Sindaci in libertà

Claudio Cerasa

Flavio Tosi ma anche Michele Emiliano. Matteo Renzi ma anche Luigi De Magistris. Giuliano Pisapia ma anche Enrico Rossi. Roberto Formigoni ma anche Nichi Vendola. Nicola Zingaretti ma anche Massimo Zedda. Piero Fassino ma anche Vincenzo De Luca. C’è una ragione precisa per cui, leggendo questo elenco di nomi, vi sembrerà di notare qualcosa di curioso che accomuna questo strano gruppo di politici italiani. Quale?

    Flavio Tosi ma anche Michele Emiliano. Matteo Renzi ma anche Luigi De Magistris. Giuliano Pisapia ma anche Enrico Rossi. Roberto Formigoni ma anche Nichi Vendola. Nicola Zingaretti ma anche Massimo Zedda. Piero Fassino ma anche Vincenzo De Luca. C’è una ragione precisa per cui, leggendo questo elenco di nomi, vi sembrerà di notare qualcosa di curioso che accomuna questo strano gruppo di politici italiani. La ragione potremmo sintetizzarla con una parola che di questi tempi – tempi di forconi, di scioperi, di proteste, di manifestazioni, di ribellioni e di sputazzate varie ricevute dalla classe politica in ogni angolo d’Italia – ha tutta l’aria di essere, come dire, una merce decisamente pregiata: popolarità. Eh già: perché si può pensare tutto quello che si vuole dei sindaci di Verona, di Bari, di Firenze, di Napoli, di Milano, di Cagliari, di Torino e di Salerno, del presidente della provincia di Roma e dei governatori della Toscana, della Lombardia, della Puglia, e così via. Ma a voler guardare bene non ci vuole molto a capire che il fil rouge che tiene insieme i vari Vendola e i vari Renzi, i vari De Magistris e i vari Pisapia si lega a un fatto piuttosto elementare. Ovvero che in un momento in cui la politica viene maltrattata, umiliata, avvilita e mortificata esistono ancora dei politici che, lontano dai partiti e lontano dal Parlamento, mentre i colleghi cercano di non farsi infilzare dai forconi dell’anti politica e tentano disperatamente di schivare i colpi sparati dall’indignatissimo e spietato esercito anti casta, continuano giorno dopo giorno a essere sempre più acclamati, sempre più invocati, sempre più celebrati, e sempre più descritti come fossero ormai davvero l’unica isola felice della politica italiana.

    Certo, è vero: il partito dei sindaci, o il partito dei governatori, o il partito degli amministratori locali, o chiamatelo come diavolo vi pare, non è esattamente un fenomeno nuovo per il panorama politico italiano – e già all’inizio di questo decennio sono stati molti i casi di primi cittadini (Francesco Rutelli, Walter Veltroni, per dirne alcuni) che hanno provato a surfare a livello nazionale sull’onda del successo maturato nell’ambito della propria esperienza territoriale. Negli ultimi anni però è successo che il partito dei De Magistris, dei Vendola, degli Emiliano, dei Renzi dei Tosi ha perso la connotazione di semplice “laboratorio locale” e si è sempre più configurato come fosse davvero un fenomeno diverso rispetto al passato. Qualcuno, forse esagerando, sostiene che il nuovo partito dei sindaci sia come uno straripante corso d’acqua destinato ad andare a riempire le voragini provocate dal terremoto dell’anti politica nazionale. Magari è un po’ eccessivo, e pure un po’ troppo ottimistico, credere che la classe dirigente della Terza Repubblica prenderà vita nelle grandi città italiane. Ma di sicuro non è un caso se è proprio nei più importanti comuni del nostro paese che stanno prendendo forma alcuni significativi esempi di nuovi modelli di leadership italiane.

    Prendete il caso di Flavio Tosi, che alle prossime elezioni comunali di Verona tenterà di testare per la prima volta il modello che la Lega proverà a sperimentare alle prossime elezioni: una lista unica (in questo caso sarà una lista civica) senza alleati né a destra né a sinistra, e come va va. Prendete anche il caso di Roberto Maroni, diventato ormai l’azionista di maggioranza del Carroccio proprio facendo leva sul partito dei sindaci leghisti (da Tosi, appunto, fino ad Attilio Fontana, sindaco di Varese). Prendete il caso di Michele Emiliano e di Luigi De Magistris, che proprio attraverso il filo creato tra gli amministratori locali del meridione hanno dato vita a una sorta di movimento di sindaci la cui caratteristica principale è quella di essere per lo più non allineati con le posizioni dei rispettivi partiti (dal Pd fino all’Idv). Prendete per esempio lo stesso Nichi Vendola, che al di là di tutte le possibili ironie sul personaggio (ehi Nichi, ma che stai a di?), è stato molto abile a dare forma al proprio modello di leadership partendo prima dalla sua esperienza locale (da governatore del sindaco) e allargando poi l’influenza di Sel nel resto d’Italia investendo più sui volti simboli del suo movimento (da Massimo Zedda, giovane sindaco di Cagliari, a Giuliano Pisapia, primo cittadino di Milano) che sulla presenza capillare del proprio partito sul territorio nazionale. E ancora: pensiamo a Matteo Renzi, che è proprio da sindaco che ha costruito il suo profilo alternativo rispetto alla generazione dei Bersani, dei Veltroni e dei D’Alema; e che proprio insieme con i “suoi” sindaci (e insieme con i “suoi” amministratori locali) sta cercando a poco a poco di dare forma al suo ambizioso ed esplosivo progetto di Big bang. Ecco. Ma come è possibile che nell’epoca dello sputacchiamento della politica ci siano alcuni politici non rimasti calpestati dall’inarrestabile e infuocato clima del dàgli al politico? E com’è possibile che negli stessi giorni in cui – per dire – tutti i principali sondaggi italiani mostrano dati che sembrano inesorabilmente e drammaticamente segnare la morte di ogni possibile forma di rappresentazione partitica (secondo Ilvo Diamanti, meno del quattro per cento degli italiani dichiara di fidarsi dei partiti e circa il 45 per cento degli elettori sostiene di non voler mai più votare per gli attuali partiti presenti in Parlamento) esistano delle figure che ancora ispirano la fiducia degli italiani, e il cui indice di gradimento (vedi tutti gli ultimi sondaggi di Nando Pagnoncelli) è invece in crescita costante? L’osservatore disattento potrebbe limitarsi a rispondere a queste domande ricordando che a livello locale esistono delle condizioni favorevoli (vedi la vicinanza nei confronti dei cittadini e vedi la legittimazione diretta derivante dal modello elettorale) che rendono naturalmente più popolare il sindaco rispetto a qualsiasi altro politico di livello nazionale. Il che in parte è vero ma non è sufficiente a inquadrare in modo completo il fenomeno del nuovo partito dei sindaci.

    E dunque, da dove cominciare? Facile: ovviamente dalla legge elettorale, da quella legge cioè che dal 1993 permette l’elezione diretta tanto dei sindaci, quanto dei presidenti di provincia e di regione. La storia è nota: gli anni immediatamente successivi agli arresti di Tangentopoli fecero emergere nel nostro paese un’inedita domanda di modernizzazione del sistema politico. E quella domanda a sua volta creò le basi per una correzione maggioritaria dei sistemi elettorali sia a livello nazionale (con il mattarellum introdotto con il referendum del 1993) sia a livello comunale (con l’elezione diretta dei sindaci e la legge 81/1993). Risultato? Nel 1994, per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli italiani andarono a votare per il Parlamento con una legge quasi all’inglese: con il 75 per cento dei seggi assegnato col metodo dei collegi uninominali maggioritari ad un turno e con il 25 per cento da una sorta di recupero proporzionale. E il tutto, a pensarci bene, maturò in un contesto non così diverso rispetto a quello attuale. Anche all’epoca, come oggi, i partiti erano diventati l’obiettivo principale dei movimenti anti casta. Anche all’epoca, come oggi, la politica sarebbe stata presa in “ostaggio” da un governo di tecnici. E anche allora, come oggi, il triangolo Quirinale, Banca d’Italia ed Europa aveva riempito con successo lo spazio vuoto creato dalla grande crisi dei partiti. A livello nazionale, però, il modello elettorale figlio della crisi della Prima Repubblica (il mattarellum) ebbe una vita non molto lunga (scomparve nel 2001). Ma a livello comunale, provinciale e regionale, invece, il modello elettorale introdotto nel 1993 è rimasto tale per tutti gli ultimi vent’anni. E anno dopo anno, elezione dopo elezione, ballottaggio dopo ballottaggio, l’elezione diretta dei sindaci si è sempre di più affermata come uno dei migliori esempi di sistemi capaci di garantire alle città, alle province e alle regioni un formidabile tasso di governabilità.
    Nel corso degli anni, naturalmente, il modello del sindaco d’Italia è stato spesso criticato per essere un modello “poco democratico”, troppo incentrato sulla figura del capo, e persino troppo autoritario. E in più occasioni la figura del sindaco d’Italia è stata raccontata come fosse il simbolo perverso di una inesorabile e diabolica personalizzazione della politica. Ma è davvero così?

    “Vedete – dice Stefano Ceccanti, senatore del Pd – qui non si tratta di parlare di riforme elettorali ispirate ai modelli spagnoli, tedeschi, bavaresi, ungheresi, anglosassoni, francesi, portoghesi o americani. Qui si tratta semplicemente di fare un discorso di buon senso. E il buon senso ci dice che negli ultimi vent’anni il bipolarismo, attraverso i mattarellum comunali, provinciali e regionali, è diventato senz’altro il modello elettorale più amato dagli italiani”.
    Secondo Ceccanti (e secondo tutti i grandi fan del bipolarismo), il successo del modello dei sindaci sta nell’aver combinato i tanti fattori che stanno alla base della forza del maggioritario: leadership autorevoli, stabilità dei governi, responsabilizzazione dei ruoli di governo, decretazione d’urgenza, e così via. E’ ovvio che una riforma a livello nazionale che contenesse tutti questi ingredienti avrebbe l’effetto di rafforzare il ruolo del nostro primo ministro e di migliorare molto la governabilità del nostro paese. Ma forse, anzi togliete pure il forse, il vero ostacolo che si contrappone in Italia a una sorta di “rivoluzione francese” è proprio quello: la nostra paura, soprattutto a sinistra, di ritrovarci con un capo, con un premier, che abbia troppi poteri.

    “Tutto comincia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale – suggerisce Giorgio Tonini, senatore del Pd – quando nella nostra Repubblica maturò il famoso ‘complesso del tiranno’, inteso come quella sorta di timore di ritrovarci da un momento all’altro prede di una nuova dittatura, o quanto meno di una insufficiente capacità della giovane democrazia italiana di resistere a nuove spinte autoritarie. E’ per questo che in Italia il presidente del Consiglio dei ministri è solo un primus inter pares nell’ambito del governo e, a differenza della maggior parte dei premier europei, non può neppure nominare e revocare i ministri, ne tanto meno sciogliere le camere; è per questo che in Italia il governo in Parlamento è debole, e non dispone di alcun potere formale di agenda se non quello che gli deriva dalla decretazione d’urgenza e dalla questione di fiducia, delle quali infatti si fa da sempre largo uso ed abuso; è per questo che l’Italia è l’unica democrazia europea nella quale vige il bicameralismo perfetto; è per questo che in Italia il presidente della Repubblica rappresenta un potere di controllo sul governo più forte di quello previsto negli altri sistemi parlamentari europei; è per questo che nel nostro paese sono così forti altre, diciamo così, istituzioni di garanzia – a cominciare dalla Corte costituzionale e dalla magistratura; e infine, è per questo che nel nostro paese è previsto il referendum abrogativo delle leggi e quello confermativo per le modifiche costituzionali, ed è per questo che in Italia, a differenza di molti altri paesi, le regioni dispongono di un’assai ampia, e recentemente ampliata, potestà”.
    Ma a guardar bene se negli ultimi vent’anni i sindaci italiani sono diventati un modello di buon governo è anche legata a un concetto preciso segnalato due giorni fa sul Foglio dal sindaco di Firenze Matteo Renzi.

    “Io – ha detto Renzi chiacchierando con questo giornale – credo che non sia un’utopia immaginare di poter semplificare un giorno il nostro quadro politico dando vita a due grandi contenitori, uno di centrodestra e l’altro di centrosinistra. In fondo è quello che già succede nei grandi comuni italiani. Lì il bipolarismo è un dato di fatto, e più che sindaci del Pd, del Pdl, della Lega, o di Sel esistono semplicemente sindaci di centrodestra e sindaci di centrosinistra”. Il discorso di Renzi si lega a un elemento di riflessione che non può non colpire chiunque in questi anni si sia ritrovato ad avere a che fare con il partito dei sindaci e dei governatori italiani. Perché dietro le esperienze tanto di Flavio Tosi quanto di Michele Emiliano, tanto di Nichi Vendola quanto di Enrico Rossi, tanto di Roberto Formigoni quanto di Nicola Zingaretti esiste un dato di fatto difficilmente contestabile. Un dato che potrebbe essere sintetizzato con un ragionamento molto semplice: ormai agli elettori non gliene frega nulla delle alleanze, delle coalizioni, degli apparentamenti, dei comitati di liberazione nazionale, e alla fine dei conti quando un elettore entra in cabina elettorale e deve scegliere quale candidato andare a votare si basa solo un semplice principio elementare: si vota non per il partito più cazzuto ma molto banalmente per il candidato più forte. E insomma, per capirci: il sospetto è che gli elettori in realtà siano molto più americani, e molto più orientati a premiare il modello di personalizzazione della politica, di quanto i nostri politici possano immaginare.

    “Il successo del modello dei sindaci – dice Alessandro Maran, vicecapogruppo del Pd alla Camera – è la dimostrazione che il bipolarismo è tutt’altro che morto e che semmai dopo le traversie della Seconda Repubblica oggi resta non un modello perdente e finito ma semmai soltanto imperfetto. E anche per questo credo sia necessario che la nostra classe politica oggi trovi il coraggio di dire la verità. E la verità è che non possiamo più permetterci di non passare, subito, all’elezione diretta di una persona che abbia la forza di decidere e di guidare il paese. E poi, su: davvero non ci rendiamo conto che semplificare la politica è il modo migliore per restituire un minimo di credibilità al nostro stesso sistema politico? Davvero non ci rendiamo conto che non è possibile impedire agli elettori di scegliere quale presidente del consiglio andare a votare? Per questo – conclude Maran ¬– credo che oggi il fenomeno del sindaco d’Italia non sia più soltanto un esperimento da piccolo laboratorio della politica. Credo sia certamente qualcosa di più. Direi quasi un progetto che si è trasformato in realtà. E chissà che l’embrione del vero e futuro partito all’americana in Italia, in fondo, non esista già”.

    E a proposito di modello americano, c’è una ragione per cui sono legati più al centrosinistra che al centrodestra i nomi che vengono in mente ogni volta che il cronista prova a fare una piccola carrellata di buoni esempi di leadership territoriali. E quella ragione naturalmente la si spiega evocando una semplice parolina magica: primarie. Con le primarie, si sa, sono stati eletti quasi tutti i sindaci più popolari d’Italia (Piero Fassino, sindaco di Torino, Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, Graziano Del Rio, sindaco di Reggio Emilia), con le primarie sono stati eletti due tra i governatori di regione più popolari del Paese (Enrico Rossi, governatore della Toscana, e Nichi Vendola, governatore della Puglia) e non può sorprendere se questo rapporto sempre più stretto tra la parola “popolarità” e la parola “gazebo” abbia portato anche il centrodestra a scommettere su questo strumento elettorale. Per il momento l’esperimento verrà portato avanti solo a livello comunale (il primo test è stato fatto lo scorso 29 gennaio a Frosinone ed è andato piuttosto bene; il prossimo, più importante, verrà invece fatto il 18 marzo a Palermo, dove, ironia della sorte, il centrosinistra si è deciso solo ieri a non annullare le primarie prima convocate, poi sconvocate, quindi riconvocate, poi annullate e ora di nuovo miracolosamente confermate). Ma chissà che da qui alle prossime politiche anche a livello nazionale il Pdl non si decida a far proprio quello che oggi, insieme al modello elettorale dei sindaci e dei governatori d’Italia, sembra essere davvero l’unico vero scudo capace di proteggere la classe politica italiana dai forconi dell’anti politica e dai colpi sparati dall’indignatissimo e spietato esercito anti casta.

    www.ilfoglio.it/cerazade
    Twitter @ClaudioCerasa

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.