Oltre la carta
Chi sta leggendo questo articolo sulla carta è bene che sappia di essere considerato da non pochi osservatori una specie in via d’estinzione, un residuato del secolo scorso, un nostalgico che prima o poi rimarrà vivo solo nei racconti di qualche edicolante sopravvissuto al trapasso sull’on line. Chi invece sta leggendo queste parole su Web, tablet o smartphone, sappia che fa già ufficialmente parte di un luogo comune, quello per cui “il futuro è quello”.
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Chi sta leggendo questo articolo sulla carta è bene che sappia di essere considerato da non pochi osservatori una specie in via d’estinzione, un residuato del secolo scorso, un nostalgico che prima o poi rimarrà vivo solo nei racconti di qualche edicolante sopravvissuto al trapasso sull’on line. Chi invece sta leggendo queste parole su Web, tablet o smartphone, sappia che fa già ufficialmente parte di un luogo comune, quello per cui “il futuro è quello”. Al momento però è con il presente che i giornali di tutto il mondo devono fare i conti, e il fatto che i conti non tornino crea non poche difficoltà a quegli editori e giornalisti che stanno provando a reinventare mestiere e piattaforme per cercare gli uni di continuare a guadagnare (o almeno non perderci troppo), gli altri di riuscire a raccontare qualcosa di bello ai lettori. Per fare due esempi recenti, è di tre giorni fa la notizia della liquidazione coatta amministrativa del manifesto, e di un paio di settimane antecedente quella dell’abbandono delle tipografie da parte del quotidiano francese La Tribune, che ha deciso di pubblicare solo on line per sopravvivere. E se un po’ confortano i dati di Audipress secondo i quali aumenta il numero di lettori dei quotidiani cartacei, bisogna ricordare che il trend delle vendite è da anni in calo.
La questione non è più se la gente sia disposta o meno a pagare per leggere articoli in digitale (lo è, soprattutto se gli articoli sono di qualità), ma se e quanto questo possa permettere ai giornali come li conosciamo oggi (strutture modellate con criteri del secolo scorso) di vivere ancora a lungo. I tentativi per affrontare la crisi della carta – lettori in calo, costi di stampa e distribuzione in aumento parallelamente a redazioni che si ingrandivano a dismisura – sono stati molteplici e non tutti fortunati. Spesso obbligati, raramente ispirati dal puro desiderio di sperimentare modalità nuove. Per anni ci si è interrogati, ad esempio, se i siti web potessero essere una fonte di reddito diretta, e non solo di investimenti pubblicitari legati ai clic. Dopo un inizio “tutto gratis” nei primi del 2000, si è deciso che non si poteva regalare il lavoro di una redazione a chiunque transitasse sulla pagina internet del giornale. Si è provato con i contenuti a pagamento, ma – soprattutto in Italia – si è tornati in fretta al vecchio metodo, visto il crollo dei clic e i pochi utenti disposti a pagare.
Sono così nate le redazioni on line, le quali però lavoravano a parte, creando contenuti diversi da quelli del cartaceo ma interfacciandosi molto poco con chi confezionava il giornale per l’edicola. Per qualche tempo questo genere di redazione è stato considerato, soprattutto dai mostri sacri della carta stampata, una redazione di serie B, roba per fissati dei computer, e il sito internet una sorta di deposito delle idee che non avevano trovato fortuna nella riunione per decidere i contenuti del giornale. Mentre in Italia succedeva tutto questo, nei paesi anglosassoni alcuni giornali avevano già chiuso la versione stampata e si erano spostati completamente sul Web, altri sperimentavano nuove modalità di pagamento dei contenuti, e contemporaneamente nascevano i cosiddetti aggregatori, siti internet che raccoglievano idee da quotidiani e blog sparsi sulla rete e li rilanciavano, rielaboravano o commentavano (l’esempio principe è l’Huffington Post di Arianna Huffinghton che, per quel che vale, ha ormai superato il New York Times per numero di visitatori on line); e mentre in alcuni giornali italiani i redattori si rifiutavano di scrivere per il sito, in Inghilterra il Telegraph ristrutturava la redazione mettendo i tavoli dei giornalisti disposti a raggio attorno al desk dei caporedattori dedicati a carta e Web, e il Guardian invertiva l’ordine delle priorità in riunione di redazione: prima i contenuti per l’edizione digitale, poi quelli per la carta. Nel frattempo il giornalismo anglosassone ha introdotto nuove figure in redazione, prima fra tutte il social media editor (che il New York Times ha appena eliminato), una sorta di coordinatore della presenza del quotidiano sui social network e contemporaneamente osservatore di notizie e argomenti che vanno per la maggiore su queste piattaforme (da Facebook a Twitter passando per Linkedin, Instagram e altre ancora).
L’Italia, come spesso succede, è arrivata dopo. Troppo legati a modelli di business datati, e con incentivi legati alla stampa delle copie, i giornali italiani hanno investito sulle versioni on line solo negli ultimi tempi, e da poco sono nati anche da noi quotidiani esclusivamente su Internet (il Post di Luca Sofri, di cui parleremo più avanti, è stato uno dei primi esperimenti di questo tipo, ed è nato nel 2010). Come svegliatisi all’improvviso dal sonno, i nostri quotidiani si sono trovati nel bel mezzo di una rivoluzione, e hanno cercato di adattarsi. Innanzitutto sottostando alla legge del clic, per cui più pagine vengono visitate dagli utenti più chi fa pubblicità è disposto a pagare: poco importa se per ottenere quei clic si è costretti a drogare il sito, pubblicando cose che sulla carta nemmeno verrebbero considerate, da gallerie immagini che sfiorano il soft porno a ore di video su gattini intrappolati nella tazza del water, lucertole che cadono da un ramo, cani ballerini, gol in rovesciata da metà campo segnati nella sfida tra scapoli e ammogliati nel torneo di condominio. Ma queste sono le cose che fanno “massa”, e quindi pubblicità (a cui vanno aggiunti, negli ultimi tempi, stucchevoli articoli su cosa dice “il popolo della rete” o “il popolo di Twitter” su argomenti a caso). Molta pancia e poco cervello, se si pensa che immagini o video del genere non si vedono sui siti di grandi quotidiani internazionali, dal Wall Street Journal al New York Times passando per il Monde o il Times. Questo vuole il mercato al momento, però.
In tale quadro la Stampa è forse il giornale italiano che ha osato di più, abbattendo le barriere tra carta e Web. Il quotidiano torinese è infatti il primo in Italia a dotarsi di tre figure da tempo strategiche in quelli americani e inglesi: il digital editor, il web editor e il social media editor. La prima di queste figure è di fatto un caporedattore centrale che gestisce il flusso dei contenuti digitali e ha una visione di insieme di quello che stanno facendo i giornalisti, per coordinare, assieme al caporedattore della carta, il loro lavoro. Il digital editor della Stampa è Marco Bardazzi, già caporedattore centrale e autore, due anni fa, di un libro sul futuro dei giornali assieme a Massimo Gaggi, “L’ultima notizia”. Bardazzi spiega al Foglio che l’introduzione di queste nuove figure non è calata dall’alto, semplicemente per dare un nome più figo a chi si occupa del sito, ma “si inserisce in una ristrutturazione in corso alla Stampa, che trasferirà nei prossimi mesi la sua sede in un nuovo palazzo, sempre a Torino, e dove la redazione sarà strutturata sulla falsariga di quella del Telegraph: al centro l’ufficio centrale con caporedattore del cartaceo e digital editor in dialogo continuo e le varie redazioni distribuite in cerchi concentrici attorno”. Contemporaneamente la Stampa cambierà sistema operativo, adottandone uno che permetterà in modo ancora più dinamico l’utilizzo di uno stesso contenuto su carta, tablet, sito e smartphone. Per far capire l’impatto che tutto questo ha sul giornalista e sul lettore del quotidiano, Bardazzi fa un esempio concreto: “Mercoledì avevamo un’inviata in Grecia a seguire l’evolversi della crisi. Al mattino ha scritto per il sito alcuni brevi articoli, poi ha fatto aggiornamenti della situazione durante la giornata via Twitter e infine ha preparato l’articolo per l’edizione in edicola”. Il giornalista lavora di più (“ma è più contento – dice Bardazzi – perché può utilizzare tutto il materiale che raccoglie senza sacrificarlo in poche righe”) e il lettore ha una copertura dell’evento come fino a qualche anno fa non poteva nemmeno immaginarsi.
Già, Twitter. Il social network di cui già sapete tutto è diventato cruciale nello sviluppo dell’informazione del presente e certamente del futuro, anche se a molte redazioni ancora fa “paura”, se è vero che Sky News in Inghilterra ha chiesto ai suoi giornalisti di non twittare articoli o notizie di altri account e la Bbc ha chiesto ai suoi dipendenti di chiedere il permesso ai capiredattori prima di dare una news in 140 caratteri. Daniele Bellasio, caporedattore del Sole 24 Ore e già responsabile della versione on line del quotidiano di Confindustria, dice al Foglio che il discorso su come guadagnare grazie ai siti (contenuti a pagamento, pubblicità e altro) è paradossalmente vecchio: “In un mondo veloce come quello delle news, si rischia di trovare la ricetta buona per fare soldi quando questa sarà stata già soppiantata dai social network”. Twitter sta diventando per molti la prima fonte per apprendere notizie, la “timeline” formata dai tweet di chi si segue è spesso un ottimo surrogato di quello che si deve sapere, e permette con un clic di approfondire le news o di immettersi nel dibattito commentando in 140 caratteri. “Il modo migliore per alimentare l’audience di un sito – prosegue Bellasio – è gestire bene i social network”. Se un utente segue su Twitter una testata, le singole redazioni e i singoli giornalisti capiterà più volte durante la giornata sul sito. “Non è un caso – aggiunge Bellasio – se uno dei migliori siti di news politiche americani, Politico, si è dotato da qualche tempo di una redazione apposita dedicata a Twitter”. E nemmeno che un giornale come la Stampa, molto locale per quel che riguarda le vendite, quasi tutte nel nord ovest, ma internazionale per il respiro e i temi trattati, abbia nominato un social media editor.
Più che arrovellarsi su come fare soldi con metodi di pagamento sulle home page dei siti, cercare di farli grazie ai social network? Per Bellasio quella può essere la strada, magari “inserendo una pubblicità tra il tweet e la pagina a cui il tweet rimanda”. La formula perfetta non è stata ancora trovata, ma ci sono risultati che fanno ben sperare: il New York Times si è inventato un sistema di pagamento (paywall) flessibile (dopo venti articoli letti in un mese si deve pagare, ma non se ci si arriva passando da un social network) che ha portato quasi 400 mila abbonamenti in dodici mesi; il Wall Street Journal, che ha un sistema di pagamento simile a quello del Foglio, con alcuni articoli gratis e altri per abbonati, ne ha oltre 500 mila. Questi numeri però non sono riusciti a coprire il calo dei ricavi della pubblicità, e nessuno sembra ancora riuscito a risolvere questo paradosso: come sia possibile rimpiazzare i ricavi della carta con quelli del digitale. Paradosso perché i costi di un giornale on line sono di gran lunga inferiori a quelli di un quotidiano che va in stampa. Luca Sofri, direttore del Post, conosce bene il tema, e spiega al Foglio che “la prima strada è ridurre i costi delle strutture tradizionali. C’è stata una rivoluzione, ma è come se gli addetti ai lavori si fossero detti: ora troviamo un modo per rifare le stesse cose che facevamo prima dentro questa rivoluzione. Invece non si possono più fare le cose come prima”. Forse bisogna ripensare a come fare giornalismo. L’esperimento del Post, peraltro, sembra riuscito: i visitatori crescono di giorno in giorno (oltre 80.000 unici al giorno nelle ultime settimane) e il giornale on line di Sofri è riuscito a ritagliarsi uno spazio di visibilità sul quale due anni fa sarebbe stato difficile scommettere. “La situazione è complessa in generale: non si è ancora capito come si possano fare i soldi – prosegue il direttore del Post – I numeri del New York Times dicono proprio questo: c’è margine per fare ottimi ricavi, ma non abbastanza per compensare le perdite”. Quelli che la sanno lunga dicono che prima o poi emergeranno i prodotti di qualità, anche se al momento vige la dura legge dei clic, fatta eccezione per qualche nicchia: “Serve una ricostruzione culturale della domanda – conclude Sofri – e si può fare soltanto creando un’offerta diversa, cercando di non dopare troppo i risultati”. Anche Bardazzi auspica la nascita di “strumenti che valutino il valore della qualità e non solo dei clic. Giornali belli e di qualità già ci sono, e vengono apprezzati. L’obiettivo è far crescere i siti per quello che dicono e non solo per la quantità di materiale che mettono on line. Pubblicare anche sul sito sempre più articoli firmati, ad esempio, è un modo per distinguere il prodotto da tutto quello che si trova in rete, e alla lunga premia”. Un caso che fa ben sperare è quello di Salon, l’on line magazine fondato da David Talbot nel 1995. Da gennaio di quest’anno ha cambiato strategia, producendo di più e “aggregando di meno”: più articoli fatti in casa e meno storie riprese da altri. Il risultato parla chiaro: un minor numero di post pubblicati (un terzo in meno rispetto agli anni scorsi) e un aumento del 40 per cento di traffico. “Good work matters, and can be rewarded”, è la sintesi del direttore Kerry Lauerman.
Non solo clic, come detto, ma una strategia più articolata. Come scriveva qualche giorno fa il sito dell’osservatorio europeo di giornalismo parlando del New York Times e del Financial Times, “l’obiettivo di entrambi i giornali è convertire progressivamente i lettori della carta a un modello di fruizione digitale a pagamento”. Su quella via si stanno muovendo in tanti, confortati dal fatto che il 2012, secondo le previsioni, almeno negli Stati Uniti sarà l’anno del sorpasso dei ricavi della pubblicità su Internet ai danni di quelli della pubblicità in pagina (con prezzi però ancora troppo diversi), e che il numero di persone che si connette a Internet per informarsi è in crescita costante, anche in Italia. E’ la morte della carta? Non è detto: il discorso della qualità e dell’unicità del prodotto vale anche qui. Si pensi il caso del già citato Politico, che ha addirittura deciso di aumentare la tiratura delle sue edizioni cartacee, allargando l’area di distribuzione da Washington a New York. Certo è che sulla carta è difficile, se non impossibile, inventare qualcosa di nuovo, mentre il mondo delle nuove tecnologie promette un futuro in cui tutti avranno un tablet tra le mani (e anche un quotidiano locale potrà essere comprato da ogni parte del mondo, cosa che tra l’altro in parte già accade). I tempi sono difficili per tutti, e le prospettive non sono ancora chiare. Vero è che, come ha scritto Frédéric Filloux, general manager dell’ePresse digital consortium francese, “in una condizione come questa non c’è nulla di peggio che rimanere passivi e accettare le inevitabili conseguenze del dissesto economico: il 2012 è l’anno in cui accelerare la transizione al digitale”. Un rapporto appena pubblicato dalla Global Web Index mostra come nel giro di pochi mesi gli utenti di tutto il mondo si stanno spostando sempre di più su social network, social media e piattaforme mobile (tablet e smartphone) per informarsi e leggere. Farsi sorprendere con le dita sporche di inchiostro potrebbe essere fatale per molti.
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