Nel nome dei figli
Non devono soffrire, non ancora, sono solo bambini. Non devono avere fame, freddo, essere abbandonati, prendere le botte, piangere di paura. Il cuore spezzato è una cosa da grandi: calpestatelo a loro il cuore, calpestatelo a noi. Siamo i carnefici dei nostri venerati bambini, è di noi che hanno paura. In “Polisse” (police, come lo scrivono gli immigrati che non sanno il francese), bellissimo film di Maïwenn Le Besco, che racconta i poliziotti, uomini e donne, del reparto Tutela minori di Parigi, c’è tutto quello che non dovrebbe mai succedere a un bambino.
Non devono soffrire, non ancora, sono solo bambini. Non devono avere fame, freddo, essere abbandonati, prendere le botte, piangere di paura. Il cuore spezzato è una cosa da grandi: calpestatelo a loro il cuore, calpestatelo a noi. Siamo i carnefici dei nostri venerati bambini, è di noi che hanno paura. In “Polisse” (police, come lo scrivono gli immigrati che non sanno il francese), bellissimo film di Maïwenn Le Besco, che racconta i poliziotti, uomini e donne, del reparto Tutela minori di Parigi, c’è tutto quello che non dovrebbe mai succedere a un bambino, e che invece accade sempre, ogni giorno, ogni minuto, in mezzo alla strada come nelle case calde con la luce che entra dalla finestra e il pavimento pulito. La violenza dei genitori sui figli, la violenza della povertà sull’infanzia, il pianto di bambini tolti a madri incapaci: tossicodipendenti, esaurite, nomadi che ammassano cinque figli in una roulotte e li costringono a rubare; ma anche nonni che si strusciano sulle nipotine; bimbe di quattro anni che di notte ricevono la visita del padre. L’orrore gettato addosso ai piccoli, che diventano l’espiazione vicaria di tutto il brutto, il nero, il freddo, l’ingiusto del mondo. Come nelle guerre. Come nella follia mostruosa di quel padre che ha strappato il figlio di un anno e mezzo dal lettino, l’ha portato piangente, innocente, inerme, fuori casa e l’ha lanciato nel Tevere, con altri adulti paralizzati intorno. L’ha fatto perché era drogato, perché la madre del bambino lo teneva alla larga, l’ha fatto per scaricare su un innocente la sua vita oscena, i suoi pensieri-mostri. I mostri si nutrono del dolore dei bambini e il dolore dei bambini è la faccia deforme del mondo evoluto che li venera e li iperprotegge, che riconosce in loro l’unica nostra possibilità di futuro, di non-fine. Un giorno fuori dal cinema ho visto un tizio giovane con un bambino biondo in braccio. Avrà avuto un anno e non era abbastanza vestito. Il bambino piangeva e il tizio lo strattonava, lo scuoteva, gli ringhiava smettila, poi ha visto che lo guardavo e mi ha chiesto una sigaretta. Gli avrei dato qualunque cosa perché mi dicesse: non gli sto facendo del male, gli voglio bene, ha fatto un capriccio assurdo sai. Ho fatto i complimenti al bambino, che aveva gli occhi annegati di lacrime, fingendo di trovare normale quel pianto disperato, ho dato al tizio la sigaretta, gli ho detto la cosa più idiota del mondo: “Forse sono i denti, ha un anno vero?”. Volevo che mi rispondesse con aria partecipe, consapevole dei problemi di età e dentizione di suo figlio (non lo so, se era suo figlio) e dell’ora tarda, volevo andarmene a casa tranquilla. Invece lui ha alzato le spalle, ha tirato in fuori il labbro, si è messo la sigaretta dietro l’orecchio e si è girato, si è allontanato veloce col bambino che urlava e aveva la faccia bagnata rivolta verso di me. Ho incontrato i suoi occhi, sono sicura che mi stesse guardando, forse si aspettava che un grande lo aiutasse, pensava che io lo avrei salvato, perché esistono i grandi se non proteggono i bambini? Invece non mi sono mossa, non ho fatto niente, sono rimasta lì, al buio, con l’espressione vuota da conversazione con un passante, non sono affari miei pensavo senza pensarlo, sono psicotica, lo starà portando dalla mamma, dalla nonna, saranno i denti, sì, sono i denti. Ho trasfigurato quel ricordo fino a vedere il bimbo biondo che mi tende le manine e io rimango ferma, con la faccia da imbecille, e me lo immagino la sera nel lettino che piange da solo e non vuole più essere un bambino.
Può essere follia moderna, l’occhio nevrotico dell’iperprotezione, col manuale del bambino felice sempre in tasca e il plastico di qualche casa degli orrori da tirare immediatamente fuori, può essere la tirannia pedagogica, la tendenza a trasformare ogni nervosismo in caso da psicanalisi e in una puntata di “Chi l’ha visto?”? (secondo alcune teorie l’infanzia, intesa come interesse particolare per esseri molto bassi di statura, è stata inventata dai vittoriani, prima di allora, prima di David Copperfield insomma, nessuno badava alla serenità dei bambini – quel cinquanta per cento di figli che superava i cinque anni di vita). La deformazione esistenziale e televisiva ci fa vedere mostri dappertutto, e si mescola al sottile piacere delle madri di giudicare indegne le altre madri. Ero al parco, e mio figlio piagnucolava perché voleva i guanti, poi non li voleva, poi li voleva ma gli davano fastidio, la neve era troppo fredda, il berretto troppo caldo, l’altalena troppo in alto. Gli ho detto sbuffando: basta con questi capricci. Una signora, possibile nonna, mi si è avvicinata come se fossi Erode che sta ordinando di uccidere tutti i neonati maschi dai due anni in giù del territorio di Betlemme: “Non deve parlargli in questo modo, suo figlio sta esprimendo un disagio, i bambini piangono sempre per un disagio, è compito nostro capire di cosa si tratti”. Ho respirato, contato fino a dieci, sognato di rispondere che in effetti il bambino è molto sensibile, prova disagio quando gli si avvicina un qualunque tipo di stronza, e che ha ragione, in questi casi non devo sgridarlo ma comprenderlo. Ho immaginato tutti i bambini del parco che si ribellavano alla teoria dell’eterno disagio e le tiravano addosso, allegri, un certo numero di palle di neve. Ma mi sono anche sentita una torturatrice di infanzie. Nello sguardo di un’altra madre ero una madre da tenere d’occhio, se gli avessi dato una sculacciata mi avrebbe segnalato ai servizi sociali, sarei finita sul giornale: “Madre picchia selvaggiamente figlio e insulta eroica signora intervenuta in soccorso”.
Non esiste mai la presunzione di innocenza, quando si tratta di genitori e figli. Se c’è un mostro, sono tutti possibili mostri. Se c’è un pensiero malsano, quel pensiero va scaricato al più presto su qualcuno, esorcizzato in un’accusa . E tra quattro mura può succedere di tutto (non potrò mai dimenticare il padre di Basiglio a cui sono stati strappati i figli per via di un disegno strano fatto a scuola, e il disegno strano era lo scherzo volgare e cattivo di una compagna di classe, ma intanto era scattato il cordone sanitario, le comunità protette, i fratelli divisi, il padre accusato. Quella famiglia ha vissuto per mesi un incubo, è stata spezzata: i giudici, gli assistenti sociali, la preside, le maestre, lo psicologo, la vergogna, poi l’assoluzione perché il fatto non sussiste e naturalmente nessun risarcimento all’orrore indotto). C’è sempre il sospetto di immoralità, di mancata perfezione, di disattenzione, risposte sbagliate, attenzioni mancanti o eccessive, e nessun padre, ad esempio, potrebbe fare tranquillamente la doccia con sua figlia piccolina; in “Polisse” il padre poliziotto, che vive dentro la bolla umana degli orrori più indicibili, che arresta padri di bambini di un anno violentati per mesi ogni notte, e sa che non potrà mai salvarli tutti, sa che c’è sempre un bambino che piange in un angolo, che ha paura dello sguardo cattivo di un grande, non riesce nemmeno a insaponare sua figlia quattrenne che glielo chiede: la naturalezza è perduta per sempre, il candore dei rapporti non esisterà mai più.
Le favole dei fratelli Grimm, che ci paiono così inadatte, spaventose, pedagogicamente sbagliate nel mondo sterilizzato e trasparente, senza ombre, in cui nemmeno il lupo può essere veramente cattivo, sono pezzi di vita che non riusciamo più a nascondere: la matrigna che abbandona i bambini nel bosco sperando che li divorino le bestie feroci, la strega cattiva, la bimba costretta a lavare i pavimenti e a dormire in soffitta, la casetta di cioccolata dove Hansel viene messo in gabbia, la mela avvelenata, le briciole di pane, i bambini che devono cavarsela da soli e spingere la strega nel fuoco. In “Polisse” una bambina chiede alla bionda mamma borghese di mandarla in collegio, “perché papà mi vuole troppo bene, troppo”, e la mamma attonita precipita nel buco nero dell’orco cattivo che finge di essere buono, che gioca a Monopoli con la figlia e intanto le chiede di provarsi davanti a lui un vestitino nuovo. Lo spia, lo studia, lo ascolta, e alla fine capisce quel che non aveva mai osato pensare, riconosce i gesti, va in commissariato, si vergogna, piange, ma riesce a diventare un adulto che protegge. Che si mette dentro il dolore dei figli e se ne fa carico, lo espia con le sue spalle più forti, come è giusto. E’ ciò che fanno i poliziotti della Tutela minori di Parigi, in questo film indispensabile, girato e interpretato da una madre: hanno vite private disastrate, facce stravolte, risate sguaiate, hanno notti insonni, giornate faccia a faccia con il male, e negli occhi il dolore sovrumano e sbigottito che provano a contrastare. Devono fare blitz alle quattro del mattino in un campo nomadi e prendere i bambini dalle roulotte, devono consolarli, tenerli allegri e intanto chiedersi se sia quella la cosa giusta, devono trovare un bimbo nella mani della madre tossicodipendente prima che lei lo uccida per sbaglio, devono interrogare una bambina piccola che forse si è inventata tutto quando dice che il padre le gratta il sederino sotto la calzamaglia e non devono, come dice il loro capo, prendersela troppo a cuore, darsi troppa pena (“è tuo figlio? no non è tuo figlio, quindi rassegnati, datti una calmata”). Anche il destino di questi poliziotti è l’espiazione vicaria. Prendono su di sé il nero delle favole, quello che non dovrebbe mai succedere a un bambino ed è anche meglio non raccontare e si ammalano del dolore dei piccoli (non perché siano più empatici, più proletari e quindi migliori degli altri, ma perché è impossibile, vedendo quel dolore e soprattutto quella speranza giocosa che all’improvviso, sfinita, scompare e lascia posto solo allo sguardo indurito e non più magico da adulto, restarne fuori). I poliziotti tornano a casa e non vogliono parlare di niente, pensare a niente, sognare niente.
Non si può uscire da un tunnel fatto di pianti di bambini e di occhi che perdono la luce. Succede, in una forma passiva da spettatori del tragico, anche a noi genitori o non genitori, che facciamo le adozioni a distanza per sentirci meno peggio, che rifiutiamo anche solo di immaginare un male più grande di un ginocchio sbucciato e che esorcizziamo il male facendo morire in un crepaccio la strega di Biancaneve, quando leggiamo una cosa orribile accaduta a un bambino, a un nostro figlio ideale. Mio marito chiude gli occhi, volta pagina, non legge, si tappa le orecchie se glielo racconto, non vuole sapere, si alza e cambia stanza, io non riesco a rimanere fuori dall’orrore guardato: leggo fino in fondo, cerco uno sbaglio per poter dire: tutte balle; vorrei sbattere la testa contro il muro, se i bambini stanno dormendo corro a controllarli, vedo con la mente le manine che si tendono a chiedere aiuto o a coprirsi la faccia. Espiazione vicaria e passiva, pigra, forse inutile ma ineluttabile di un dolore inaccettabile perché non riguarda la complessità del mondo, la natura umana, la fortuna o la sfortuna degli uomini, le cose della vita, ma una sofferenza che non è giustificabile: riguarda noi che, in uno specchio mostrificato, infliggiamo dolore agli unici esseri disposti alla fiducia totale e al bene assoluto, colpevoli solo di bisogno di cura, di bisogno di adulti (i quattrocento bambini morti in Siria, i piccoli zingari nelle tende senza luce e senza niente quando nevica, i bambini venduti, comprati, violati, il piccolo volato in cielo dal Tevere, le bambine che la Cina rifiuta e uccide prima che nascano o appena nate, i figli delle nostre cameriere ucraine, moldave, romene, che stanno negli orfanotrofi con i capelli rasati perché non prendano i pidocchi in attesa che le madri tornino, i tre fratellini abbandonati e adottati da una mia amica italiana, con la sorella grande, cinque anni, che perdeva i capelli per lo stress, per la paura di non riuscire a proteggere i più piccoli, e il maschio che sbatteva la testa contro il muro in cerca di pace, in cerca di mamma; e tutti quelli, troppi, che nessuno di noi andrà mai a prendere).
Non è tirannia dell’infanzia (figli trattati come totem, pance monitorate come pericolose malattie, pretesa di bambini perfetti, terrorismo psicologico dei manuali sulla perfetta maternità, senso di superiorità delle madri sul resto del mondo emerso), né pretesa di favole innocue e sempre a lieto fine, ma bisogno di consolazione, del pensiero rassicurante che ci sarà sempre qualcuno pronto a prendere su di sé il dolore di un bambino, a farlo suo fino in fondo, a non lasciarlo solo. La scena più dilaniante di “Polisse” racconta di una mamma africana che porta il suo bambino alla polizia, dice: non voglio che diventi come me, dormiamo in mezzo ai rifiuti da sei mesi, non c’è posto da nessuna parte per noi, tenetelo voi. I poliziotti cercano in tutta la città un posto che li accolga insieme, senza trovarlo, e il capo si rifiuta di fare una telefonata per sbloccare le cose (“non è tuo figlio, non prendertela troppo a cuore”). C’è posto solo per il piccolo. Il bambino aspetta, seduto composto, non vuole niente da mangiare, non vuole una stanza calda, vuole solo la sua mamma. Invece la mamma se ne va piangendo, di corsa. Il bambino è scosso dal più tremendo urlo di dolore che possa stare dentro al cuore di un bambino, un urlo innocente che non permette a nessuno di pensare: non è colpa mia, è il dolore del mondo. Il poliziotto lo prende in braccio, lo culla, piange con lui, gli asciuga le lacrime. Gli dice: calmati piccolo, calmati, ti farai degli amici, sarà dura all’inizio, ma ce la farai.
Il Foglio sportivo - in corpore sano