Don Gallo nel pollaio
Marinaio. No, viandante. Anzi: cantante. Attore. E ristoratore e opinionista e kingmaker e povero cristo tra i poveri cristi. Don Gallo, secondo don Gallo, è soltanto uno che a vent’anni ha preso “il biglietto da visita di Gesù”, ha visto che c’era scritto “sono venuto per servire e non per essere servito” e da quel momento è stato sul marciapiede, tra relitti e derelitti. Questo dice don Gallo, ottantatreenne prete di strada a Genova, a chiunque lo intervisti in televisione.
Marinaio. No, viandante. Anzi: cantante. Attore. E ristoratore e opinionista e kingmaker e povero cristo tra i poveri cristi. Don Gallo, secondo don Gallo, è soltanto uno che a vent’anni ha preso “il biglietto da visita di Gesù”, ha visto che c’era scritto “sono venuto per servire e non per essere servito” e da quel momento è stato sul marciapiede, tra relitti e derelitti. Questo dice don Gallo, ottantatreenne prete di strada a Genova, a chiunque lo intervisti in televisione (Fabio Fazio, Serena Dandini, Daria Bignardi, Corrado Augias) e questo scrive in ognuno dei suoi vendutissimi libri (due, tre, cinque all’anno, tutti con editori diversi, da Mondadori a Dalai ad Aliberti). Don Gallo è pila in libreria, volto sugli schermi, corpo nei teatri, parola scritta in edicola, tribuno al microfono, predicatore sull’altare, attivista dietro all’urna e persino fantasma a Sanremo (dove lui voleva andare a cantare l’“Internazionale” e dove invece è comparso per interposta persona, nelle parole di Adriano Celentano: attacco ai giornali cattolici che andrebbero chiusi perché non fanno come don Gallo, e pazienza se poi don Gallo ha salvato questo e quelli, dicendo che Adriano ha ragione ma la libertà di espressione non si tocca).
Con Fabrizio De André andava a pranzo. Con Romano Prodi ha scambiato quattro chiacchiere. Con Silvio Berlusconi si è visto una volta in uno studio televisivo, e non hanno parlato di politica. Con don Gianni Baget Bozzo era molto amico nonostante la diversità di opinione, per via della vecchia militanza nella stessa brigata partigiana (gli voleva bene, e ha co-celebrato il suo funerale). Con Massimo D’Alema ha conversato in trattoria, sotto al faro, al porto (presentazione di un candidato, soldi in cassa per la comunità, ha scritto divertito don Gallo). Segue il fumo del suo sigaro, il cappellano “feriale e festivo”, come dice una targa sulla sua porta, e il suo sigaro attira gente attorno all’outsider delle primarie genovesi Marco Doria, vincitore su un Pd spaccato in due. Per l’ex sindaco Marta Vincenzi, don Gallo è l’eminenza grigia (che ha convinto pure Nichi Vendola, inizialmente pro Vincenzi). Eppure al don Gallo caciarone che a ogni concerto salta sul palco e si mette a cantare con i musicisti equi e solidali, al don Gallo “confusamente stalinista”, come dice uno che lo conosce, manca l’ambiguità del pifferaio magico. Chi è davvero, questo prete di strada e di ribalta? Una certezza c’è: don Gallo arriva ovunque vi sia qualcosa da dire alla sinistra che vuole sentirsi dire qualcosa di sinistra – da un prete, per giunta, che si esprime come fosse disegnato da un ateo per un fumetto: pro gay (“un genere dell’energia umana”), pro sesso (“perché condannare il piacere?”), pro testamento biologico, pro Piergiorgio Welby, pro trans (”figli di puttana come me”), antiproibizionista (“caro Giovanardi, non dirmi che lo spinello buca il cervello, altrimenti ti dico che a te non serve neppure lo spinello”), pacifista, pauperista come un san Francesco (“la chiesa è povera o non è”), critico verso papi, cardinali, vescovi e preti fratelli, impegnato per il sud del mondo (viva Zapata). “Mi disegnano così”, diceva Jessica Rabbit, e don Gallo si disegna così: impregnato fino all’osso di cultura progressista (e modaiola), “angelicamente anarchico” (dice), tutto una citazione di Antonio Gramsci, don Milani e don Bosco. Va davvero in giro di notte a ripescare la sua perduta gente (chapeau), ma è anche dispettoso come un bambino a scuola (come quando Giovanna Melandri in veste ufficiale andò a Genova per una commemorazione e lui decise di farla sedere in teatro “accanto a due puttane”, tanto per vedere com’è che si sta “tra gli ultimi”). E’ ascoltato come il nonno saggio che ha fatto la guerra, citato per le sue massime di puro sincretismo (un po’ Gesù, un po’ Marx, un po’ Marcos, un po’ Costituzione, un po’ Pannella, un po’ Vasco Rossi, un po’ Jovanotti). E’ adorato come una rockstar e sparato in prima linea come faccia buona per tutte le giuste cause (soltanto Roberto Saviano lo surclassa come salvatore della patria nell’immaginario indignato e sulle copertine del gruppo Espresso).
Don Gallo sparisce, ricompare, scompare, ritorna. A volte satura, come la minestra sempre uguale della zia. Stupiva, prima, ma ora che le sue idee da prete rosso hanno fatto il giro d’Italia (sul palco della Milano di Giuliano Pisapia, in tournée con testi di Savonarola), non è lo stupore ciò che si prova al suo cospetto. Com’è possibile che sia sempre in mezzo?, ci si chiede piuttosto, e per spiegarlo non basta la sua frase “la chiesa dev’essere dove c’è bisogno”. Che faccia di tutto per la sua comunità San Benedetto al Porto è fuor di dubbio, ma che si diverta come un matto a mettersi al centro dell’agone è ipotesi che, se non altro, trova conferme in città. C’è chi, a Genova, lo definisce “un Gianburrasca che fa sempre la cosa che a casa sua, in chiesa, non si deve fare”; chi lo paragona a una “Wanna Marchi che vende ai ricchi per dare ai poveri”; chi intravede “antichi germi di giansenismo” nel suo essere “bastian contrario tra i preti su ricchezze vaticane e gerarchie ecclesiastiche”; chi, nella Genova cinica e disincantata, lo vorrebbe “d’urto” come “nemmeno il papa nero”. Qualcuno lo liquida come “agitapopolo alla Beppe Grillo, è stato al Vaffa-day” (dice un politico di centrosinistra). Un professore, incuriosito dalla psicologia del personaggio, lo vede invece come un “grande esibizionista, uno che fa un gran bene tra puttane, detenuti, tossici, folli e dimenticati, ma che non riesce a sottrarsi alla bolla inebriante dell’autoconsiderazione, alla teatralizzazione del suo dissenso. E’ come una maschera da commedia dell’arte, il caratterista che si infila dappertutto”. Pochi lo criticano apertamente, anche perché ormai don Gallo fa parte dell’arredo non solo genovese: piazza che vai, don Gallo che trovi. E’ come la maglietta del Che tra i gadget dell’armamentario rebelde, rivoluzione prêt-à-porter, icona da regalo di compleanno – talmente icona da non spaventare. E alla fine, in città, i detrattori e i conservatori lo guardano con una punta di rassegnazione bonaria, considerandolo tutto sommato meno oltranzista del prete uguale e contrario Paolo Farinella, editorialista di Repubblica-Genova, un anti ratzingeriano più gallesco di don Gallo. Parlano tutti bene, di don Gallo, anche quando ne parlano male (il giornalista genovese Carlo Panella dice che “è una sorta di fra Cristoforo manzoniano gauchista. Insopportabile e quindi indispensabile. Chi non lo sopporta alla fine lo adora, perché è uno che ci crede. E’ distantissimo dalle mie idee politiche, eppure io lo invidio per la sua fede in Cristo e nella chiesa. Dice sempre ‘noi preti’”).
Don Gallo provoca? Lui naturalmente dice di no, dice che le sue parole sono un’urgenza del cuore e della rabbia che gli viene quando la chiesa non “cammina domandando”, per dirla con i contadini sudamericani (e a quel punto di solito cita don Milani – “la politica deve risolvere i problemi tutti assieme” ma partendo “da quelli degli ultimi” – o Fabrizio De André: “Lo sai perché ti sono amico? Perché sei un prete che non vuole mandarmi per forza in paradiso”). I suoi slogan sono miele per i non cattolici (“propongo, non impongo i precetti della dottrina”) e oggetti non identificati per vescovi e cardinali (i quali l’hanno rimproverato, racconta sempre don Gallo, ma mai allontanato da quella che considera “casa sua”). Il prete “di marciapiede”, come si definisce, racconta barzellette su Gesù che nei suoi viaggi non sa dov’è il Vaticano “perché non c’è mai stato”. Poi volentieri presenta il calendario dei trans in Via del Campo, perché c’è il suo “poeta” e amico Fabrizio nell’aria, e ci sono i vicoli stretti che risuonano delle parole di principesse travestite che cantano “Princesa”, come dice don Gallo a Loris Mazzetti in “Sono venuto per servire”, bestseller nelle librerie Feltrinelli accanto ai libri di Marco Travaglio e Peter Gomez. Dove finisca, nei suoi ricordi, la reminiscenza dai testi di De André e dove cominci l’originale di don Gallo è impossibile a dirsi, tanto i suoi aneddoti traboccano di ragazzi che volevano essere ragazza e portavano alla mamma, come nella canzone “Princesa”, “caffè con tapioca”, mescolando “nella cucina della pensione i sogni con gli ormoni” (a don Gallo, invece, è capitato di conoscere un ragazzo- ragazza che dal sud era venuto al nord. Epopea e parabola: rifiuto della famiglia, prostituzione, disperazione, invio dei soldi al padre padrone che non vuole avere un figlio travestito, comunità da don Gallo, porto sicuro, ripresa della navigazione). A don Gallo infatti piacciono le metafore (“la bussola della Costituzione nei marosi della vita”, “la tempesta della crisi”, dice agitando le braccia nei salotti tv). Il mare entra nel suo libro “Così in terra, come in cielo” e nella confessione in diretta a Daria Bignardi: “Che bello… a quindici anni mi sono imbarcato”. Città di costa, istituto nautico, nave da guerra, naufraghi nemici salvati, voglia di imparare e di vedere il mondo. Poi l’eco della campagna di Russia, i morti nella neve, un fratello pontiere e partigiano, la decisione non molto consapevole di seguirlo, la successiva adesione alla causa, la paura di morire da staffetta sotto i colpi di un tedesco nervoso al posto di blocco, la gioia del 25 aprile. Giorni che don Gallo rievoca in continuazione, e nelle piazze è applauso sicuro (ma nell’ironica e superba Genova un intellettuale si domanda: “Ma don Andrea Gallo è mai uscito dal biennio ’46-’48?”).
“Magnifico, narciso e maschilista”. Così Marta Vincenzi, sindaco uscente, ha definito su Twitter don Gallo, nel day after della sua sconfitta alle primarie: lotta intestina nel Pd tra lei e Roberta Pinotti, e vittoria del professor Doria, famiglia di antico lignaggio e antica fede comunista, con sostegno (non della primissima ora) di don Andrea. Scrive Alessandro Cassinis sul Secolo XIX: “C’era il rischio di arrivare alle primarie solo con l’appoggio di Sel e il voto di qualche notabile… Bisognava avvicinare il popolo, con educazione e senza strillare. E don Andrea Gallo era la persona giusta per arrivare alla città ‘vera’. A fine settembre il prete di strada legge la prima intervista di Doria al Secolo XIX ed esclama in genovese: ‘Oua ghe sem-mo’… gli telefona subito, gli passa i volontari, i centomila contatti di Facebook, il carisma che il prof non ha, infine la libreria di Salita Santa Caterina come sede del punto d’incontro…”. Forse davvero sposta qualche voto, forse intercetta il riflesso pavloviano di una certa borghesia ed ex aristocrazia di tradizione e formazione marxista, forse si fa testimonial del possibile calco dell’onda Pisapia a Milano. Doria non piace a tutti. Alcuni, tra i rifondaroli più convinti, lo considerano troppo tiepido su No Tav e No al Terzo Valico. La militanza pro Doria si avvale dell’aiuto di Domenico Chionetti, autista di don Gallo ed ex tuta bianca al G8 del 2001. L’evento spartiacque: dopo quel luglio, dopo i fatti di Bolzaneto, dopo la morte di Carlo Giuliani (don Gallo è dalla parte di chi lo considera eroe o martire), il prete di strada è diventato qualcosa di più dell’infaticabile cercatore di ombre nella notte portuale, uno che non dorme per andare a stanare gli ultimi, per portarli alla taverna della comunità, “A’ Lanterna”, un antro dove il fritto di pesce e le olive taggiasche si mescolano ai racconti degli ex tossicodipendenti tornati alla vita.
E’ nel luglio del 2001 che don Gallo si trasforma in preti simbolo, in una specie di remake di padre Pintacuda. Dice che la sua ricetta prevede “la libertà alla coscienza individuale”. Lo diceva pure nel ’59, quando, giovanissimo prete, mandava al cinema i ragazzi difficili della nave-riformatorio Garaventa, dove inizialmente l’avevano mandato (“chiamatela ‘scuola’, i ragazzi sennò si vergognano”, diceva ai superiori). Il mito del prete da marciapiede che apprende mentre insegna e che dialoga insegnando è nato lì e si è autoalimentato: don Gallo dice sempre che è stato allievo di don Bosco, che la repressione non aiuta a educare, che dal Concilio Vaticano II in poi la coscienza individuale è in primo piano anche se le gerarchie ecclesiastiche sembrano di altro avviso. E siccome don Gallo poi si chiede (retoricamente) come mai nessuno abbia deciso di scomunicarlo nonostante le sue posizioni sull’Ici (“la chiesa paghi”), sul celibato dei preti (“libertà di scelta”), sui Pacs (sì) e sul sesso prematrimoniale (è peccato, ma se lo fai almeno usa il preservativo), e si risponde che la sua casa è comunque la chiesa e che lui non fa che stimolare il rinnovamento con le sue intemerate, la scenetta “don Gallo contro cardinale” è diventata parte del suo repertorio da prete-showman. E’ l’aneddoto da raccontare sul divano di Serena (Dandini) o davanti al leggìo di Fabio (Fazio): di solito, nel racconto enfatico del don Gallo che parla nel silenzio totale, consapevole della sua presa sul pubblico, c’è un vescovo o un cardinale del passato che lo rimprovera, e c’è don Gallo che dice “io non taccio” sulla scorta dei suoi maestri di teologia “uccisi” idealmente da papa Wojtyla. Quasi sempre compare un cardinale Giuseppe Siri che lo vuole ammansire ma apprezza le sue barzellette (don Gallo ne racconta molte, come il Cav., e però dice di non essere mai stato ad Arcore). In “Così in terra, come in cielo” don Gallo ha descritto Siri come un papa da psicanalisi in un film di Nanni Moretti, uno che forse “era stato eletto” ma poi “è andato in crisi” e ha rinunciato. Si rappresenta sempre in contrapposizione al cardinale Angelo Bagnasco, don Gallo, e in amichevole contrasto con l’ex compagno di studi cardinale Tarcisio Bertone. Si descrive umile ma non tralascia di ricordare il glorioso 2 luglio del 1970, quando l’intero quartiere attorno alla chiesa del Carmine si ribellò al suo annunciato allontanamento, con tanto di raccolta firme e pianti di bambini in una sera d’estate. Erano gli anni post Sessantotto (don Gallo lo apprezza ancora oggi: “Apertura alle possibilità a venire…”, dice), erano gli anni della guerra in Vietnam. don Gallo leggeva in tandem Vangelo e giornale. Qualcuno aveva scoperto nei paraggi una fumeria di hashish, e don Gallo aveva detto che erano più dannose le droghe fatte di parole, per esempio quelle che giustificavano un bombardamento al napalm. Come nei film di spie, racconta di essere stato “registrato” di nascosto da un altro prete, lesto a riferire ai superiori. Fu la prima vera prova da don Gallo che si mette in mezzo all’arena con il sigaro e il pugno chiuso (non che a Genova sia un gesto capace di épater le bourgeois).
Chi sono io?, si chiede ogni tanto don Gallo, confessando di aver avuto degli amori, di essere sempre pronto a migliorarsi e rispondendosi “sono uno che ha ricevuto più di quanto ha dato”, preferisco “essere amico che avere amici”. Finanzia la comunità anche con i suoi libri, all’occorrenza pure “prostituendosi”, dice, alludendo ai matrimoni “celebrati nelle ville dei ricconi” (c’è poi chi fa la fila per far battezzare il figlio da lui, ovviamente gratis, e si porta da Milano il pranzo al sacco: “Ma a don Gallo piace la dimensione da osteria in cui si mangia nella carta come i gatti”, dice un genovese non da osteria). Quest’immagine da Robin Hood lo fa gongolare, e quando parla del se stesso accattone per i poveri sgrana gli occhi e punta alla frase a effetto (“almeno un desiderio che espressi nel lontano 1970 è già stato esaudito: non morirò democristiano”, ha scritto, e chissà se la sera, nel suo archivio al porto, ancora ride tra sé e sé per vedere che effetto fa).
Prima della morte di Carlo Giuliani, nel 2001, don Gallo era salito sul palco di Manu Chao. Da allora, Manu Chao ogni tanto lo chiama. Gli parla in spagnolo al cellulare e don Gallo non capisce niente (a parte “hasta la victoria siempre”). L’idolatria del mondo famoso & impegnato coccola il “don” che smania per cantare “il canto della nuova Resistenza sul palco del Primo maggio”: Vasco Rossi gli firma prefazioni, lo segue, lo invita, come del resto Moni Ovadia, i Modena City Ramblers, Franca Rame, Simone Cristicchi e i Subsonica, al cui concerto un giorno don Gallo litigò con le Fiamme Gialle, definendole “naziste” per via dei controlli antidroga con unità cinofile all’ingresso. Dopo il concerto di Manu Chao, comunque, nell’estate del 2001, fu tragedia sotto la zona rossa. don Gallo incontrò Mario Monicelli ed Ettore Scola e disse a tutti e due che i giovani avevano “osato la speranza”. Era il motto della sua brigata partigiana.
“Indovinate dove sarebbe stato don Gallo ai tempi di Ipazia”, ha scritto Marta Vincenzi su Twitter, paragonandosi all’astronoma pagana linciata dai cristiani ad Alessandria d’Egitto, nel IV secolo dopo Cristo. don Gallo però si dice “molto femminista” (cavallo di battaglia: le donne-prete, testo d’appoggio il libro “Se non ora, adesso”, scritto per dar man forte alle piazze anti-olgettine). A una donna, Fernanda Pivano, don Gallo riserva sempiterna ammirazione (“Ciao signora America, ciao signora Anarchia”, disse sulla sua tomba). E alle donne dedica la frase slogan del libro suddetto: “Da sempre esiste un maschilismo esercitato senza freni, perché basato su un architrave terrificante, cioè che Dio è maschio…”. Che sia davvero femminista, come dice lui, o davvero maschilista, come dice Marta Vincenzi sconfitta, ha poca importanza: don Gallo, che voleva essere no logo, è diventato logo per antonomasia.
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