Gli sfilacciati intrecci di potere che solcano Mediobanca

Stefano Cingolani

Adesso abbiamo anche il tifo britannico. Non sono gli hooligan, ma gli yuppy che scrivono sul Financial Times. Rachel Sanderson, corrispondente da Milano tira in ballo Machiavelli (chi altri se no) per raccontare come e perché “i principi” del salotto buono resistono al rinnovamento di cui si è fatto alfiere Mario Monti. E mette il dito nella matassa che s’aggroviglia ogni giorno di più in Piazzetta Cuccia: i legami con Generali e Unicredit o quelli con la stessa Fonsai dei Ligresti, azionista e nello stesso tempo debitrice di Mediobanca.

Leggi la prima puntata Stiamo sulle Generali di Stefano Cingolani - Leggi Il ruolo dibattuto di Generali nella scalata di Palladio a Fonsai - Leggi La baruffa tra Uni-Mediobanca e Generali sulla super Unipol

    Adesso abbiamo anche il tifo britannico. Non sono gli hooligan, ma gli yuppy che scrivono sul Financial Times. Rachel Sanderson, corrispondente da Milano tira in ballo Machiavelli (chi altri se no) per raccontare come e perché “i principi” del salotto buono resistono al rinnovamento di cui si è fatto alfiere Mario Monti. E mette il dito nella matassa che s’aggroviglia ogni giorno di più in Piazzetta Cuccia: i legami con Generali e Unicredit o quelli con la stessa Fonsai dei Ligresti, azionista e nello stesso tempo debitrice di Mediobanca. Il piano escogitato per prendere la compagnia di assicurazioni e consegnarla a Unipol protegge i creditori, non i soci di minoranza e offre alla famiglia Ligresti una cospicua buonuscita, scrive il Financial Times che parteggia per gli scalatori che scuotono la nuova foresta pietrificata. Può darsi che Palladio Finanziaria e Sator rappresentino un’alternativa migliore, certo è che Roberto Meneguzzo e Matteo Arpe stanno cercando un partner industriale e non l’hanno trovato: Cattolica assicurazioni, sondata, si è tirata indietro. E tuttavia, il quotidiano del gruppo Pearson coglie un punto vero. L’operazione Fonsai è una mossa difensiva che serve ai “soliti noti”, per non perdere il miliardo e cento milioni di euro incagliato nel gruppo Ligresti eredità di Enrico Cuccia che il vecchio banchiere non avrebbe fatto crollare in questo modo. Anche se non sono più i tempi in cui l’ingegnere di Paternò accompagnava Bettino Craxi in via Filodrammatici.

    Che cos’è diventata, del resto, Mediobanca? Nonostante oggi abbia aperto sportelli per creare una propria banca (CheBanca), i suoi mestieri sono sostanzialmente due: banca d’affari e gestione di partecipazioni azionarie. Chi è ben addentro ai misteri della finanza, invita a guardare alle cifre, difficili da leggere, ma pur sempre la base di partenza. Facciamoci aiutare da R&S che fa capo a Mediobanca e che i dati li conosce bene. Gli ultimi bagliori risalgono al 2007, quando capitalizzava 13 miliardi e 742 milioni di euro, a fine 2010 era arrivata a 5,6, ieri quotava 3,93 miliardi. In questo ha seguito il destino di tutte le banche, ma soprattutto di Unicredit nella quale ha un ruolo importante. L’attività per la quale era nata nel 1946, in realtà la sua vocazione principale, nel 2007 aveva portato a casa 144 miliardi, nel 2010 meno della metà. Duro fare affari, oggi, per una banca d’affari. Ma è diventato più difficile dagli anni Novanta quando in Italia sono calate le merchant bank straniere.

    Le partecipazioni sensibili, il tesoro che Cuccia custodiva con la ferocia di Cerbero e l’astuzia di Ulisse, si sono ridotte a una manciata dal valore limitato: se si esclude Generali, il resto è poca cosa persino per il magro capitalismo italiano. I dati sono sempre R&S al 31 dicembre 2010: la quota Telco (Telecom Italia) 371 milioni, Gemina (Benetton) 200 milioni, Rcs (Corriere della Sera) 193 milioni, Pirelli 101 milioni, le cartiere Burgo 76 e via via scendendo. Generali era invece ancora a 2,419 miliardi. E un anno dopo tutte, tranne Pirelli, hanno perduto in media un terzo del loro valore. In teoria, si potrebbero vendere senza problemi per Mediobanca, anzi. Quando era in pieno clima da new deal, Nagel lo aveva anche adombrato. Ora, ammesso che lo voglia, dovrebbe far uscire allo scoperto perdite troppo ingenti. Quanto all’ultima riga del bilancio, l’utile di competenza degli azionisti superava il miliardo nel 2007, si è ridotto a zero con la crisi del biennio successivo, ha chiuso il 2010 con 263 milioni, passando dal 17,7 all’8 per cento del capitale netto. E’ chiaro, in queste condizioni, che la sovraesposizione ai debiti di Ligresti ha lanciato un campanello d’allarme. Alleggerirsi al più presto è di vitale importanza.

    Ma non ci sono solo i conti. La finanza combina al massimo grado due ingredienti che conducono per mano l’uomo: il guadagno e l’ambizione. Di qui il suo fascino. Cerchiamo il fattore umano e troviamo, l’un contro l’altro armati, tutti uomini di Mediobanca. Naturalmente c’è Alberto Nagel, il capo azienda; e dall’altra Arpe, l’enfant prodige in cerca della propria strada, oppure Giorgio Drago un ex della banca d’affari, passato a Gemina nel 1995 con Cesare Romiti, che oggi guida la finanziaria vicentina Palladio presieduta da Meneguzzo il quale, a sua volta, vanta ottimi rapporti con Giovanni Perissinotto numero uno di Generali.

    Uno scenario shakespeariano dove recitano insieme Iago, Amleto e Re Lear? A incoraggiare gli sfidanti c’è una fronda interna? Nei mesi scorsi in Mediobanca due soggetti forti hanno comprato aumentando la loro quota: Vincent Bolloré (che un anno fa aveva tentato di prendere Fonsai insieme a Groupama) e Diego Della Valle il quale nell’ottobre scorso ha lasciato il patto di sindacato (che rappresenta il 41 per cento del capitale). Nessuno dei due, per ora, è sceso in campo.   

    A fianco di Nagel, invece, s’è schierato (e non solo perché anche la sua banca è fortemente coinvolta) Federico Ghizzoni, l’amministratore delegato di Unicredit che ha portato a termine una ricapitalizzazione da 7,5 miliardi e ha governato con abilità il cambio nella compagnia azionaria tra vecchi soci come i libici o il fondo di Abu Dhabi (diventato primo azionista singolo con il 6,5 per cento) e nuovi, il più eclatante dei quali è Francesco Gaetano Caltagirone. E’ apparsa clamorosa l’uscita da Montepaschi in piena crisi e l’ingresso come socio in Unicredit a far da pendant alla poltrona di vicepresidente di Generali. Sarebbe stato convinto da Fabrizio Palenzona, vicepresidente della banca, il quale aspira alla presidenza se alla prossima assemblea, in aprile, uscisse il tedesco Dieter Rampl. In Unicredit rappresenta la fondazione Caritorino, anche se non ne fa più parte. Ma lui è un tipo che la posizione la trova con la furbizia della volpe e la forza del leone. Si pensi al ruolo svolto nella defenestrazione di Alessandro Profumo. Sono in molti a pensare che voglia diventare un punto di riferimento nel crocevia di tutti gli intrecci finanziari. Per fare che cosa? Ecco la domanda di fondo. C’è una logica dietro questi giochi finanziari, una strategia, risorse per rilanciare l’Italia e non passare dal rigore al rigor mortis?

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