Doria, la Vincenzi e l'ultimo pasticcio nel partito di Bersani

Genova e il peccato originale di un Pd senza nuovi leader

Claudio Cerasa

Da Milano a Napoli, da Firenze a Cagliari, da Verona a Bari, da Torino a Roma, da Palermo fino al caso fresco fresco di Genova. Che si tratti di elezioni comunali, provinciali, regionali o di semplici consultazioni primarie, capita ormai con una certa regolarità che alla fine di ogni tornata elettorale tutti i principali partiti si ritrovino a fare i conti con un fenomeno che solo il più disattento degli osservatori e il più distratto dei politici può continuare a ignorare.

    Da Milano a Napoli, da Firenze a Cagliari, da Verona a Bari, da Torino a Roma, da Palermo fino al caso fresco fresco di Genova. Che si tratti di elezioni comunali, provinciali, regionali o di semplici consultazioni primarie, capita ormai con una certa regolarità che alla fine di ogni tornata elettorale tutti i principali partiti si ritrovino a fare i conti con un fenomeno che solo il più disattento degli osservatori e il più distratto dei politici può continuare a ignorare. Il fenomeno è presto detto ed è un fenomeno che spiega anche la ragione per cui nel caso del trionfo alle primarie genovesi del professor Marco Doria (Sel) è fuori luogo parlare tanto di vittoria di Nichi Vendola quanto di sconfitta di Pier Luigi Bersani. Il problema, evidentemente, è che ancora una volta gli elettori hanno scelto di mettere una “x” infischiandosene di ogni progetto di alleanza, di ogni promessa di apparentamento, di ogni proposta di coalizione ma basandosi esclusivamente sulla credibilità, la forza e la vitalità del leader proposto da ciascun partito in campo. E’ la solita storia, insomma: alle elezioni non vince il partito con più attributi ma semplicemente vince il candidato più forte. Certo: sappiamo che esistono diversi esponenti sia del centrodestra sia del centrosinistra (Bersani in primis) convinti che per affrontare la modernità sia necessario puntare più sul “progetto” che sul nome che si candida a rappresentare quello stesso progetto. Il punto però è che più passa il tempo e più è evidente che combattere il fenomeno della personalizzazione dei partiti è diventata una battaglia inscrivibile nell’ambito delle toste campagne combattute contro gli agguerritissimi mulini a vento della politica. E che ci piaccia o no ogni elezione certifica il fatto che i partiti per vivere hanno ormai un bisogno matto e disperato di ricalibrare il proprio ruolo storico e di trasformarsi sempre di più in grandi generatori di leadership.

    Qualcuno, questa, la chiama l’“americanizzazione del sistema politico” (che forse è avvenuta all’insaputa dello stesso sistema politico italiano). Ma senza stare troppo a confondersi con i modelli stranieri, e per restare nel perimetro del centrosinistra italiano, è un dato difficilmente contestabile che i casi dei trionfi di Nichi Vendola in Puglia, di Massimo Zedda a Cagliari, di Giuliano Pisapia a Milano, di Luigi De Magistris a Napoli e ora di Marco Doria alle primarie di Genova dimostrano che il vero errore commesso dal Pd in questi contesti elettorali non è quello di aver fatto gareggiare magari due o più candidati del proprio partito (cosa che è successa a Genova con Roberta Pinotti e Marta Vincenzi, vedi articolo a pagina due) ma è semmai non aver trasformato il Pd in una formidabile macchina per la selezione delle leadership. E la storia di Genova – così come le più recenti di Cagliari e Milano – è la metafora perfetta del paradosso di un partito che prima di tutti in Europa aveva capito quanto importante fosse dotarsi di uno strumento come quello delle primarie indispensabile per selezionare in modo diretto e innovativo (e non novecentesco) il leader di una coalizione.

    Le primarie, già. Nel Pd qualcuno dice con un pizzico di cattiveria che non è pensabile dotarsi di una macchina magnificamente settata per correre su una pista da Formula Uno e dimenticarsi poi che per guidare quella macchina non si può fare affidamento sul primo meccanico che passa in officina ma che ovviamente occorre perdere un po’ di tempo per andare a scovare, a selezionare e a formare i migliori piloti presenti in circolazione. Malizie a parte, però, la vicenda genovese fa emergere anche un altro paradosso legato ancora alle primarie. E il paradosso è che cinque anni dopo averle portate in Italia, il Pd non si è ancora reso conto dell’errore che si nasconde dietro alla scelta (caso unico al mondo) di organizzare primarie di coalizione e non di partito. Scelta, questa, che non incoraggia la ricerca all’interno del Pd di leadership innovative e che anzi offre al candidato di un altro partito la possibilità di presentarsi di fronte agli elettori come fosse davvero lui il volto nuovo, “il vero outsider”. A Genova è andata così. A Cagliari è andata così. A Milano è andata così. Ed è vero che negli ultimi mesi i candidati del Pd hanno vinto quasi tutte le primarie che si sono svolte in giro per l’Italia. Ma è altrettanto vero che nel futuro prossimo venturo il Pd non potrà essere al riparo dal fare altre figuracce fino a quando continuerà a credere con testardaggine che i piloti siano davvero meno importanti delle macchine che guidano.

    twitter@claudiocerasa

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.