Corruzione o inefficienza
Domande sul modo di fare i conti della Corte dei Conti
Il procuratore generale aggiunto della Corte dei Conti sostiene che in Italia la corruzione ha raggiunto i 60 miliardi. Quale tipo di metodologia contabile ha utilizzato per stimare questo importo? Mi sono letto le oltre 300 pagine di questa nutrita relazione e ho particolarmente esaminato le numerose tabelle allegate. Ma non ho trovato un’affermazione recisa circa l’aumento della corruzione, quanto il dubbio che essa possa esser aumentata.
Il procuratore generale aggiunto della Corte dei Conti sostiene che in Italia la corruzione ha raggiunto i 60 miliardi. Quale tipo di metodologia contabile ha utilizzato per stimare questo importo?
Mi sono letto le oltre 300 pagine di questa nutrita relazione e ho particolarmente esaminato le numerose tabelle allegate. Ma non ho trovato un’affermazione recisa circa l’aumento della corruzione, quanto il dubbio che essa possa esser aumentata. Ci ho trovato invece un panorama molto vasto di inefficienze, errori, clientelismi, abusi e zone d’ombra che emergono dai controlli che la Corte esegue. Durante la guerra, nel rifugio contraereo, un generale dell’aeronautica spiegava che la nostra contraerea era inefficiente. Non spiegava però che cosa i generali avessero fatto per farla funzionare meglio. Certo, c’è una sproporzione fra il numero di controllori e la miriade dei soggetti e delle materie controllate o, meglio, da controllare. Certo, se si lanciano allarmi sulla corruzione dilagante da parte di chi, come i magistrati contabili, è preposto proprio al controllo e alla vigilanza sui bilanci e sull’attività di gestione di enti pubblici e società statali, oltre che dei ministeri, un qualche problema gli stessi controllori se lo dovrebbero porre.
Poi certo c’è una sproporzione fra il numero di controllori e la miriade dei soggetti e delle materie controllate o, meglio, da controllare. Mutatis mutandis, un po’ come quando si considera il rapporto debito/pil. C’è il numeratore, ma anche il denominatore. Per avere meno disfunzioni (e corruzioni) è importante ridimensionare la materia oggetto del controllo. Vale la massima filosofica di Spinoza: entia non sunt multiplicanda. Inoltre ci sono troppe regolamentazioni. Secondo il presidente della Corte dei Conti, la trattativa privata per i contratti pubblici crea situazioni di corruzione più pericolose che non l’appalto. Io per esperienza personale sono convinto dell’opposto. Il fatto che vinca chi offre il prezzo più basso è spesso un inconveniente, perché ne va della qualità della prestazione. I vincitori al ribasso spesso sono coloro che sanno di poter meglio colludere con il personale della Pubblica amministrazione, che chiuderà un occhio sui materiali impiegati, accetterà cavilli su “imprevisti” che comportano altri lavori con altri costi e così via. Ma andando ai controllori, emerge che mentre in Italia c’è una marea di dipendenti pubblici e di enti parapubblici, c’è un numero molto esiguo di controllori, meno di tremila, ossia meno dell’uno per mille. La burocrazia per sua natura ama espandersi, sia ampliando le attività che accrescendo i costi, perciò non gradisce i controlli.
Da questa relazione si ricava l’impressione che più che per lo stato, questo valga per le regioni e per le pensioni. Fermo restando che bisogna ridurre l’elefantiasi della materia, però alla Corte dei Conti mancano circa 150 magistrati su un organico di 600. Inoltre essa vorrebbe assumere 50 statistici ed economisti, in quanto ha bisogno di fare controlli con queste tecniche, mentre attualmente opera soprattutto sulla base di indagini giudiziarie della magistratura ordinaria o (meno: anche per limitazione del personale) con indagini proprie. Ma il blocco del turnover impedisce le assunzioni. Dunque l’attuale metodo non va bene. Comunque, sono certo che la corruzione esiste e presumo che non sia in diminuzione. Aggiungo che i giovani econometrici conoscono nuove tecniche.
In genere il mondo degli affari in Italia reputa che chi amministra la cosa pubblica vada corrotto, per poter ottenere non un favore, ma il dovuto. Una volta, negli anni 80, venne a casa mia dopo pranzo a Torino un imprenditore amico di famiglia. Ero appena tornato dall’Africa. Lui aveva grossi lavori in Sudan e mi presentò i problemi con il governo locale. Dopo averlo rassicurato che ero in grado di risolverli, gli chiesi scusa, ero stanco e andavo a riposare. Mia moglie poi mi riferì che, rimasti soli, lui chiese quanto mi doveva per il mio disturbo. Lei gli spiegò che ero andato a riposare per davvero, e che non era il caso di fare profferte. Ricevetti poi in dono un libro d’arte. Credo di averne in casa oltre 500. Pare che fosse la risposta standard che davano le mie segretarie, da anni, al quesito, a cui mia moglie aveva replicato “Non è il caso”.
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