Cl e il suo leader politico tra lo stallo e la “prossima mossa”

Maurizio Crippa

Che farà dunque Cl in politica, o almeno i suoi liberi e laici politici? Milano e la Lombardia, ma pure l’Italia intesa come campo politico, da tempo vanno strette a Cl. L’offuscarsi dello schema bipolare, della stella polare del berlusconismo come scelta di campo “ragionevole”, sono elementi che dicono che il futuro del governatore e della sua folta pattuglia sarà tutto da inventare.

Leggi la prima puntata La tremenda solitudine di Formigoni in cima al Formigone di Maurizio Crippa

    Che farà dunque Cl in politica, o almeno i suoi liberi e laici politici? Milano e la Lombardia, ma pure l’Italia intesa come campo politico, da tempo vanno strette a Cl. L’offuscarsi dello schema bipolare, della stella polare del berlusconismo come scelta di campo “ragionevole”, sono elementi che dicono che il futuro del governatore e della sua folta pattuglia sarà tutto da inventare. Anche se non va dimenticata la propensione alla responsabilità di Cl di fronte alla politica, e l’obbedienza alle indicazioni della gerarchia (uno dei problemi è, anzi, la loro attuale e totale nebulosità, in epoca post ruiniana). E soprattutto l’esistenza di un anello di Saturno piuttosto esteso, milanese e lombardo, di un mondo che dalle imprese della Cdo alla dirigenza della sanità ruota molto stretto attorno all’attuale asse orbitale, e che difficilmente accetterà o riuscirà ad autodissolversi come neve al sole. Qualunque strada prenderanno i formigones, è difficile immaginare uno sganciamento da un voto ciellino “in libera uscita”.

    Il rapporto con le “opere”, la politica del fare, della presenza, la contiguità con l’amministrazione sono da sempre l’altro anello nebuloso che circonda il “modello Lombardia” di Formigoni e attira le critiche e le demonizzazioni, assieme a una bella pattuglia di mosche da miele. C’è sempre stata una diversa concezione della politica tra Cl, l’Azione cattolica e il resto del mondo cattolico. E ancora oggi uno dei punti di frizione, l’accusa di “immoralismo”, è proprio la “zona grigia”, la troppa passione per l’economia, “l’affarismo”. E’ a questo che il modello lombardo, cronache alla mano, rischia oggi di essere soprattutto impiccato. Ma anche lì cambiare orbita non è semplicissimo. L’evoluzione dell’avventura politica ciellina verso le “opere”, verso il fare, è una storia lunga, fatta di scelte, persone, interessi.

    Negli anni Ottanta la storia di Cl cambia. Dopo la battaglia ideologica sessantottesca, la nascita nelle università dell’esperienza dei Cattolici popolari segna da un lato l’inizio di una svolta culturale e politica, negli anni del cosiddetto ritorno (disilluso) al privato; un interesse meno ideologico, un linguaggio che risente del nuovo clima, una propensione a sporcarsi le mani con il concreto. E poi l’emergere di una nuova generazione, di cui fanno parte politici di primo piano oggi: Mario Sala, pivot in Consiglio regionale lombardo, Maurizio Lupi, consiglieri e assessori regionali capaici come Marcello Raimondi, Raffaele Cattaneo. Dal “Movimento cattolico popolare per una democrazia sostanziale” a “la prima politica è vivere”, per citare lo slogan di un grande convegno pubblico con cui i Cattolici Popolari scesero in campo nelle università. In mezzo c’era stato anche l’arrivo sulla chiesa italiana del ciclone wojtyliano. E poi ruiniano. Cl lavorò consapevolmente per rompere lo schema della scelta religiosa, della mediazione. La “chiesa di popolo” wojtyliana finì per coniugarsi, almeno a grandi linee, con la presenza politico-sociale dei ciellini. Assieme a una nuova consapevolezza dell’agire di popolo e delle opere.

    La svolta ancora una volta la segnò don Giussani, ancora una volta la platea era di casa per Formigoni. In un suo raro intervento come ospite a un convegno della Dc lombarda, ad Assago nel 1987, Giussani tracciò un’idea del lavoro politico inedita nel panorama cattolico, e nella stessa Cl, e praticamente incomprensibile per dei tranquilli democristiani a fine corsa. Due anni prima della caduta del Muro e dell’avverarsi della grande omologazione della globalizzazione, un discorso di quelli che si usa dire profetici. Il fondatore di Cl enunciò “l’irriducibilità della coscienza” alle istituzioni come unico antidoto all’affermarsi di un potere sempre più impersonale e nemico dell’uomo. Citò il filosofo Václav Belohradsky: “E’ molto facile per noi riuscire a immaginare istituzioni organizzate così perfettamente da imporre come legittima ogni loro azione”. E poiché “nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti”, disse alla platea stupita che “è nel primato della società di fronte allo stato che si salva la cultura della responsabilità”. Lo slogan “più società meno stato” diventò il mantra definitivo della politica ciellina. Attorno al corpo Celeste iniziò a orbitare con maggior precisione il cerchio di Saturno della Cdo. Dagli assessorati allo sport e alle biblioteche – il parcheggio in cui finivano regolarmente i votatissimi politici ciellini dentro la Dc – alle cose che contano, e pesano, la fiera di Milano, la sanità, l’urbanistica.

    Nel cerchio di Saturno dei politici formigoniani di oggi convivono insomma due generazioni e anche due sensibilità, un amalgama di storie e di idee duttile, che ha attraversato i decenni della crisi dei partiti (sopravvivendo alla Dc) e del provvisorio bipolarismo italiano. Che Formigoni sia affezionato, forse di suo anche un po’ nostalgico, alla prima sensibilità, quella delle battaglie anti ideologiche, è un dato di fatto. Che abbia imparato (e ben gestito) la sensibilità più pragmatica successiva, anche.
    Nel frattempo, ci sono da seguire anche le grandi battaglie ruiniane. E il generarsi, soprattutto nel riflesso dei media, di un’immagine apparentemente divisa, quasi un dualismo (che per Cl è sempre stato sinonimo di eresia) tra l’adesione obbediente, anche se non sempre convintissima, a una politica ecclesiale basata sulla difesa dei valori (del resto era stato così anche ai due referendum su divorzio e aborto, che Cl non avrebbe fatto ma in cui lealmente combattè) e la politica-business, senza mediazioni nel collateralismo berlusconiano. E’ comunque in questo ventennio che Formigoni consolida la sua leadership personale, che però oggi appare un po’ meno sfavillante, e soprattutto, nel momento della fine del “collateralismo subordinato” a Berlusconi – sancito in novembre dalla repentina adesione all’ipotesi di governo tecnico, dopo mesi di frizioni, prese di distanza, battutacce, richiesta di primarie – di difficili e incerte prospettive. “Ce la farà Formigoni a diventare un leader nazionale?”, è una domanda che posta così ha poco senso, perché andrebbe preceduta da una più generale: ma perché Formigoni non si è mai fatto un partito suo, o una corrente vera? Altri politici, con meno potere e carisma, ci sono riusciti. Magari comici, magari poteri miserabili, localistici, ma ce l’hanno fatta.

    L’uomo che è stato paragonato a Franz Josef Strauss, il politico che da anni immagina un modello Csu federato per il suo Pdl del nord, e non è mai riuscito a ottenerlo, non ci ha mai davvero provato. Al massimo ha tirato insieme Rete Italia, che è qualcosa di più e di diverso, ma anche di meno, di una corrente, e meno estesa, come influenza, del delfinato di Angelino Alfano.
    Anche la risposta a questa domanda sta nell’incrocio tra varie questioni. Alcune delle quali così profonde da arrivare nell’anima di Cl. Da una parte ci fu la Dc. Paradossalmente Cl, nel suo pan-politicismo degli anni Settanta, decise di non voler mai diventare un soggetto politico autonomo, un partito, una corrente organizzata. Puntò a “entrare nella Dc per riformarla”, ma senza avere gli strumenti per farlo davvero. Poi venne il problema del rapporto con Berlusconi. Che per i ciellini, a parte qualche caso, non è mai stato “l’unto del Signore” che affascinava don Gianni Baget Bozzo, ma un imperatore buono sotto la cui ala combattere, crescere e prosperare, questo sì. Fedeli fino a qualche punta grottesca (“hanno finito per giustificare il bunga bunga”, è un’accusa che è stata rivolta in generale a tutti i cattolici nel Pdl) e fino a un passo dalla fine, i politici ciellini hanno difeso Berlusconi. Perché non potevano fare altro. Ma Formigoni l’ha subìto più degli altri, e con crescente insofferenza. Vittima del sospetto di rivalità di Berlusconi, non ha avuto la forza o lo spazio di manovra per andare da solo anni fa, quando la sola ipotesi di una sua lista autonoma alle regionali fu cassata con violenza verbale e politica, ed è rimasto all’ombra del Re, qualche gradino sotto i vari viceré, incollato alla rete dei mille interessi degli anelli di Saturno. Infine ha dovuto ingoiare lo sgarbo politico del caso Minetti, che ora sta pagando, lui, con una campagna furibonda dei Radicali sulla faccenda delle firme che, goccia dopo goccia, sta sporcando la storica credibilità della macchina del consenso formigoniana.
    La questione è che, 25 anni dopo lo slogan di Assago, il ciellinismo realizzato in Lombardia è un modello ibrido, ma diverso dal puro liberismo sussidiario. E’ più simile a un’economia sociale di mercato, un patto di ferro tra privato e conduzione politica pubblica. O, paradossalmente per i nipotini di Sturzo e De Gasperi, alle partecipazioni statali di Fanfani. Il sistema pubblico-privato della sanità si regge anche su un controllo ferreo dei posti di responsabilità. Infrastrutture Lombarde è la spa regionale che ha il controllo praticamente di tutte le opere pubbliche e delle maggiori strutture; per non parlare di aziende pubbliche modello come A2A, l’acquedotto milanese, la Sea, che alla medesima filosofia generale di collaborazione tra pubblico e privato si ispirano. Persino nella complicata partita dell’Expo, alla fine il modello Formigoni si è imposto: è lui il commissario, è l’accordo raggiunto con gli immobiliaristi proprietari delle aree interessate a reggere il progetto, assai criticato dai profeti dell’Expo verde e solidale. E si torna al rapporto tra politica, affari e margini sospetti dell’affarismo.

    In realtà va detto che gli standard di efficienza lombardi (sanità in primis) sono inattaccabili, e che in 25 anni di presunte “zone grigie”, la loro tinta è statisticamente più che accettabile. Questo lo sanno anche i cittadini. Checché sbraiti Marco Cappato, con buona pace degli editoriali dei Francesco Merlo e degli Alberto Statera, Formigoni non è il governatore eletto dai ciellini e dalla ’ndrangheta, ma dai lombardi che giudicano, tutto sommato, buono il suo lavoro. Ma con un’impostazione così, in quale futuro Pdl, o centro cattolico moderato, vorrà o potrà approdare Formigoni?

    Certo, a indebolirlo ci sono oggi le inchieste che orbitano attorno e dentro al Consiglio regionale (quasi tutti i partiti) e una diffusa sensazione di connubio tra politica e affari. Formigoni, fino a oggi, si è difeso dicendo di non entrarci. In effetti, fino a oggi il suo debole sono state soprattutto le barche. L’avevano fotografato in barca nei primi anni 2000, quando lo lambirono le ombre di Oil for Food, rimaste poi il vero macigno di sospetto americano che ha sempre impedito al Celeste anche solo l’avvicinamento a Piazzale della Farnesina, il suo antico sogno. L’avrebbero avvistato su quelle di Ponzoni (“non ho mai usufruito di vacanze o barche pagate”, ha replicato duro). Al Governatore piace il mare, la vita sportiva, il tifo per il Milan ne ha fatto per lunghi anni un naturaliter berlusconiano. Si sarà fatto delle vacanze in barca, gli è sempre piaciuto vestirsi bene, finché non gli è scoppiata la mania delle magliette e delle camicie a fiori. In fondo, è sempre stato un uomo immagine. Fin dalle sue prime elezioni regionali, quando fece il botto come primo degli eletti nella Dc, certi quartini di propaganda su cui compariva, figura intera, in completo e cravatta, la barba curata, furono subito affettuosamente ribattezzati, nel gergo dei militanti che li distribuivano a migliaia nei mercati, i Facis o i Lebole (“Ho un debole per l’uomo in Lebole”). Trent’anni dopo, stufo e annoiato nella sua stanza del Pirellone, ha deciso di sfogare il suo edonismo e le ambizioni politiche nelle giacche giovanilistico-sgargianti, nelle camicie da figlio dei fiori, nelle magliette di paperino che spiazzano nel marketing delle immagini la sua icona di dittatore quasi a vita del sistema politico-affaristico lombardo. E’ la libertà, il segnale di insofferenza che si è ritagliato contro il ruolo istituzionale. 
    Chiunque lo conosca, sa che Formigoni non è uno che si è arricchito, non l’ha mai nemmeno interessato, vola alto, pensa con un po’ di frustrazione alla grande politica. Allo stesso tempo, è stato per due decenni il pivot, e l’ombrello protettivo, sotto cui il modello si è sviluppato. Nel bene – il sistema “partecipazioni statali” e il pubblico-privato, la sussidiarietà per le scuole, gli ospedali, le famiglie: la sua vera eredità che chiunque verrà dopo di lui potrà solo usare come base di partenza, pena la rovina di una buona amministrazione – e nel male, il sottobosco affaristico, in cui tornano sempre, come in un incubo dal quale non riesce a svegliarsi, gli stessi nomi, gli stessi vecchi amici di una vita. Che non ha mai controllato, ma che gli è orbitato intorno come rete di sostegno, o forse gabbia. Affacciato alla finestra del suo Formigone, il Celeste cerca di vedere al di là delle nebulose che lo hanno sempre protetto e oggi lo stringono. Da sotto, tanti si interrogano su cosa farà, su quale strada prenderà il non immenso, ma pur sempre ragguardevole potere che l’espressione politica di Cl (“Cl ha avuto il merito storico di generare me, ma il Formigoni ha sempre avuto un consenso venti volte superiore a quello dei ciellini”, aveva detto anni fa a Gad Lerner) ha prodotto in 40 anni di storia italiana che ha attraversato due repubbliche, ora che ci si affaccia sul confine della terza.

    Da una parte, c’è qualche rara dichiarazione formale che  guarda al ritorno ideale alla “comunità cristiana soggetto politico”. Il che, nell’era della globalizzazione impolitica, della morte della democrazia rappresentativa, non ha troppo senso. Dall’altra parte, c’è sempre stato l’ambizioso progetto politico che Formigoni, con Lupi, con l’europarlamentare Mario Mauro, ha coltivato nell’epoca del berlusconismo. Se un tempo era quello di innervare la Dc – partito “non cattolico” – con un nuovo movimento cattolico, poi è stato il Pdl, contenitore laico-liberale non ostile alla presenza cattolica, a divenire campo di sperimentazione, per farne una branca del Ppe europeo, un partito in cui la componente moderato-cattolica a guida ciellina potesse prendere, nel futuro post berlusconiano, la funzione di guida, di massa critica. Da qui la ricerca di un consenso con Pisanu e Scajola prima, con Sacconi poi, con Alfano alla fine. Ma la caduta burrascosa del governo Berlusconi e il governo Monti hanno scompaginato largamente i piani. L’investitura di Alfano, e soprattutto il repentino abbandono di Berlusconi per sostenere un governo che rischia di smontare il Pdl e il bipolarismo e darla vinta, almeno sul piano concettuale, a Casini, sono pietre d’inciampo mica male sulla strada.

    Dall’altra parte, il velleitario ritorno all’impegno di tante sigle cattoliche, Todi e dintorni, è visto e vissuto con più di una perplessità, prima ancora che con sospetto, dal movimento. Cl che aveva obbedito, senza particolare trasporto intellettuale, allo schema del bipolarismo valoriale che Ruini aveva ritagliato come una carta velina e sovrapposto al bipolarismo berlusconiano, preferirebbe ora, probabilmente, avere le mani libere per la sua testimonianza cristiana e culturale, la sua operatività sociale, che non può essere ingabbiata in schemi valoriali o in finte appartenenze dentro un improponibile contenitore cattolico o un puro cartello elettorale. Non è per nulla casuale che il più importante intervento pubblico di Cl degli ultimi mesi è stato un documento sulla crisi – intesa però anche come crisi di ragioni per l’impegno, di rinuncia alla costruzione del bene personale e sociale – e che attorno ai giudizi su questo documento si sia mobilitato l’intero movimento, base, vertici e politici professionali. Lontano, molto lontano è il panorama della politica e dei partiti, lontane sono le alchimie e le previsioni degli astrologi sulle future costellazioni politiche, e sul nome degli astri che le domineranno. Tutto questo, osserva, perplesso e dubbioso, ma anche con una gran voglia di iniziare la sua battaglia, quello strano caso di un Saturno che rischia di finire divorato dai suoi padri, che è Roberto Formigoni.

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    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"