Niente da perdere, tutto da dire. La Fiom-partito a muso duro
Dicono che nella Fabbrica Italia Pomigliano dove si fanno le Fiat Panda qualcosa sia davvero cambiato. Pare ci sia uno spazio aperto comune, detto “l’acquario”, dove l’operaio che non regge le cadenze o sbaglia a montare un pezzo viene convocato a fine turno: capi e sottocapi lo circondano e gli fanno dire al microfono, “io song n’omme ’e mmerda”.
Dicono che nella Fabbrica Italia Pomigliano dove si fanno le Fiat Panda qualcosa sia davvero cambiato. Pare ci sia uno spazio aperto comune, detto “l’acquario”, dove l’operaio che non regge le cadenze o sbaglia a montare un pezzo viene convocato a fine turno: capi e sottocapi lo circondano e gli fanno dire al microfono, “io song n’omme ’e mmerda”. Ecco perché nonostante le sconfitte, gli errori e l’erosione della propria forza, la Fiom continua a preferire l’arrocco solipsista alla resa ai canoni vigenti della rieducazione culturale globale. Ecco perché i mille delegati riuniti sabato in una sala rock alle porte di Roma, pessimisti per forza, incazzati quanto basta e combattivi il necessario, continueranno ad andare per la loro strada, con l’obiettivo di riuscire, il 9 marzo, nell’accoppiata disperata: manifestazione nazionale e sciopero generale. E’ su questo, più che su quella, che si giocherà “la nostra credibilità” dice il portavoce Fernando Liuzzi: la Fiom le manifestazioni sa come organizzarle, ha un know-how collaudato in materia; lo sciopero è altra cosa, non riesce più in automatico come ai bei tempi. Non c’è nulla su cui trattare, né direttamente né indirettamente, anche se rivendicazioni e doglianze non mancano.
La Fiom vuole una politica economica pubblica di contrasto a una crisi che morde ormai da tre anni, ha decurtato il risparmio, e alla recessione che si profila all’orizzonte. Vuole il ritorno alla democrazia nelle fabbriche, l’accordo di Pomigliano ha espunto di fatto i suoi delegati dalla fabbriche Fiat. Vuole che si riveda il contesto generale, il contratto nazionale, scaduto, non è stato rinnovato ed è stato sostituito in corsa da un altro che la Fiom non ha firmato. Vorrebbe anche che si sfatasse la leggenda dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: non è un ostacolo alle assunzioni né alla flessibilità in uscita, per quaranta anni le imprese hanno assunto quando e come hanno voluto, i licenziamenti di lavoratori stabili o precari, individuali o collettivi, sono stati negli ultimi due anni più di un milione, i casi di ex articolo 18 sono meno di 30 mila e solo 3.100 con sentenza di reintegro. Doglianze espresse con tono perentorio, come credito da esigere anche dal solo membro di segreteria che rappresenta la minoranza. Fausto Durante su questo è davvero d’accordo con Maurizio Landini: “Il lavoro dipendente ha fatto la sua parte, con la riforma delle pensioni ogni anno devolve 20 miliardi alla patria che vorremmo quanto meno riconoscente”.
Le relazioni industriali si muovono per altre strade, la Fiom è al margine, i dirigenti della federazione sanno anche questo. Ma continuano a combattere una guerra solitaria, accontentandosi di tirarsi dietro la Cgil con il freno a mano tirato. E’ chiaro che alla tradizione negoziale del sindacato preferisce la testimonianza, la rappresentazione di tutti quelli che non ci stanno e non ci vogliono essere, che si sentono antropologicamente diversi e gridano “non ci avrete mai come volete voi”, di quelli che sono convinti di venire dalla storia e dalla cultura del paese e vedono gli altri, Marchionne e Monti in testa, come alieni caduti da Marte. E’ la Fiom, non più sindacato e quasi partito. Il solo in grado di coniugare opposizione politica e sociale, di federare pezzi di società “non pacificata e chiunque canti fuori dal coro del cosiddetto pensiero unico”, di essere un riferimento per Cobas e centri sociali del nordest, per i no tav, gli studenti, gli insegnanti, per i giornalisti di quotidiani comunisti e professori fuori ruolo come Flores d’Arcais o Rodotà. Questo è oggi la Fiom di Maurizio Landini, grande cuore e tutta la passione di un ex delle Officine reggiane. Che può permettersi di credere nel medioevo prossimo venturo, solo perché, a differenza di chi guidava la Fiom negli anni Cinquanta e Ottanta, non ha trovato nessuno con il coraggio di metterlo in panchina per eccesso di sconfitte.
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