Un'idea
Salvati stia tranquillo, la crisi non basta a rivalutare Marx e rivoluzione
La constatazione che il capitalismo esiste e domina più che mai, produttivamente e distruttivamente, le società attuali, non fonda né giustifica l’idea di rivoluzione. Eppure, a ogni crisi e a ogni generazione, si formano conventicole di credenti e di dottrinari nella cui testa dire che il capitalismo è un fatto equivale a dire che il comunismo è necessario.
La constatazione che il capitalismo esiste e domina più che mai, produttivamente e distruttivamente, le società attuali, non fonda né giustifica l’idea di rivoluzione. Eppure, a ogni crisi e a ogni generazione, si formano conventicole di credenti e di dottrinari nella cui testa dire che il capitalismo è un fatto equivale a dire che il comunismo è necessario.
Nella cultura di queste conventicole, convinte di essere l’avanguardia della storia solo perché riescono a occupare la testa di un corteo, si rimescolano varie cose: Bakunin e Marx tornano insieme, Lenin abbraccia Heidegger, Foucault viene letto per capire Benjamin, la teologia negativa e la Cabbala aprono le porte all’utopia e infine, in un bagno di equivoci, Toni Negri marcia a fianco di Giorgio Agamben. In mancanza di teorie sociali più precise, si può quindi pensare che il comunismo libererà l’Essere (sociale?) da tutti i dispositivi alienanti (della tecnica?): dal sistema produttivo a quello legale, comunicativo e forse sessuale.
Apprendo dall’articolo di un economista, Michele Salvati, che proprio di capitalismo si è ricominciato a parlare recentemente: “Sulla stampa anglosassone si fanno sempre più frequenti le voci di allarme sul futuro del capitalismo e in particolare sul difficile rapporto fra capitalismo e democrazia. Capitalismo, non economia di mercato, o altri eufemismi. Americani e inglesi, di destra o di sinistra, non hanno i nostri pudori e danno alla cosa il suo nome, quello che Karl Marx ha contribuito a diffondere e al quale ha eretto quello straordinario monumento che è il ‘Capitale’. Spesso quelle voci prendono spunto da manifestazioni di indignazione e di rivolta contro aspetti penosi e offensivi della situazione economica e sociale com’è percepita in contesti nazionali: nei paesi anglosassoni ciò che provoca il maggior risentimento è l’impressionante alterazione nella distribuzione del reddito negli ultimi trent’anni, il contrasto tra le condizioni di vita stazionarie del ceto medio e lo stratosferico incremento nei redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione. Possibile che la democrazia (…) non riesca a invertire queste tendenze?” (Corriere della Sera, 10 febbraio scorso).
In verità abbiamo capito da tempo che la democrazia più che un fatto è un’idea carica di contenuto utopico: una promessa destinata a essere mantenuta solo in misura limitata. La dinamica del capitalismo ha bisogno di ampi spazi per una libertà di impresa spregiudicata e aggressiva, e ha bisogno di un consumo crescente e veloce di merci tecnologiche e culturali che tendono a indebolire la coscienza critica, la memoria storica e la partecipazione politica dei cittadini.
A queste cose ci si era rassegnati. Ma quando una crisi economica grave risveglia il risentimento morale in un ceto medio che occupa i due terzi o i tre quarti della società, allora non solo la classe dirigente, ma il sistema stesso rischia di perdere le basi della sua legittimazione. E tuttavia constatare che il capitalismo da buono può diventare cattivo, sottraendo a quasi tutti sicurezza e benessere, suoi fondamentali benefici, non è sufficiente a rivalutare il Marx rivoluzionario o l’eterno “bisogno di comunismo”. Non ci sono, mi pare, né gli strumenti teorici né le condizioni pratiche perché questo sia possibile. Chi conosce oggi le cosiddette “leggi dialettiche” dello sviluppo storico? Dov’è la classe “oggettivamente” rivoluzionaria? Dov’è il partito necessario a guidarla? Il Novecento delle rivoluzioni catastroficamente fallite è finito. Ma gli habitué della rivoluzione non finiranno mai di formare le loro conventicole: senza neppure chiedersi se sia davvero successo, anche nei peggiori anni del Novecento, che gli operai abbiano voluto una rivoluzione come la immaginavano i rivoluzionari.
Ribellarsi, opporsi, sabotare la produzione, imporre riforme non sono etichettabili come “bisogno di comunismo”. Se poi si crede nelle utopie, va ricordato che l’utopia è esattamente una delle cose che Marx ha combattuto di più.
Il Foglio sportivo - in corpore sano