“Quella con la benda”
La morte in Siria di Marie Colvin e il pretesto per cacciare Assad
Marie Colvin è “quella con la benda” nelle chiacchiere di giornalisti che parlano di giornalisti (chiacchiera che ci occupa le giornate, come si sa). Una benda da pirata, nera, senza la pretesa impossibile di apparire un pochino più presentabile, a coprire un occhio che era azzurro e inquisitorio, perso in Sri Lanka, nel 2001, quando la Colvin cadde in un’imboscata nella regione di Vanni, controllata dai tamil (e comunque consegnò il suo articolo nei tempi richiesti).
Marie Colvin è “quella con la benda” nelle chiacchiere di giornalisti che parlano di giornalisti (chiacchiera che ci occupa le giornate, come si sa). Una benda da pirata, nera, senza la pretesa impossibile di apparire un pochino più presentabile, a coprire un occhio che era azzurro e inquisitorio, perso in Sri Lanka, nel 2001, quando la Colvin cadde in un’imboscata nella regione di Vanni, controllata dai tamil (e comunque consegnò il suo articolo nei tempi richiesti). La ferita di guerra a segnare il viso di questa signora di 55 anni, che aveva visto battaglie e conflitti in ogni parte del mondo, che aveva girato un documentario su Martha Gellhorn, la capostipite delle inviate di guerra, e che aveva raccontato nello struggente “Bearing Witness” l’esperienza in Iraq.
Marie Colvin, da vent’anni inviata di guerra del Sunday Times, è morta ieri a Baba Amr, quartiere a sud-est di Homs. Nel suo ultimo reportage, domenica sul Sunday Times, raccontava com’era arrivata lì, “attraverso una strada che ho promesso che non avrei rivelato”, e quello che aveva trovato: “La portata della tragedia umana in città è immensa”. Colvin è morta sotto le bombe di un regime siriano che nega la repressione, che dice che a Homs sono gli abitanti a bruciare copertoni per poi dirsi falsamente sott’assedio. Lì, nel media center centrato dalle forze di Bashar el Assad, assieme a “quella con la benda” è morto Rémi Ochlik, fotoreporter francese, classe 1983, che ha raccontato con le sue immagini quest’anno e più di primavera araba – c’è una sua foto famosa in Libia, con la quale ha vinto un premio del World Press Photo, s’intitola “Battle for Libya”, un ribelle seduto su una montagnetta di terra, con la bandiera libica e intorno fumo, mezzi militari di fortuna, desolata rivolta. Insieme a loro, sono morte altre 13 persone, giornalisti e attivisti locali, e tra i feriti ci sono altri tre giornalisti occidentali – mentre ancora si commemora il mitico Anthony Shadid, morto la settimana scorsa in Siria perché era allergico ai peli di cavallo e i turchi che lo avevano fatto entrare di nascosto si muovevano sui cavalli. Un mese fa era morto Gilles Jacquier, cameraman di France 2, ucciso da un’esplosione mentre partecipava a quelle farse sponsorizzate dal regime per mostrare che è tutto un complotto mediatico, non c’è nessuna guerra.
La sera prima di essere uccisa, Colvin è intervenuta nella trasmissione di Anderson Cooper, sulla Cnn, commentando il video, commovente e indigeribile, della morte di un bambino, uno dei tantissimi bambini che ogni giorno muoiono in Siria. “Spero che le immagini di questi bimbi possano smuovere i leader del mondo”, ha detto Colvin. “La morte di questi giornalisti dimostra che questo regime se ne deve andare”, ha dichiarato ieri il presidente francese, Nicolas Sarkozy. Come se dopo un anno di repressione, più di settemila vittime, una resistenza popolare straordinaria, ci fosse ancora bisogno di un pretesto, di una dimostrazione, per svegliarci dall’assuefazione ai drammi di guerra.
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