Il genio di Sanremo
La prima cosa bella è stata il sorriso barbuto di Peppe Vessicchio. Quando arriva il momento di “Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio”, scende come una calma interiore, un appagamento difficile da confessare, la soddisfazione di essere arrivati, vivi, a un altro Sanremo (come i cerchi dei tronchi degli alberi, conta di quanti Festival abbiamo memoria – non è necessario averli visti, o giurare di non averne mai visto uno, importa che i Sanremi c’erano e ci guardavano, un anno dopo l’altro).
La prima cosa bella è stata il sorriso barbuto di Peppe Vessicchio. Quando arriva il momento di “Dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio”, scende come una calma interiore, un appagamento difficile da confessare, la soddisfazione di essere arrivati, vivi, a un altro Sanremo (come i cerchi dei tronchi degli alberi, conta di quanti Festival abbiamo memoria – non è necessario averli visti, o giurare di non averne mai visto uno, importa che i Sanremi c’erano e ci guardavano, un anno dopo l’altro). Poi chi vuole mette in forma una personale forma di lotta al tempo che passa e la traveste da lotta a Sanremo: ascolta concerti di Mozart mentre canta Francesco Renga, e trova un modo per comunicarlo a tutti (con Twitter si può), esce di casa, spegne la televisione, si droga, guarda “Piazza Pulita”, scrive un romanzo, fa l’amore, prepara una rivoluzione. Ma intanto Sanremo scorre, e dov’eri mentre Anna Oxa aveva, prima assoluta, il filo del perizoma che le spuntava dai pantaloni, dov’eri mentre Aleandro Baldi e Francesca Alotta facevano “Non amarmi”, dov’eri mentre Celentano invocava l’Apocalisse è il senso della memoria esistenziale. La metà del mondo (mondo relativo, piccolo mondo antico, mondo che dopo una settimana si risveglia come da uno svenimento e non si ricorda nulla), comunque, era lì davanti. Incollata a quei cinquantacinque minuti di puro delirio: fare un treno lento per chi vuole guardare il paesaggio e chiamarlo Lumaca, chiudere i giornali in nome di Dio, buttare la Corte costituzionale ai cani. Anche se tutti si sono indignati perché il predicatore ha occupato l’Ariston con la sua nevrosi, e dov’è finita la manifestazione canora, e mandategli un blocco pubblicitario, arrestatelo, tagliategli la testa (Lorenza Lei, direttore generale, sarebbe una perfetta regina di cuori dentro tutto questo gran paese delle meraviglie sanremese, in cui a un certo punto, giovedì sera, soprattutto gli ospiti stranieri erano decisamente sbronzi: dietro le quinte dev’esserci un notevole smercio di vodka), quello di Celentano è stato il massimo momento in cui Sanremo è diventato Sanremo. Infatti, in prima fila, Mara Venier applaudiva, e due sere dopo ha fatto la foca insieme a tutto il teatro: significa che non è stato un sogno, non lo è stato nemmeno il commissariamento del Festival per lesa deità. Adriano Celentano ha detto quello che gli pareva, come da contratto, come da promessa. E’ stata una lunga ora di libero raccapriccio, ma quando perfino Gianni Morandi dice “cazzo” (un colpo al cuore, la fine improvvisa di infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta: forse gli hanno consigliato di dimostrare in qualche modo di avere una seppur minima percezione della realtà, infatti la sera dopo ha detto: non ho niente contro i gay, quella dopo ancora ha ripetuto: io adoro i gay, non ho niente contro – e Rocco Papaleo: “No Gianni, devi dire: Adoro i gay e anzi se qualche sera sono un po’ brillo…” –, poi cercava in tutti i modi di far capire che lui era gentile con i ciechi, quando José Feliciano si stava sedendo, da solo, su uno sgabello alto due metri), significa che Sanremo è in palla. Funziona. Sfinito, scemo, anacronistico, noioso, misero, frugalista, sontuoso (Patti Smith che canta “Impressioni di settembre” e subito dopo “Because the night”, dopo le undici di sera su RaiUno, non è esattamente il nulla), con o senza mutande, come Belen, che comunque le aveva, ma vivo. Rimesso in vita, come ogni anno, dato per morto, come da decenni.
Adriano Celentano ha fatto lo show promesso, niente di più, ha messo in scena se stesso, i suoi rincoglionimenti, anche le sue volgarità di grande divo della tivù, il monumento vandalizzato che calamita sguardi. Se il giorno dopo il naufragio della Costa Concordia era pieno di gente che si metteva in posa davanti alla nave per farsi scattare la foto ricordo, perché tutti noi, già impiumati da sciacalli, avremmo dovuto cambiare canale (senza controprogrammazione, tra l’altro), mentre Celentano da un momento all’altro poteva darsi fuoco, lanciare una fatwa contro Aldo Grasso, sgozzare Pupo, divorziare dalla moglie, farsi monaco agostiniano? In fondo ha fatto un po’ di tutte queste cose insieme, lasciandoci il piacere di gridare: presto, una camicia di forza, legatelo, forza Giannimorandi, tappagli la bocca con quelle mani. Compatti nell’invocare le vallette, una canzone, una televendita, Peppe Vessicchio (Peppe tu non mi conosci ma ti voglio bene, promettimi che ci sarai sempre, ogni febbraio, e non cambierai pettinatura).
Succede così, quando si scombina l’ordine sanremese. Lo si rivuole indietro, indignati, ma soddisfatti di avere qualcosa di cui sparlare, per dire subito: diomio che noia, che voglia di morire, ancora con i Matia Bazar che non si è mai capito chi siano, e poi perché, perché ogni volta che c’è la valletta straniera bisogna farle dire qualcosa nella sua lingua, come se fosse davvero una faccenda bizzarra, di cui chiedere prova, che quella possieda una lingua diversa dalla nostra, e non sappia pronunciare “Enio Moriccione”, e non gliene freghi niente di Eugenio Finardi.
L’anno scorso a Roberto Benigni riuscì il miracolo di estasiare tutti, con il monologo sull’inno di Mameli, quest’anno a Celentano è riuscito il miracolo di far inorridire tutti: purtroppo non so cosa sia successo ieri sera e cosa succederà stasera, se lui sarà arrivato, se avrà sganciato una bomba e a Sanremo adesso ci sono solo macerie, la mia unica speranza è che Loredana Berté e Gigi D’Alessio non smettano mai più di cantare la canzone dei reietti, con lei disfatta che grida: “Sono maledetta, questo sì lo so”, e lui che prova a redimerla: “E’ solo una prigione la tua falsa libertà”, forse la invita ad abbandonare il rigonfiamento labbra e affiliarsi alla camorra – satira grossolana, in ricordo di Luca e Paolo che non avendo un’idea oltre al lutto per la fine di Berlusconi, sembravano Daniela Santanchè che urla a Elsa Fornero: sei mia sorella. Loredana Berté è stata ripescata a notte fonda, anima nera e grandiosa: sembra sempre che basta, sia finita, poi all’ultimo istante rinasce, si commuove per sua sorella, si ricorda di avere una voce, scandisce le parole, riprende il possesso di Sanremo, sembra perfino la Berté. I bambini, spaventati, la prima sera mi hanno chiesto se è cattiva, allora ho mostrato loro un video in cui, trentasette anni fa, cantava: “Sei bellissima”, con quelle gambe da sballo, e ho detto che no, era stato Gigi D’Alessio per invidia a rapirle la faccia. Perché, come Luca e Paolo, siamo tutti in un modo o nell’altro orfani di Berlusconi e abbiamo un problema con le colpe: a chi darle, adesso? Ai Soliti Idioti che hanno detto una sola parolaccia, hanno smascherato l’imbarazzo di Gianni Morandi (più spaventato, nel suo smarrimento aziendale, dalla parola: omosessuale che dalla fine del mondo predicata da Celentano) e hanno trovato, subito, la definizione del Festival: “Ma non la senti come una puzza de putrefazione qua?”. E subito dopo: pubblicità, famo cassa. Questa Morandi l’ha capita, e l’ha ripetuta convinto, sincero, e a ogni inizio di serata ha diligentemente citato lo stilista dei suoi smoking e chiesto alle ragazze chi avesse disegnato i loro vestiti, come nelle televendite: a proposito, Belen ed Elisabetta Canalis hanno sfoggiato solo due abitucci a testa perché c’era lo stato emergenziale da torcicollo di diciottenne e non avevano niente in valigia o è stato un consapevole e serio omaggio alla disperazione dei tempi di crisi? Certo lo svolazzare dell’abito di Belen sul tatuaggio inguinale, con immediata caccia alle mutande, analisi al microscopio di fotogrammi pubici, prove del Dna, referti della Cia, home page di tutti i siti dei grandi quotidiani sulla farfalla colorata di Belen al posto della faccia di Monti, è stato il brivido che vola via, tutto l’equilibrio sopra la follia di un festival che resta bacchettone anche quando sembra scandaloso (non si è registrato lo stesso sconvolgimento, va segnalato, per l’arrivo di Rocco Papaleo con la patta aperta, chissà se anche lui aveva le mutandine cucite allo smoking o un tatuaggio alato).
Non la senti come una puzza di putrefazione, quando il giorno dopo il botto di Sanremo bisogna sentir parlare di nuovo di libertà di espressione, di violazione dei codici, dei valori condivisi, del comitato etico, di necessaria vigilanza sullo show. Quando ci si dice convinti che “Celentano saprà recuperare e ridare serenità a Sanremo”. La serenità di una morte lenta e sobria, il vicedirettore della Rai con il righello in mano a misurare lo spacco di Belen e a giudicarlo “eccessivo”. Perché esibito “in un momento televisivo molto familiare”. A parte che i bambini si sono spaventati molto di più con le bombe di Celentano e con le pettinature di Nina Zilli che con la discesa dalla scalinata di Belen, ma c’è un comitato anche per gli orli delle gonne? C’è il morboso controllo del giorno dopo, con lo zoom, sui centimetri quadrati di pelle scoperta per poterli mostrare a chiunque non abbia lo schermo gigante in casa o si sia distratto in quella frazione di secondo, e poi dire che no, era troppa. Pensavo che avessero invitato Belen perché è di sovrumana bellezza (e così simpatica che Fabrizio Corona non può essere tanto male, se lei non lo molla), e invece probabilmente era lì per dare la ricetta del perfetto consommé e offrire consigli sulle bomboniere fatte a mano. Come Ivana, la torcicollata, ed Elisabetta Canalis, sempre meno splendente, dovevano stare in tailleur a farsi chiedere da Gianni Morandi qual è il modo migliore per togliere le macchie di sugo dai grembiuli. E allora Ivana ieri sera avrebbe dovuto coprirsi gli occhi, sconvolta, invece di dire a Papaleo: “Faccio io”, mentre lui si tirava su la patta. Il gioco del “Portatemi delle donne”, dopo l’esibizione di Lucio Dalla con il suo pupillo Pierdavide Carone (il geniale autore di “In tutti i luoghi in tutti i laghi”, perché c’è sempre un Festival o una canzone da rimpiangere) funziona sempre, ma poi le donne devono sottrarsi. Adesso anche il ministro Fornero si sente offesa per “come è stata trattata la figura della donna”, e consiglia di spegnere la televisione. Siamo ancora ai reparti speciali, ai maltrattamenti delle foche monache, insomma, figure inconsapevoli e prive di volontà, da far giocare in appositi parchi protetti (però Belen è più furba di una foca, e anche più saggia: “La tv è show. Non scrivo le leggi. Farebbe clamore se fosse una parlamentare a scendere le scale con quello spacco”). Invece bisognerebbe trovare il modo di salvare dai bracconieri la figura dell’uomo: Gianni Morandi non è riuscito nemmeno a dire “Goran Bregovic”, ha chiesto a chiunque di fargli le traduzioni, anche alla tennista figurante nella performance di un dj francese pazzo, e quando Ivana gli ha detto: “Figo” (per generosa compassione verso il nonnino), Morandi ha rischiato di svenire per la spudoratezza. Ma ieri ha ammesso di essere stanco, che forse l’anno prossimo ci vorrebbe qualcuno di più giovane (essere Pippo Baudo non è da tutti).
Bisogna capirli: ore e ore e ore, in tutti i luoghi in tutti i laghi, di show, mutande che spariscono, amplificatori che non funzionano, ciglia finte che saltano, patte dei pantaloni che scendono, batterie da smontare e rimontare, tempi morti, commissariamenti, gente che parla inglese, e intanto i cantanti, dietro le quinte, in mezzo ai cavi e alle bottigliette d’acqua, ammucchiati come foche braccate (le foche sono il nuovo simbolo di Sanremo) mentre aspettano la fine dei vari sproloqui per poter cantare. In qualche modo bisogna tenersi su, farsi coraggio. Quindi giovedì sera, per scaldarsi il cuore, hanno deciso di ubriacarsi. Il compagno di canzone di Chiara Civello, Shaggy, non riusciva a spiccicare una nota e nemmeno a stare in piedi, ed è stato il primo a esibirsi. Si vede che Sanremo, nell’immaginario internazionale, è ancora una festa (oltre al cachet), un’occasione per fare bisboccia. Barcollavano tutti, ridevano molto, si abbracciavano forte. Sembrava, a un certo punto, di stare a Woodstock, solo senza il fango e con Giannimorandi. E dopo l’euforia, la commozione: Irene Fornaciari ha pianto, Loredana Berté ha pianto, la cantante dei Matia Bazar ha pianto, anche a casa si è pianto con “We will rock you” cantata da Brian May dei Queen. Forse anche Peppe Vessicchio ha pianto, dirigendo Patti Smith.
E adesso che Geppi Cucciari avrà fatto una grande figura, adesso che Adriano Celentano avrà rasserenato o bombardato di nuovo Sanremo, e ogni gruppo d’ascolto avrà deciso che il Festival è sepolto, che preferiamo vivere, si può dire, almeno, che hanno vinto le ragazze. Ha vinto Belen, che ha fatto impallidire Celentano senza nemmeno dover nominare Dio, ma rivisitando la spallina di Patsy Kensit di venticinque anni fa. Hanno vinto Arisa, Noemi, Nina Zilli, Emma Marrone, Chiara Civello, Erica Mou, Dolcenera (non i loro parrucchieri), nettamente superiori in questo femmine contro maschi della canzonetta. Ha vinto la ragazzina eliminata dei giovani, Celeste Gaia, con un ritornello che già tutti cantano: “Carlo, Carlo, vorrei ti chiamassi Carlo”. Ha vinto Loredana Berté con gli occhiali da sole, che si trascina in giro Gigi D’Alessio al guinzaglio. Ha vinto la valletta ceca, cagionevole ma in grado perfino di parlare inglese per salvare Giannimorandi che diceva Brusprinti (per elogiare Springsteen). L’anno prossimo quindi, una conduzione femminile? Una nuova Antonella Clerici vestita da soffice meringa? Sarebbe meraviglioso (non esageriamo, non ho detto che il Festival è così tanto morto).
Il Foglio sportivo - in corpore sano