Mire e ingognite della strana alleanza fra Palladio e Arpe
Incredulità, indignazione, rabbia: da Piazzetta Cuccia filtrano gli umori dei vertici Mediobanca. L’operazione Unipol-Fonsai viene rimessa in discussione da un trio fuori dal coro, balzato in scena senza chiedere il permesso, anche se, in un modo o nell’altro, tutti i maestri cantori hanno incrociato i loro destini con il vecchio establishment.
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Incredulità, indignazione, rabbia: da Piazzetta Cuccia filtrano gli umori dei vertici Mediobanca. L’operazione Unipol-Fonsai viene rimessa in discussione da un trio fuori dal coro, balzato in scena senza chiedere il permesso, anche se, in un modo o nell’altro, tutti i maestri cantori hanno incrociato i loro destini con il vecchio establishment.
Come mai una reazione così veemente? “E’ la fatwa che colpisce chi osa abbandonare i sentieri luminosi e, dio ce ne scampi, sfidarli”, commenta un attento osservatore. Giorgio Drago, amministratore delegato di Palladio (la finanziaria vicentina che ha acquistato direttamente il 5 per cento della compagnia di assicurazioni dei Ligresti), è entrato in Mediobanca nel 1983 e ne è uscito nel 1995 per seguire i Romiti nella sfortunata avventura di Gemina. In Via Filodrammatici ha incontrato il giovane Matteo Arpe, anzi l’ha aiutato a scrivere la tesi che gli aprì le porte del sancta sanctorum, richiuse bruscamente dietro le sue spalle nel 1999 in dissenso con Vincenzo Maranghi. Roberto Meneguzzo, presidente e co-amministratore di Palladio, ha cominciato nel 1989 vendendo una società di leasing a Mediobanca; è legato da amicizia con Giovanni Perissinotto, il numero uno di Generali, e possiede una quota del Leone.
Ma la tesi del tradimento di vecchi amici diventati rivali, non regge. Meneguzzo è arrivato a Trieste solo tre anni fa, grazie a Maurizio Amenduni, industriale siderurgico vicentino che lo sostiene. Le sue amicizie del resto sono ampie, vanno da Giulio Tremonti a Corrado Passera. E se di voltafaccia si tratta, allora va ricordato che proprio Mediobanca aveva promesso Fonsai a Palladio, prima di tirare in ballo le cooperative rosse.
Una fonte vicina al dossier suggerisce di rileggere la dichiarazione del capelluto Carlo Cimbri, amministratore di Unipol: il 30 gennaio, per dimostrare che non ha intenzione di scardinare il tempio della finanza, spiega: “A noi interessano le polizze, non le partecipazioni”. Insomma, sarebbe disposto a disfarsi dei pacchetti Mediobanca, Corriere della Sera, Pirelli, Gemina (Benetton) e Generali, collocandoli in una società ad hoc e poi in mani amiche. Per esempio, Unicredit nel caso di Mediobanca e la stessa Mediobanca per tutte le altre. Un impegno che né Palladio né la Sator di Arpe possono prendere. E forse non lo vogliono nemmeno. Dunque, la loro viene definita una “azione di disturbo” perché turba gli equilibri dei salotti buoni criticati ieri persino da Mario Monti. Il presidente del Consiglio, anzi, ha auspicato che aumentino le imprese quotate in Borsa, allargando il mercato. Vuoi vedere che questa volta il governo (pur restando fuori dalla contesa, precisa Monti) spera che non prevalgano i soliti noti?
Se ragioniamo dal punto di vista del mercato, i dubbi aumentano. Unipol che deve 400 milioni a Mediobanca, ne diventa tributaria; a sua volta la banca d’affari è primo azionista di Generali e ha come socio di rilievo Unicredit, tra i cui soci annovera Allianz, seconda compagnia di assicurazioni nei confini italiani. Anche sciogliendo tutti gli intrecci in Fonsai, dunque, si crea un triangolo magico in grado di controllare il mercato composto da operatori medi, piccoli o addirittura minimi, opaco, segnato da una rendita come la polizza auto obbligatoria, e da scarsa concorrenza. Ma che garanzia danno due finanziarie pure come Palladio e Sator senza esperienza industriale? E quali sono le loro intenzioni?
Meneguzzo e Drago tacciono. Arpe sembra una sfinge. Trapela solo che è loro intenzione apportare capitali e restare azionisti rilevanti; nessun mordi e fuggi per far cassa, ma comprare, contare, gestire direttamente o indirettamente. E’ il mestiere del fondo di private equity Sator che ha acquisito la Banca Profilo e lì resta. Intendeva entrare nella Banca popolare di Milano con denaro fresco e dire la sua: è stato stoppato non solo dall’antica rivalità di Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, ma proprio dalla paura che Arpe volesse impadronirsi di Bpm.
La “moral suasion”, per così dire, è forte. “Noi stiamo con Mediobanca”, ha detto Pier Francesco Saviotti amministratore delegato del Banco popolare, azionista di Palladio. Meneguzzo conta su Veneto banca, ma non basta: il boccone Fonsai è troppo grosso. E non è decollata nessuna cordata triveneta. Nonostante si faccia molta geo-sociologia, il nord-est resta un punto cardinale. Le rivalità venete sono tanto proverbiali quanto paralizzanti. E ciò riguarda innanzitutto la classe dirigente. Gli imprenditori si dividono ogni volta che debbono esprimere un candidato per la Confindustria. I banchieri si sono fatti sfilare Antonveneta dalla olandese Abn (che poi è fallita) e dal Monte dei Paschi di Siena. Le formazioni politiche si lacerano tra odi e vendette (vedi Verona e le altre città amministrate dalla Lega). Solo la Dc aveva portato le Tre Venezie fuori dalla provincia dove sono di nuovo precipitate. Palladio e Sator, dunque, cercano alleati. E un partner industriale. E’ presto, però, per scoprire le carte. Prima bisogna vedere come si coagulano gli equilibri sul mercato. L’appuntamento è l’assemblea del 19 marzo per l’aumento di capitale. Se potranno contare su pacchetti abbastanza solidi, allora il grande gioco si riaprirà davvero.
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