Stufi della yakuza

Giulia Pompili

Leggenda vuole che i primi a soccorrere i giapponesi colpiti dal terremoto dell’11 marzo scorso furono gli uomini della Yakuza, la criminalità organizzata giapponese. Prima ancora che si muovessero le squadre di soccorso, nella notte tra l’11 e il 12 marzo, i camion di due tra i più importanti gruppi criminali hanno portato acqua potabile, cibo e coperte nella regione del Tohoku.

    “Che mondo,
    Dove i fiori di loto.
    Sono trasformati in campo”

    (Haiku di Kobayashi Issa, 1763-1827)

    Leggenda vuole che i primi a soccorrere i giapponesi colpiti dal terremoto dell’11 marzo scorso furono gli uomini della Yakuza, la criminalità organizzata giapponese. Prima ancora che si muovessero le squadre di soccorso, nella notte tra l’11 e il 12 marzo, i camion di due tra i più importanti gruppi criminali hanno portato acqua potabile, cibo e coperte nella regione del Tohoku. Lo hanno fatto nascondendo la propria identità, per evitare che gli aiuti fossero rifiutati. Hanno aperto i propri edifici per dare ospitalità ai rifugiati, e anche ai gaijin, gli stranieri – un fatto, questo, che ha colpito l’opinione pubblica, perché certi gruppi criminali sono considerati generalmente xenofobi.
    C’è chi dice che la yakuza non fa niente per niente. Anche durante il grande terremoto di Kobe del 1985 gli elicotteri delle organizzazioni criminali furono i primi a portare soccorso. In seguito, il business legato allo smaltimento dei rifiuti rese la Yamaguchi-gumi, la yakuza che ha base a Kobe con circa trentanovemila membri attivi, uno dei gruppi criminali più potenti in Giappone.

    Jake Adelstein, giornalista americano che per anni ha lavorato per lo Yomiuri Shimbun seguendo la cronaca nera e la mafia giapponese (autore di “Tokyo Vice”, 2009, edito in Italia da Einaudi e mai pubblicato in Giappone per quelle che lui stesso definisce “le resistenze degli editori”). Adelstein spiega così l’interesse della yakuza nella regione di Tohoku, colpita dal terremoto: “Si possono muovere in fretta perché non devono seguire burocrazie o regole. E poi il crimine organizzato giapponese detiene dal 3 al 4 per cento dell’intero settore delle costruzioni. Sperano di recuperare una parte di quota di mercato nella ricostruzione”. Il capo di una delle bande ha detto ad Adelstein subito dopo la catastrofe: “Non ci sono yakuza o katagi (cittadini) o gaijin in Giappone in questo momento. Siamo tutti giapponesi. Abbiamo tutti bisogno di aiutarci a vicenda”.
    La yakuza è indicata dalle autorità giapponesi come boryokudan, ovvero “gruppo violento”. La polizia anni fa chiese esplicitamente alla stampa di non utilizzare più il termine yakuza che in Giappone oscilla pericolosamente verso una valenza quasi romantica, e comunque generalmente accettata. Gli yakuza si considerano quasi una organizzazione umanitaria (ninkyo dantai: il nome presuppone l’esistenza di un codice cavalleresco): assumono il ruolo di protettori dell’ordine pubblico, mantengono la sicurezza nelle strade, gestiscono affari e proteggono la popolazione. La struttura dei gruppi è molto ben organizzata. Vigono ferree regole di condotta importate probabilmente dal confucianesimo, come la ie, la struttura di famiglia allargata alla quale si dedica la propria incondizionata fedeltà soprattutto al capo, il kaicho. Ogni famiglia ha il suo mon, il simbolo della casata cui appartenevano i samurai. Il nome yakuza, invece, deriva da un antico gioco d’azzardo giapponese simile al black jack, l’oicho-kabu, in cui bisogna arrivare al punteggio di 19. La combinazione 8-9-3, che in giapponese si legge come ya-ku-sa, dà il numero venti, il numero che sballa, quello del perdente.

    Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Tokyo Times nel 2011, la polizia stima il numero degli appartenenti alla yakuza in circa centoduemilaquattrocento persone a livello internazionale. Di questi, il 73 per cento viene fatto rientrare in una delle tre organizzazioni principali, la famiglia Yamaguchi (Yamaguchi gumi), la famiglia Sumiyoshi (Sumiyoshi kai) e la famiglia Inagawa (Inagawa kai), che costituiscono le tre superpotenze. Il restante 27 per cento è diviso tra piccole e medie bande dislocate in tutto il paese.

    Intorno agli anni Ottanta la yakuza ha iniziato a specializzarsi in reati economici, tanto da meritarsi l’appellativo di Goldman Sachs con la pistola (copyright di Jake Adelstein). La nuova criminalità organizzata ha esteso le sue attività alle scommesse clandestine, all’estorsione alle aziende, ai circuiti finanziari informali e poi anche il traffico di stupefacenti, il commercio di esseri umani, lo sfruttamento sessuale di minori, il riciclaggio di denaro sporco, la caccia alle aree edificabili. Durante il Dopoguerra poi, la yakuza si è infiltrata nel campo dell’edilizia per la ricostruzione, fornendo manodopera a basso costo. L’entrata in vigore nel 1992 della legge anti boryokudan, ispirata largamente alla legge antimafia italiana, ha consentito alcuni risultati, tra cui l’esclusione delle bande criminali da specifici enti non a scopo di lucro e dai lavori pubblici. Ma la stampa non di rado racconta di accordi sottobanco tra yakuza e forze di polizia che nei periodi di crisi chiedono l’aiuto delle bande – l’ultima volta, secondo quanto riportato dall’Asahi Shimbun, si sospettò di un accordo di ordine pubblico durante la visita del presidente americano, Barack Obama, in Giappone. Secondo Adelstein, che scrive sul blog Japansubculture.com, la polizia giapponese ha diramato da qualche giorno un’ordinanza a tutte le caserme di polizia locale: ogni questura deve assicurare la cattura di almeno venti personaggi legati alla yakuza ogni mese. Un giro di vite che in qualche modo arriva da lontano.

    Le autorità giapponesi ultimamente insistono molto sul fatto che l’aura romantica che avvolgeva i mafiosi nel passato si sta perdendo. Dalla fine degli anni Novanta i governi locali hanno chiesto di eliminare i legami dei dirigenti e delle imprese con la yakuza, e scrivono ordinanze che finalmente permettono di punire i cittadini che fanno affari con la criminalità. A rovinare la propria caratteristica di gangster positivi però, gli yakuza ci riescono benissimo da soli. Poco prima del grande terremoto di marzo, uno scandalo di scommesse truccate aveva colpito il Sumo, sport nobile per eccellenza in Giappone. Lo zampino della yakuza, pur non essendo stato dimostrato, era sotto gli occhi di tutti. A fine febbraio 2011 la Japan Sumo Association aveva deciso di annullare tutte le competizioni in corso, compreso il grande Torneo di primavera. Durante l’emergenza del terremoto però decine di sumotori, alcuni anche molto famosi, espressero il proprio desiderio di redenzione lavorando giorno e notte per gli sfollati. Tanto che nella scorsa primavera un torneo di Sumo ci fu, al Ryogoku Kokugikan, la più grande arena di Sumo a Tokyo, e fu completamente gratuito. Un evento “di riabilitazione”, lo chiamò la stampa nipponica, per ritrovare la disciplina, la rettitudine e l’onore dei rikishi dopo gli scandali legati alla yakuza. L’ombra della criminalità organizzata si affacciò mesi fa anche nello scandalo della storica società giapponese Olympus: quando all’inizio del 2011 il cinquantenne inglese Michael Woodford venne nominato presidente del cda, ruppe lo schema piramidale di finanziamenti illeciti e ambigui che la società perpetrava da anni. Un sistema che agli occhi dell’inglese sembrava molto vicino al nuovo business della yakuza di riciclaggio del denaro attraverso illecite operazioni finanziarie.

    E poi c’è Kitakyushu, una città di un milione di abitanti della prefettura di Fukuoka, nel sud del Giappone. E’ divenuta simbolo della lotta alla yakuza da quando, un paio di anni fa, ha deciso di epurare dalla propria comunità i membri del Kudo-kai, una delle più potenti famiglia della zona. La yakuza voleva mettere le mani su un nuovo edificio che doveva diventare un asilo. I cittadini fecero una manifestazione davanti all’ufficio del Kudo-kai. Nella notte successiva la casa di Takashi Kurose, presidente di una società di costruzioni locale e uno degli animatori della manifestazione, fu aggredita a colpi di granate e lui rimase ferito all’addome. Su 44 attentati intimidatori avvenuti in Giappone lo scorso anno, almeno 18 erano a Fukuoka. Minacce di morte e intimidazioni sono arrivate anche al sindaco, Kenji Kitahashi, e alla sua famiglia. L’industria edilizia è una torta desiderabile per la yakuza. Tanto che per evitare le infiltrazioni della criminalità organizzata durante la costruzione del Tokyo Sky Tree (una torre per le telecomunicazioni di oltre duemila metri) si è costituito un team di legali e imprenditori. Kohei Kishi, direttore della divisione criminalità organizzata dell’Agenzia nazionale di oolizia giapponese, ha detto che “il boryokudan è in grado di minacciare l’intera economia del paese e ha radici profonde nell’ambito dell’edilizia”.

    L’affiliazione alla yakuza prevede un cerimoniale, e il suo valore simbolico è espresso anche sulla pelle, attraverso i tatuaggi. La tecnica utilizzata per disegnare il corpo è quella tradizionale giapponese dell’irezumi (“ireru”, inserire e “sumi”, inchiostro) o dell’horimono (“horu”, inscrivere e “mono”, qualcosa – quest’ultima tecnica molto meno nobile), niente a che vedere con i moderni aghi elettrici. Un rito spirituale e di iniziazione che comunica non solo l’appartenenza a una famiglia ma anche il proprio livello di sopportazione del dolore. Furono gli xilografi giapponesi, infatti, a inziare a utilizzare la stessa tecnica delle xilografie sulla pelle. L’inchiostro, il nero di Nara, è lo stesso utilizzato per le opere d’arte e  viene inserito sotto la pelle da stiletti di bambù o metallici e poi prende il caratteristico colore blu-verde. La procedura è molto lunga e dolorosa e può richiedere anni per essere completata.

    I disegni degli appartenenti alla yakuza ricoprono gran parte del corpo (lo stile si chiama total body o suit tattoo), ma vengono esclusi mani, piedi, faccia, collo e alcune volte anche la parte centrale del petto. Questo perché indossando i kimono o gli yukata i disegni possano restare coperti. E’ intorno al periodo Kofun (dal 300 al 600 dopo Cristo) che i tatuaggi hanno cominciato ad assumere connotazioni negative in Giappone. Invece di essere utilizzato per scopi rituali o come manifestazione di uno status sociale, il marchio sulla pelle iniziò a essere utilizzato sui criminali come punizione (una tradizione forse importata dall’antica Roma, dove agli schiavi ribelli erano tatuate frasi come “Io sono uno schiavo che è scappato dal suo padrone”). Poi, all’inizio del periodo Meiji (1868-1912 d.C.), il governo giapponese, volendo tutelare la propria immagine con l’occidente, mise i tatuaggi fuorilegge e l’irezumi cominciò a divenire sinonimo di criminalità. Alcune bande continuarono a tatuarsi sul braccio degli anelli neri ogni volta che compivano un atto criminoso, e la tecnica tradizionale fu tramandata di nascosto come arte decorativa e di manifestazione spirituale. Intorno al 1800 fu pubblicata una nuova edizione illustrata del romanzo cinese “Tsuzoku Suikoden goketsu hyaku- hachi-nin no hitori”, “I 108 eroi del Suikoden”, con i disegni di Utagawa Kuniyoshi. La storia è quella di centootto eroi, tutti maestri d’arma, che nascosti nella palude del fiume Liang-shan combattono le ingiustizie subite derubando i ricchi corrotti e combattendo il potere centrale proteggendo il popolo. La pubblicazione delle novelle illustrate fece tornare in voga l’arte del tatuaggio e anche la yakuza subì il fascino dei personaggi del Suikoden. Il tatuaggio tornò a essere legale con l’arrivo delle forze di occupazione nel 1945, ma alcuni bagni pubblici, centri sportivi e sorgenti termali ancora oggi vietano l’ingresso ai clienti con i tatuaggi.

    Non è difficile riconoscere un membro della yakuza, in Giappone. Oltre ai tatuaggi, spesso indossano guanti per coprire i segni di una delle pratiche più cruente che si esegue sui traditori. Lo yobitsume, letteralmente l’accorciamento delle dita, è un rituale tipico della yakuza. E’ il più sincero atto di scuse che un sottoposto possa fare nei confronti del Kumicho. La pratica sembra avere origine ai tempi dei Bakuto, i giocatori d’azzardo itineranti, che intorno al XIX secolo cominciarono a riunirsi in vere organizzazioni criminali controllando il gioco d’azzardo e dando forse origine alla yakuza moderna – il bokuto più famoso della letteratura è Zatoichi, il massaggiatore cieco protagonista del film di Takeshi Kitano. Il taglio delle dita è legata ai bakuto perché sarebbe stato di uso comune accettare una parte di un dito dell’inadempiente per coprire i debiti di gioco. Durante una cerimonia quasi religiosa, lo yobitsume viene eseguito ponendo il dito mignolo della mano sinistra del traditore su un panno bianco. Il taglio viene fatto subito sopra la prima falange e il moncone avvolto nel panno è consegnato nelle mani del capo della banda. Il quinto dito della mano sinistra ha un ruolo fondamentale nell’impugnatura della katana lunga, quella usata quasi provocatoriamente dai bokuto perché importata dai ronin, i samurai senza padrone. Solo i samurai, nel Giappone feudale, erano infatti autorizzati a utilizzare la spada lunga. Il taglio del dito mignolo della mano sinistra metteva fuori gioco l’avversario impedendogli, di fatto, di impugnare la katana. Lo yubitsume è anche usato come ultimo avvertimento prima dell’espulsione dalla yakuza: più pezzi di dito si perdono, più si sta esagerando.

    La pratica dello yobitsume nelle nuove generazioni di criminali sembra essere caduta in disuso. Il taglio delle dita sta scomparendo perché espone troppo i membri al riconoscimento da parte di cittadini e forze dell’ordine. Addirittura oggi alcune organizzazioni no profit lavorano in Giappone per applicare delle protesi a chi ha subito lo yobitsume ed è uscito dalla banda a cui apparteneva.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.