanyahu scritto nel 1993, “A Place Among the Nations: Israel and the World”, in cui il futuro primo ministro, pensando all’Iran, parla del “tradimento del sionismo da parte dell’occidente”. In un capitolo dal titolo emblematico, “Betrayal”, il tradimento, Netanyahu scrive che la Gran Bretagna, “gli arabisti del Foreign Office”, “abbandonarono gli ebrei sull’orlo dell’annientamento”. Un altro capitolo è dedicato a Ze’ev Jabotinsky, il padrino della destra israeliana che vide la debolezza del liberalismo weimariano e il suo irenismo cosmopolita. Il passo preferito dal primo ministro è quello in cui Jabotinsky cita Thomas Hobbes: “Saggio è stato il filosofo che ha detto ‘homo homini lupus’. Il tenere sempre il bastone in mano è l’unico mezzo per sopravvivere in questa guerra di lupi”. In questa possibile guerra con l’Iran, i bastoni d’Israele sono i missili Jericho, i caccia F-16, lo scudo “fionda di David”, il radar “Pino Verde”, i sottomarini Dolphin, Leviathan e Tekuma. Dentro quest’ultima parola, che in ebraico significa “rinascita”, c’è tutta l’eco di una guerra che se verrà avrà gli occhi di Benjamin Netanyahu e Mahmoud Ahmadinejad.
(primo di una serie di articoli)
Giulio Meotti è giornalista del Foglio dal 2004. E’ autore di “Non smetteremo di danzare” (Lindau), inchiesta sulle vittime israeliane del terrorismo. Il libro è stato tradotto negli Stati Uniti ed è in corso di pubblicazione in Norvegia. Jewish Ideas Daily lo ha inserito fra “i migliori libri ebraici del 2010”; per il presidente del Parlamento israeliano, Reuven Rivlin, “è un lavoro impressionante che riempie i vuoti nell’opinione pubblica internazionale su Israele”. Meotti ha scritto anche per il Wall Street Journal, Commentary, National Review, Jerusalem Post, Fox News, Jüditsche Allgemeine e per Yedioth Ahronoth, primo quotidiano israeliano.
Il Foglio sportivo - in corpore sano