Talebani in doppiopetto
Più maturo il talebano, più saggio il talebano, più indulgente il talebano. Forse era stato trattato male dalla stampa e dalla televisione in questi anni, o forse è cresciuto durante la guerriglia. Ora è un talebano diverso, è capace di condurre negoziati multilaterali complessi seduto allo stesso tavolo con la Nato, con il governo afghano, i sauditi, i pachistani, i turchi e altri. Ora si dichiara pronto a ricevere tra le mani responsabilmente l’amministrazione del paese, tanto manca poco – aggiunge – prima della capitolazione materiale, prima che Kabul cada di nuovo sotto il suo controllo.
Più maturo il talebano, più saggio il talebano, più indulgente il talebano. Forse era stato trattato male dalla stampa e dalla televisione in questi anni, o forse è cresciuto durante la guerriglia. Ora è un talebano diverso, è capace di condurre negoziati multilaterali complessi seduto allo stesso tavolo con la Nato, con il governo afghano, i sauditi, i pachistani, i turchi e altri. Ora si dichiara pronto a ricevere tra le mani responsabilmente l’amministrazione del paese, tanto manca poco – aggiunge – prima della capitolazione materiale, prima che Kabul cada di nuovo sotto il suo controllo.“Accadrà appena i soldati stranieri lasceranno libero il campo”, come dice un rapporto compilato dalle guardie Nato che hanno ascoltato centinaia di guerriglieri durante il loro periodo di prigionia. Poco ci manca che diventi anche più bello, questo nuovo talebano, e la sua barba non sia più ciuffo sudicio da capra ma cornice da profeta sul volto dei guerrieri che stanno riconquistando il paese, perso dopo un deplorabile equivoco – l’alleanza con Osama bin Laden l’arabo – nell’autunno 2001.
Può essere. Certo è che al decimo anno di guerra il talebano sta subendo una metamorfosi brusca. Non è più il soggetto a cui eravamo abituati, il barbaro, il tagliagole in collegamento diretto con un Dio freddo, l’anomalia storica rigurgitata dal medioevo islamico e centroasiatico ma per disgrazia equipaggiata di kalashnikov. Non lo è più, nel gioco di percezioni che fa la politica tra occidente e Asia, perché si è capito che la soluzione non è infliggergli una batosta militare definitiva ora – il comando Isaf vorrebbe, ma proprio non ci riesce – ma piuttosto trattare con lui e trovargli un posto nel paese. C’è tempo ancora fino al 2014, anno ufficiale del passaggio di consegne dai soldati Nato a quelli locali. Intanto, il presidente afghano Karzai lo chiama “fratello”. E l’ex segretario alla Difesa americano, Bob Gates, che un giorno lo chiamò “un cancro per l’Afghanistan”, lo ha definito “parte essenziale del tessuto afghano”. E’ la metamorfosi.
E il legame con al Qaida, che è stato la ragione di tutto? Quello pure va dimenticato. Il segretario alla Difesa americana attuale, Leon Panetta, dice che non sono rimasti in più di cinquanta – cento gli operativi di al Qaida in Afghanistan, anche se poi il bollettino quotidiano degli arresti e degli scontri a fuoco con la Nato rivela che il numero è per forza di cose più alto, per semplice conto matematico.
E come ci si regola con il clan Haqqani? E’ quel gruppo ultraviolento che compie attentati pianificati in giro per il paese, sono loro che si sono infiltrati nell’hotel internazionale di Kabul con divise da polizia e corpetti suicidi e hanno girato stanza per stanza uccidendo gli stranieri. Con il clan tutto è fermo. Washington non lo ha mai inserito nella lista dei gruppi terroristi, anche se quelli pensano, si vestono e agiscono da terroristi. Il governo americano ha dichiarato che “con i terroristi non tratteremo mai”, e il trucco è non dichiarare terroristi gli uomini di Haqqani perché sanno che prima o poi dovranno negoziare con loro.
La riabilitazione del talebano è un’impresa difficile e non si realizzerà affatto a metà strada tra lui e noi; saremo noi a doverci accollare il tratto più lungo di strada, a inghiottire la parte più amara del boccone.
Mancano due anni e la marcia verso la normalizzazione del talebano è cominciata. Ha aperto con la benedizione di Washington un ufficio di rappresentanza politica a Doha, nel Qatar, la capitale più sofisticata e moderna del mondo arabo, dove può negoziare senza sentire sul capo le pale degli elicotteri con squadre speciali che ogni notte gli danno la caccia in Afghanistan (la caccia va avanti, perché i guerriglieri afghani saranno pure pronti per la riabilitazione, ma Isaf pensa che più ne saranno levati di mezzo meglio è). Ha partecipato ad almeno due round negoziali con gli americani in Germania, in una base vicino Bonn.
Dice il portavoce del movimento che il futuro governo talebano sarà più gentile e saggio della sua incarnazione anni Novanta. “Quando un movimento invecchia, diventa anche più maturo e ci sono cambiamenti positivi – spiega Zabiullah Mujahid al Wall Street Journal – durante il regime talebano passato il governo fece alcune decisioni opinabili, ma ora siamo attenti e lucidi”.
Questa volta una differenza netta, dice ancora Zabiullah, sarà lo sforzo per includere tutte le etnie e i clan del paese. Il vecchio regime era dominato da religiosi pashtun della provincia meridionale di Kandahar ed era molto discriminatorio con la minoranza sciita hazara e con le altre minoranze. La prossima volta “ciascun gruppo della nazione sarà egualmente rappresentato, con gli stessi privilegi”.
I talebani sono soprattutto un movimento pashtun e vedono con malevolenza feroce il potere – che considerano sproporzionato – goduto dalle comunità etniche più piccole sotto il presidente Karzai. Nella guerriglia dopo il 2001, però, i talebani afghani si sono astenuti dalla violenza settaria ed etnica che accompagnò la loro ascesa al potere negli anni Novanta; piuttosto hanno chiamato tutti gli afghani a unirsi nella lotta contro gli invasori.
A dicembre, i leader del movimento hanno condannato subito gli attentati suicidi contro le moschee sciite di Kabul e di Mazar e Sharif – che il governo afghano ha attribuito ai pachistani. Ora i talebani hanno tra le loro file anche comandanti uzbeki e tagiki e si sono allargati a nord, in quelle regioni non pashtun che erano a loro precluse prima del 2001.
Mr Mujahid – come il Wall Street Journal chiama compitamente il portavoce – getta un altro grosso amo con la lotta alla droga. Dice che il futuro governo vorrà un “buon coordinamento” con la comunità internazionale contro il narcotraffico. Dal 2001 l’oppio è una fonte sempre più importante di finanziamento per la guerriglia talebana e anche per gli ex signori e signorotti della guerra che fanno parte dell’amministrazione Karzai. I talebani, dicono funzionari occidentali, difficilmente molleranno il business della droga finché la guerra va avanti, ma ricordano che l’unico intervallo di tempo in cui la coltivazione dell’oppio fu quasi sradicata dall’Afghanistan venne nel 2001, quando il capo dei talebani, il mullah Omar impose un divieto sulla coltivazione dei papaveri, nel tentativo di guadagnare riconoscimento internazionale – che poi crollò a zero dopo gli attacchi dell’11 settembre.
Lo sforzo maggiore per ammorbidirsi in vista dei negoziati di pace e del ritorno al potere – secondo quanto dicono loro stessi – è nell’istruzione. Quando i talebani comandavano negli anni Novanta, Maulvi Qalamuddin era capo della commissione per la protezione della virtù e della prevenzione del vizio, l’ufficio di polizia religiosa che chiudeva le scuole, faceva picchiare gli uomini con la barba non abbastanza lunga e arrestava chi era sorpreso in possesso di musica o di videocassette. Oggi, il religioso sessantenne è supervisore di una associazione di scuole che insegnano lettura, scrittura e matematica a un migliaio di ragazze nella sua provincia natale, Logar, nido della guerriglia poco a sud di Kabul. “L’istruzione per le donne è necessaria come per gli uomini – dice Qalamuddin – nell’islam uomini e donne hanno lo stesso dovere di pregare, digiunare e anche di apprendere”.
“Non li trovo più così duri come erano negli anni Novanta”, dice ora il ministro dell’Educazione afghano in un’intervista. Nei primi anni di guerriglia, i talebani facevano saltare in aria le scuole in tutto il paese, soprattutto quelle riservate alle ragazze, e assassinavano i maestri e i professori pagati dal governo. Il risultato è che in molti distretti del sud e dell’est della grande parte pashtun del paese una generazione intera di bambini è venuta su senza sapere leggere, scrivere e far di conto. Negli anni, questo ha finito per ritorcersi contro di loro: i giovani dei villaggi pashtun si sono trovati seduti per terra nella gara per i posti di lavoro contro le minoranze etniche meglio educate, come gli hazara. “Le nostre comunità hanno detto ai talebani: ehi, voi dite di volere buttare giù il governo di Karzai e di volerlo sostituire con il vostro. Ma quando sarete al governo, avrete sempre bisogno di dottori e ingegneri. Perché non lasciate che i nostri ragazzi frequentino le scuole?”, racconta il ministro.
I talebani hanno raccolto il messaggio. Negli ultimi tre anni, circa seicento scuole chiuse per motivi di sicurezza sono state riaperte. I presidi di più di un centinaio di distretti sui 398 dell’Afghanistan hanno mandato rapporti al governo centrale di Kabul dicendo di avere ricevuto garanzie dai comandanti talebani locali, che offrono protezione alle loro scuole. Anzi, i talebani, secondo Wardak, dicono ai maestri pagati dal governo: “Devi fare il tuo lavoro. Se fai troppe assenze, ti licenziamo”.
Non è vero che tutti i comandanti talebani seguono questa linea. L’anno scorso ci sono stati 440 minacce e attacchi contro le scuole, nel 2010 erano stati 500, secondo i dati delle Nazioni Unite. I numeri includono gli istituti controllati dall’esercito afghano e dalle forze della Coalizione, considerate bersagli legittimi dalla guerriglia.
I talebani hanno poi lasciato cadere la grande condizione preliminare che pretendevano per cominciare i negoziati: il ritiro completo dei soldati stranieri. La Nato è ancora in Afghanistan e i negoziati sono già in corso. Una delle controcondizioni per la riconciliazione politica – posta dall’America – è che i talebani devono aderire alla Costituzione afghana scritta a Bonn. Ma anche questa controcondizione sarà lasciata cadere e probabilmente sarà disegnata una nuova Costituzione, perché i talebani non accettano questa così com’è. Il cambio di Costituzione non è una novità: l’Afghanistan ne ha avuto sei differenti a partire dal 1920.
La costituente di Bonn aveva difetti enormi, come la sordità ostinata verso gli interessi dei grandi vicini regionali del paese, soprattutto il Pakistan, che non avrebbe mai acconsentito a un governo afghano dominato dall’Alleanza del nord, il gruppo militare antitalebano e filo indiano che accusa Islamabad di appoggiare i talebani. L’omissione più grave di Bonn, l’errore che l’inviato dell’Onu Lakhdar Brahimi descrisse come il “peccato originale”, fu che i talebani, creduti ormai svaniti nel nulla, non furono invitati. La grande regione pashtun e conservatrice che è la loro culla e la loro casa da allora si è sempre opposta al nuovo governo.
I talebani non vogliono sostituire completamente la Costituzione attuale ma – e qui c’è da citare il verbo pronunciato dagli ex gerarchi talebani a Kabul – vogliono soltanto ripararla. “Non più di undici articoli su centosessanta hanno bisogno di essere cambiati”, dice Haji Musa Hotak, un ex ministro al tempo dei talebani che ora siede nel Parlamento. “Sono stati inseriti dalla comunità internazionale e non sono nell’interesse dell’Afghanistan. Ma non si tratta di montagne. I talebani vogliono ridiscuterli in un modo ragionevole”.
Uno degli articoli in discussione è verosimilmente quello che richiede che un quarto dei seggi sia riservato a candidate donne, perché è destinato a creare problemi in una società patriarcale e misogina come quella afghana (sarebbe un peccato: nello stesso anno delle elezioni afghane, al Parlamento britannico fu eletto soltanto un 22 per cento di donne).
I talebani chiedono naturalmente un sistema di giustizia fondato sulla sharia, la cui durezza inorridisce gli osservatori occidentali (anche se, sostengono loro, non sarebbe molto diverso da sistemi che l’occidente finge di non vedere, come quello in vigore in Arabia Saudita).
L’appoggio per il compromesso futuro arriva anche da insospettabili. Shukria Barakzai, una parlamentare pashtun attivista per le donne, dice al Guardian: “Ho cambiato idea sui talebani tre anni fa, quando ho realizzato che l’Afghanistan deve cavarsela da solo. Non è che la comunità internazionale non ci aiuti. E’ che proprio non ci capiscono. I talebani sono parte della nostra popolazione. Hanno idee differenti, ma da democratici dobbiamo accettare questo fatto”. Lo sostiene a dispetto di quanto le è accaduto nel 1999: con i talebani ancora al potere, fu picchiata dalla polizia religiosa per essere andata dal dottore senza essere accompagnata dal marito.
I nemici giurati dei talebani, soprattutto tra i tagiki, gli uzbeki e gli hazara appartenenti all’Alleanza del nord, mettono in guardia da ogni discorso su questa nuova, pretesa moderazione dei talebani. Per loro si tratta di un trucco di propaganda per indebolire la determinazione occidentale nella guerra. Ci tengono a ricordare che oggi i combattenti talebani sono molto più estremisti rispetto alla vecchia generazione. Per esempio, un tempo gli attentatori suicidi non esistevano, oggi sono l’arma preferita per eliminare i membri del governo afghano e per attaccare le truppe occidentali. L’intenzione tanto sbandierata dai talebani di ridurre il numero dei civili ammazzati nella guerriglia non si è tradotto in azioni concrete e in una maggiore attenzione sul campo. Le vittime civili causate da loro sono aumentate del 28 per cento nella prima metà dell’anno, secondo i dati delle Nazioni Unite. “Il wishful thinking non porta mai nessuno da nessuna parte”, avverte Abdullah Abdullah, ex leader dell’Alleanza del nord, ex ministro degli Esteri del presidente Karzai e suo principale rivale alle elezioni del 2009. “Le convinzioni dei talebani sono rimaste le stesse”.
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