La guerra dei trent'anni sta per finire
C’era un tempo in cui Ezer Weizman, il fondatore dell’aviazione israeliana, stringeva accordi economici con il ministro per gli Armamenti dell’Iran, Hassan Toufanian. C’era un tempo in cui Yaakov Shapiro, l’ufficiale israeliano che curava i rapporti con gli iraniani, veniva ricevuto a Teheran “come un re”. C’era un tempo in cui la sola ambasciata con la stella di David in tutto il medio oriente era quella a Teheran. C’era un tempo in cui si vedeva un viavai di tecnici israeliani nel centro nucleare di Isfahan.
C’era un tempo in cui Ezer Weizman, il fondatore dell’aviazione israeliana, stringeva accordi economici con il ministro per gli Armamenti dell’Iran, Hassan Toufanian. C’era un tempo in cui Yaakov Shapiro, l’ufficiale israeliano che curava i rapporti con gli iraniani, veniva ricevuto a Teheran “come un re”. C’era un tempo in cui la sola ambasciata con la stella di David in tutto il medio oriente era quella a Teheran. C’era un tempo in cui si vedeva un viavai di tecnici israeliani nel centro nucleare di Isfahan. Tutto ebbe fine il primo di febbraio del 1979, 12 Bahman 1357, alle ore nove e 7 minuti, quando un Jumbo dell’Air France comparve nel cielo azzurro-ceramica di Teheran, sorvolando i Monti Alborz.
Su quell’aereo, noleggiato a credito, c’era Khomeini, il “profeta disarmato”. Ritornava in patria dopo quindici anni di esilio impostogli dallo scià Pahlavi, il “re dei re”. Milioni di persone avevano inondato le strade. Piangevano: “Allahu akbar”, Allah è grande, e “Marg bar scià”, morte allo scià. Uri Lubrani, ultimo ambasciatore israeliano in Iran, aveva mandato un cablo a Washington e Gerusalemme: “Lo scià sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Il presidente americano Jimmy Carter l’aveva ignorato. “Manderò davanti al tribunale del popolo tutti i corrotti sulla terra”, proclamò Khomeini. “Spezzerò i denti, taglierò le mani dei servi dell’imperialismo”. A ogni frase dell’imam, un milione e mezzo di persone gli faceva eco: “Sa’i ast”, ovvero “è giusto” e “così sia”. Per Israele, fu l’inizio della fine. Fu anche l’inizio del countdown atomico.
“Quella fra Israele e Iran è la più lunga guerra nella storia del medio oriente”, dice a colloquio con il Foglio Ronen Bergman, il più noto giornalista investigativo israeliano. “Nel 2006 l’Iran, attraverso Hezbollah, ha sconfitto lo stato ebraico. E’ dal 1979 che i due paesi si stanno facendo una guerra sotterranea. Non è possibile fare profezie, ma per la prima volta da quando si parla di Iran, ovvero da metà degli anni Novanta, ho la certezza che Israele stia pianificando un attacco preventivo”. Bergman scrive per Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano ebraico, e recentemente sul New York Times ha firmato un lungo articolo in cui ha spiegato che Israele attaccherà l’Iran nel 2012. Il saggio ha fatto il giro del mondo, perché Bergman è il giornalista più insider d’Israele.
Bergman, che attualmente sta lavorando a un libro sul Mossad, è l’autore di “The secret War with Iran”, libro-inchiesta su trent’anni di conflitto fra Teheran e Gerusalemme. “E’ una guerra titanica fra una rivoluzione islamica aggressiva e una società compiacente e soddisfatta di sé che vuole gettarsi alle spalle le paure esistenziali. Questi anni hanno dimostrato che l’Iran e Hezbollah sono avversari più tenaci, determinati e sofisticati di quelli che Israele e Stati Uniti hanno incontrato finora in medio oriente”.
Con lo stato ebraico la monarchia di Reza Pahlavi intratteneva rapporti di collaborazione in campo agricolo, industriale, energetico e militare. La prova più eclatante di questo legame è una stella di David gigante scoperta nel dicembre 2010 sul tetto della Iran Air, accanto all’aeroporto internazionale di Teheran. L’edificio era stato costruito da ingegneri israeliani prima della Rivoluzione. Nella biografia di Khomeini “The Spirit of Allah”, il giornalista iraniano Amir Taheri racconta di una audiocassetta in cui l’imam denuncia una cospirazione fra la monarchia, “la Croce e gli ebrei”. Nei sermoni di Khomeini lo scià è chiamato “spia ebrea”.
La rivoluzione provocò un terremoto in Iran nel campo della difesa, dei burocrati, dei servizi, dei militari legati allo scià. La prima cosa che fece Khomeini fu tagliare i rapporti con Israele, definito “cancro”. Ma alcune fabbriche israeliane avrebbero continuato a ricevere i pagamenti ogni anno (a causa del caos amministrativo a Teheran) per lavori che non erano mai stati terminati. Gli iraniani chiesero di riavere indietro il denaro per la cifra tonda di cinque miliardi di dollari. Racconta Bergman che nelle moschee i preti islamici distribuirono manifesti contro “il sionismo internazionale”, che avvennero piccoli pogrom e che “I Protocolli dei savi anziani di Sion” con prefazione di Joseph Goebbels vennero tradotti in farsi, la lingua iraniana. Il Mossad lanciò l’operazione “Shulchan Arukh” per portare via quarantamila ebrei.
La predicazione antiebraica di Khomeini raggiunge il Libano, dove vive una folta comunità sciita. Hezbollah, detta “gli oppressi della terra”, spedì il primo kamikaze islamico contro i marine americani. Decine le vittime. Racconta Bergman che nel villaggio di Dir Qanoun al Nahr emissari iraniani presero parte al funerale dell’autista della Peugeot imbottita di dinamite. Il Mossad intercettò una lettera alla famiglia del kamikaze spedita da Teheran: portava la firma di Khomeini. Il 4 novembre 1983 un camion esplosivo uccide ventotto israeliani dell’intelligence militare. Si scoprirà che l’operazione era stata ordita da un quadro di Hezbollah noto come “lo Sciacallo sciita”, Imad Mughniyeh, ucciso a Damasco al numero 17 di via Nisan, in una operazione israeliana di due anni fa. Hezbollah nel 2006 diventerà l’unica organizzazione che abbia davvero “sconfitto” Israele a forza di rapimenti, bombardamenti, smembramenti di corpi e ricatti. Israele ha lasciato il Libano nel 2000. In una notte, ridenti e piangenti, i soldati israeliani abbandonarono la “striscia di sicurezza”. Effi Eitam, comandante del battaglione libanese, disse all’allora primo ministro Ehud Barak quando ricevette l’ordine di sgombrare: “Non credere di portare i soldati via dal Libano, stai portando il Libano in Israele”. Stava portando l’Iran in casa. Da allora tutta la Galilea ebraica, dove viverci o è una necessità di poveri oppure è una scelta ideale e di vita, è stata bombardata a tappeto da Hezbollah.
Secondo Bergman il countdown è impossibile da comprendere senza il caso di Ron Arad, il giovane pilota israeliano che precipitò nel 1986 presso il porto libanese di Tiro e che fu acquistato letteralmente dagli iraniani per 300 mila dollari. L’ultima foto di Ron risale al 1991, ha una lunga barba e il volto sfinito da prigioniero torturato. “Da allora Teheran e le sue carceri popolarono le fantasie e gli incubi degli israeliani”, dice Bergman. Come dice un ex ufficiale del Mossad, “mai così tanto nella storia dell’uomo sono state spese energie per ritrovare una persona scomparsa”.
La guerra agli ebrei arriva in America latina. 1992, marzo, una bomba uccide trenta persone all’ambasciata israeliana di Buenos Aires. Due anni dopo, ai primi giorni di luglio, i servizi israeliani notano una “insolita frenesia” nel corpo diplomatico iraniano nei paesi del sud America, ma non trovano una spiegazione. La risposta arriva alle dieci di mattina del 18 luglio, quando un camioncino imbottito d’esplosivo distrugge la sede dell’Associazione ebraica di Buenos Aires. Ottantacinque i morti. Il mandante è l’Iran, gli esecutori una cellula di Hezbollah. Da Israele arrivano due aerei, con a bordo 90 persone: investigatori, agenti del Mossad, personale specializzato in soccorsi con esperienza in terrorismo. Intanto anche dentro all’Iran ci sono scoppi di odio antiebraico. Tredici ebrei tra scriba, maestri di scuola, rabbini, chi proveniente da Isfahan, chi da Shiraz, il cuore dell’antica Persia, vengono gettati nelle carceri iraniane con l’accusa di “spionaggio”. Nel 2002 la mano di Teheran arriva sempre più vicina allo stato ebraico. La nave Karin A è un vascello carico di brutti presagi, con 50 tonnellate di armi che per indirizzo avevano Gaza. Le casse portano scritte in farsi, la lingua dell’Iran. Le armi iraniane includevano missili, mortai e tonnellate di esplosivo C-24 che si usa negli attacchi suicidi.
Risale al 1992, poco dopo l’attacco a Buenos Aires, la prima segnalazione dell’intelligence israeliana sui movimenti nucleari interni all’Iran. Vent’anni dopo il quaranta per cento delle risorse del Mossad sono devote al file “Iran”. “Se Israele vuole disarmare l’Iran prenderà una decisione entro sei mesi o al massimo un anno. Israele non accetterà mai, a nessuna condizione, che Teheran si doti del nucleare, lo stato ebraico non può contenere l’Iran atomizzato”. Secondo Bergman adesso ci sono cinque scenari possibili: “L’attacco israeliano, l’attacco americano, americani e israeliani che attaccano insieme, l’Iran che rinuncia all’atomica e un cambio di regime a Teheran. Poiché il secondo e il quinto scenario sono molto improbabili, il primo è il più possibile. L’America, dopo l’Iraq, non ha la forza di un’operazione preventiva simile e certamente Obama non vorrà attaccare prima della rielezione. Per Israele è troppo tardi. Lo stato ebraico preferirebbe agire con gli americani, ma la visione israeliana è plasmata da tre lezioni dell’Olocausto: Israele è lo scudo degli ebrei, ci saranno sempre nemici degli ebrei e i non ebrei non ci soccorreranno. Quindi Israele agirà anche senza americani se ritiene di dovere farlo. Israele ha fatto capire al mondo che aderisce ancora alla ‘dottrina Begin’, implementata per la prima volta nel 1981 con il bombardamento del reattore iracheno di Osirak. E sessant’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale le lezioni dell’Olocausto continuano a guidare i leader israeliani. Israele ha le capacità militari per ritardare di cinque anni il programma iraniano. E lo strike avrebbe soprattutto un effetto psicologico devastante. Immagina di essere uno scienziato a Teheran il giorno dopo lo strike. Chi vorrà ancora lavorare al progetto quando tutto il tuo lavoro è andato perduto?”. Bergman pensa che questo countdown potrà concludersi soltanto in due modi: la fine d’Israele o del regime iraniano. “Questa guerra dei trent’anni è come un grande vulcano pieno di lava. Presto ci sarà una grande conflagrazione”.
Leggi la prima puntata Countdown, storia preventiva dello strike - Leggi la seconda puntata Mañana. La guerra fantasma d’Israele - Leggi la terza puntata Nella mente dello strike
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