Primo di due articoli
La tremenda solitudine di Formigoni in cima al Formigone
Affacciato pensieroso alle finestre del suo Formigone, il nuovo Palazzo Lombardia sede della Regione, l’eredità visibile che il Governatore lascerà, prima o poi, come segno del suo lunghissimo e tutto sommato fortunato regno, più lungo ormai di quello di Franz Josef Strauss, Roberto Formigoni interroga gli astri, i sondaggi, i consiglieri e le dichiarazioni dei nemici e soprattutto degli amici per leggere indicazioni del suo futuro.
Affacciato pensieroso alle finestre del suo Formigone, il nuovo Palazzo Lombardia sede della Regione, l’eredità visibile che il Governatore lascerà, prima o poi, come segno del suo lunghissimo e tutto sommato fortunato regno, più lungo ormai di quello di Franz Josef Strauss, Roberto Formigoni interroga gli astri, i sondaggi, i consiglieri e le dichiarazioni dei nemici e soprattutto degli amici per leggere indicazioni del suo futuro.
“Negli ultimi venti anni ci siamo visti sì e no una volta all’anno per Natale”, ha detto qualche giorno fa l’arcivescovo di Milano, il suo vecchio amico Angelo Scola. Parole che sono sembrate oltremodo brusche, per un amico che ha condiviso un lungo percorso dentro Comunione e Liberazione. Poi le strade professionali si divisero. Ora Scola è l’arcivescovo di tutti, dice di non sconoscere dentro Cl “tutti quelli che hanno meno di sessant’anni”, e se ha un punto verso cui guardare non è il Formigone, ma è a forma di cupolone. Pochi giorni prima, una lunga intervista al Corriere della Sera del responsabile di Comunione e liberazione, don Julián Carrón, aveva messo paletti piuttosto netti scindendo il movimento ecclesiale dalle responsabilità personali di chi fa politica, mai a titolo di Cl. E’ suonata come un’altra bella presa di distanze. Soprattutto perché piovuta nel momento in cui – stando ai magistrati, agli organi di stampa e ai rumors del palazzo – Formigoni e i suoi stanno parecchio sotto schiaffo (ma analoghe precisazioni da parte di Carrón, tra l’altro per la sua storia molto lontano dalla politica italiana, erano venute in passato). Un profluvio di inchieste che non toccano direttamente il Celeste, ma alcuni di quelli che vivono nella sua orbita, nei suoi cerchi di Saturno – il caso Daccò-San Raffaele, il caso Ponzoni, per stare ai recenti – e che stanno facendo precipitare alcuni pezzi della maggioranza che lo sostiene e hanno fatto dire a Bossi: “Lì ormai ne arrestano uno al giorno”. Poi ci sono gli inghippi tecnico-politici, l’impossibilità di ricandidarsi ancora (anche se è probabile che si butterebbe lui giù dal Formigone, tanto è stufo), la rottura con la Lega, lo spampanamento del Pdl su cui si misurano anche le sue ambizioni nazionali. Che farà ora, Formigoni? Come si comporterà in politica quella straordinaria forza d’urto che è la galassia ciellina? Quali sono le sue chance effettive?
Da lassù, in cima al Formigone, lui è il corpo celeste attorno a cui girano orbite, nebulose, anelli di Saturno più o meno gassosi che oscurano, visto dal basso, la visione nitida del pianeta-Formigoni, la percezione della sua solidità, della sua reale forza gravitazionale. Dopo 40 anni esatti di presenza sulla scena politica, dopo quasi vent’anni alla guida della regione più grande e ricca d’Italia, l’unica che potrebbe tranquillamente starsene in Europa da sola, Roberto Formigoni continua a essere per molti, soprattutto per i detrattori a mezzo stampa, un oggetto misterioso. Di cui resta difficile stimare la consistenza e prevedere il futuro. Ma su cui inevitabilmente si addensano i sospetti legati a un lungo e grande potere. In realtà, una grande parte del mistero Celeste sta nella complessità, decifrabile solo a chi vi faccia davvero attenzione, della storia politica di Formigoni. La quale è tutt’uno con la storia del rapporto contiguo e conflittuale a un tempo tra Cl e la politica. Ma anche con tante altre cose: fili rossi, idee e ideali, legami e storie personali che nessun solvente, neanche cardinalizio, riuscirebbe mai a sciogliere.
Quando nacque nel 1973, dentro Cl, la prima “Redazione culturale” – l’antenato del Movimento popolare – il cui compito era “aiutare e sostenere l’intervento politico di Cl”, i primi responsabili ne furono Roberto Formigoni e Fiorenzo Tagliabue. Fra i capi del movimento degli universitari a quel tempo c’era don Angelo Scola. Scrive Massimo Camisasca nella sua storia di Cl che “in un contesto altamente politicizzato, i primi giessini diventati adulti non potevano evitare di prendere posizione sulla questione politica in quanto tale”. Adesso uno fa il governatore della Lombardia, un altro è arcivescovo di Milano, e Tagliabue è un potente uomo di comunicazioni che ha curato le campagne di Formigoni. Tagliare i nessi, vedersi solo a Natale, distinguere tra Cl e la politica è una sottile linea porpora.
Il rapporto con la politica Cl lo ha nel suo Dna, l’ha praticato per decenni. Le forme cambiano, ma gli elementi profondi sono sempre quelli. La prima “Bozza di documento sul significato politico della comunità cristiana”, redatta per la Scuola quadri di Cl nel 1972, parlava di “comunità cristiana come soggetto politico”. Si legge: “Ciò che non è ancora chiaro è che vivere la fede in una situazione data pone un orizzonte globale che già possiede il momento politico. Il lavoro politico per noi coincide con il materializzarsi della comunione”. Un convegno al Palalido di Milano del marzo 1973 segnò il debutto nazionale di Cl in quanto soggetto (anche) politico. Un impegno, un linguaggio, una metodologia che traduceva nello Zeitgeist un’idea precisa dell’essere cristiani dentro, e non a lato, della storia, anche se in quella fase si cedeva non poco alla moda gruppettara. Ma già allora la cosa andava a scontrarsi con il realismo di don Giussani. Nel 1969, scrive Camisasca, si parla “della Dc come del partito che, almeno psicologicamente, ci è più familiare”, anche se il giudizio sulla storia e il ruolo del partito cattolico è già molto netto: la Dc “non ha mai rappresentato l’unità politica, ma semmai l’unità elettorale dei cattolici, dove il significato prevalente del termine ‘cattolico’ è quello di una adesione a una tradizione, adesione probabilmente priva di coscienza del cristianesimo”. Fu Giussani a correggere una rotta che virava a sinistra. Camisasca: “Tra la ‘ideologizzazione accanita dei partiti italiani, eredi dell’accanito anticlericalismo e libertarismo del laicismo ottocentesco’, e una Dc che ‘in questi 25 anni non ha certo tenuto presente in modo visibile quei principi che afferma come principi ultimi da rispettare, a mio avviso non c’è altra scelta, purtroppo”, diceva Giussani negli anni 70. Il collateralismo stava stretto a Cl, ma il realismo nel posizionamento è in fondo analogo a quello che si riprodusse, 25 anni dopo, nel collateralismo molto più spericolato con Berlusconi.
Nel 1974 un documento di Cl sul referendum per il divorzio esprimeva una sensibilità che si sarebbe riprodotta con analoghe tonalità anche molto dopo, nelle successive battaglie sui cosiddetti valori non negoziabili dell’epoca ruiniana: “Noi non avremmo fatto il referendum. La battaglia per la difesa della famiglia andava condotta assai prima, e con un respiro assai più vasto e nel contesto di un deciso movimento verso un altro modello di società”. Come andava dicendo Formigoni nel 1976: “Il movimento cattolico non è un sentimento o una devozione, l’unità dei cristiani non è una teoria o una ideologia” ma “la presenza di strutture nuove, culturali e materiali, dentro il mondo”. Ma allo stesso tempo si avvertiva il rischio di farsi schiacciare sulle questioni di principio. E’ un altro dei nebulosi cerchi di Saturno che rendono per molti indecifrabile la collocazione politica dei ciellini, e del loro leader più noto.
Qualche giorno fa l’intervista del successore di don Giussani al Corriere della Sera ha fatto scalpore, per qualcuno, perché vi si indica una linea di separazione tra Cl e la politica. Ma nel febbraio del 1976, a due mesi dalla nascita di Movimento popolare, braccio politico, Giussani diceva: “Cl in università è un fatto politico più che un fatto ecclesiale e questo ci strozza. Questo è il nodo cruciale del movimento”. Importante è “evitare gravi equivoci sulla natura ecclesiale del nostro movimento”. Pochi mesi dopo, si chiarisce che “non esistono candidati di Cl, né nelle liste della Dc né in alcuna lista”. Esistono “candidati che liberamente esprimono l’esperienza di Cl”. Trentasette anni dopo, sono esattamente le parole di don Carrón. Non è cambiato nulla, il nodo di Gordio resta reciso e non reciso, è solo cambiato il mondo intorno. E in quei quattro decenni si è svolta la parabola di Formigoni e dei molti politici che “liberamente esprimono l’esperienza di Cl”.
Trent’anni fa tutto questo andava in controtendenza con la scelta religiosa prevalente nell’Azione cattolica, esausta dopo decenni di collateralismo, e col disimpegno delle altre componenti del mondo cattolico (Giussani in un libro intervista con Robi Ronza spiegava: “Da una parte una concezione in cui la fede non c’entra con la dinamica dell’affronto di problemi socio-culturali e politici, dall’altra una concezione per cui la fede senza cultura appare, come ha detto Giovanni Paolo II ‘non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”). Paradosso: oggi timidamente e confusamente da alcuni settori cattolici arriva l’appello a un nuovo impegno diretto in politica (il convegno di Todi, il movimentismo di Andrea Riccardi, ministro e fondatore di Sant’Egidio, la dichiarazione dell’Azione cattolica di qualche mese fa sulla necessità di superare la scelta religiosa); ma Cl sembra invece indirizzarsi verso un downgrade dalla politica. Non già una “scelta religiosa”, ma una sottolineatura molto marcata del carattere ecclesiale della sua esperienza, della sua sempre maggiore proiezione internazionale. Milano resta il cuore del movimento, la politica italiana un po’ meno.
La seconda puntata sarà pubblicata prossimamente sul Foglio
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