Non si può discutere di articolo 18 senza abolire prima il pubblico impiego
Parole d’oro, monete sonanti più di ogni spread o rating, quelle di Mario Monti sull’articolo 18 “pernicioso per l’Italia”. Per gli italiani, aggiungerei, per chiunque lo idolatra, in tal modo rinunciando alla sua gloria, all’avventura. E magari in politica fanno i movimentisti e danzano girotondi, come un tempo i loro padri.
Parole d’oro, monete sonanti più di ogni spread o rating, quelle di Mario Monti sull’articolo 18 “pernicioso per l’Italia”. Per gli italiani, aggiungerei, per chiunque lo idolatra, in tal modo rinunciando alla sua gloria, all’avventura. E magari in politica fanno i movimentisti e danzano girotondi, come un tempo i loro padri, ora congelati in qualche sclerotico ente pubblico, cantavano le lodi dei “flussi desideranti” di Deleuze e Guattari. Ma andiamo per ordine.
Ci sono voluti cent’anni perché dalle moltitudini fosse riconosciuta la radice maligna del comunismo, che non è riformabile, né buono qui e cattivo là, ma per sua intrinseca natura e nonostante la generosità di tanti suoi adepti, inesorabilmente bacato fin dalle fondamenta. Quanti anni ci vorranno per riconoscere l’irredimibile stortura di un fenomeno che con il comunismo ha avuto molto a che spartire ma di gran lunga lo precede e dopo il crollo gli sopravvive: il pubblico? Grazie all’articolo 18 quasi tutto l’impiego, anche quello privato, diventa in una certa misura pubblico, costretto in una camicia di forza. E questo non è bene, perché se va abolito l’articolo 18 certo prima ancora va abolito il pubblico impiego, fonte di ogni perversione economica e sociale. Anche nel privato ci sono porcherie di ogni genere, ma lì puzzano meno; non sono spacciate come effetto collaterale del bene comune, restano porcherie e basta.
L’interesse della proprietà, la necessità di crescere e di guadagnare, garantisce l’etica dell’impresa tutelando l’azienda dai cancri del pubblico: raccomandazioni e corruzioni, parassitismi, lassismi, assenteismi… I danni nel privato – nel vero privato, quello che non collude con il pubblico – sono limitati, ma soprattutto è evitata la corruzione dell’anima; non vige la menzogna che il pubblico sbandiera, quella di volere il bene di tutti noi, arrogandosi la pretesa di farci da mamma. Con ciò non si vuole dire che tutti i temperamenti servili militino nel pubblico e tutti gli avventurosi nel privato. Vi sono anche nel pubblico tipi in gamba, eroi addirittura, gente che va lì apposta per riformarlo, per conferirgli dignità, così come accadde nella rivoluzione sovietica. Ma per il pubblico, al pari del comunismo, essendo bacato di sua natura, lo sforzo di costoro risulta vano. Finiscono per puntellare i beceri, per coprirli, come un Majakovskij dava lustro a Lenin.
L’articolo 18 e il pubblico impiego sono casse da morto dove per pigrizia ci si rinchiude. Chi ambisce a così poco, si accomodi, è libero di farlo, ma lo stato non può fornirgli la cassa, è eutanasia. Lo stato deve fomentare la voglia di vivere, e vivere significa lottare, inventare, cambiare, fare quel che si ama e amare quel che si fa. Dio ci scampi dai disinteressati. L’interesse crea l’etica nell’uomo, se non si ha interesse per quel che si fa, lo si fa male e si fa del male; ma si può essere interessati solo a quello che liberamente si sceglie in uno slancio amoroso, non per una comodità o un tornaconto. Il posto ciascuno se lo deve creare, a misura del proprio desiderio, solo allora si sentirà vivo.
Appena possono, gli impiegati a tempo indeterminato si abbandonano al lamento e all’ipocondria, raccontandosi l’un l’altro le proprie malattie, vere o presunte; vivono nell’attesa della morte, metafora di quel licenziamento che li scaraventi in una qualche impresa. Pubblici o privati che siano gli operai non parlottano, non si lamentano, non ne hanno il tempo, non possono distrarsi, rischiano la pelle. C’è tanto amore e tanto prigioniero desiderio nel loro affannoso destino che quando sento che si mettono insieme fondando una cooperativa o qualche padrone li associa all’impresa, mi si apre il cuore.
Il Foglio sportivo - in corpore sano