Che fare in Siria?
Sull'intervento contro Assad pesano gli spettri di dieci anni di guerre
Homs è la capitale del terrore siriano, ieri sono stati uccisi giornalisti, ma da mesi muoiono i ribelli, i disertori, i cittadini, mentre il regime di Bashar el Assad nega, dice che è tutta una montatura dei rivoltosi fanatici. In un anno, la repressione ha fatto più di settemila morti, ci sono state quarantamila diserzioni nell’esercito regolare, le proteste sono partite da sud, si sono localizzate in alcune città e si sono negli ultimi giorni intensificate ad Aleppo e nella blindatissima Damasco.
Leggi La morte in Siria di Marie Colvin e il pretesto per cacciare Assad di Paola Peduzzi
Homs è la capitale del terrore siriano, ieri sono stati uccisi giornalisti, ma da mesi muoiono i ribelli, i disertori, i cittadini, mentre il regime di Bashar el Assad nega, dice che è tutta una montatura dei rivoltosi fanatici. In un anno, la repressione ha fatto più di settemila morti, ci sono state quarantamila diserzioni nell’esercito regolare (così dice il Free Syrian Army, uno splendido racconto sul Christian Science Monitor testimonia la trasformazione di un soldato di Assad in un soldato ribelle, l’impossibilità di sparare sul proprio popolo), le proteste sono partite da sud, si sono localizzate in alcune città e si sono negli ultimi giorni intensificate ad Aleppo e nella blindatissima Damasco. I siriani resistono, il regime pure, mentre tutti gli spettri delle guerre recenti si sono riuniti nelle sale dove la comunità internazionale cerca di stabilire una strategia per fermare – ribaltare – Assad.
C’è il precedente libico: un attacco deciso in pochissimo tempo, con l’accordo dell’Onu e il comando della Nato, nato con intenti umanitari e trasformatosi in una caccia all’uomo (Gheddafi), con contestuale appoggio ai ribelli, molti ex del regime, che ancora regolano conti passati, sono vicini ad al Qaida e si sparano tra loro. C’è il precedente iracheno: una missione non condivisa, una guerra che sembrava leggera e che invece è appena finita solo perché così ha deciso Washington, l’ascesa a Baghdad di un minidittatore, Nouri al Maliki, che più è libero di fare più diventa spaventoso. C’è il precedente afghano: dieci anni di battaglie e la necessità ora di negoziare con i talebani, ché con la forza sono stati domati, non certo battuti.
In Siria, c’è un mix di tutto questo (soprattutto c’è un dittatore feroce che da mesi spara e tortura): un’opposizione divisa, non rassicurante, senza un piano condiviso; un’alternativa che sa di Fratellanza musulmana e di avanzata islamica in un regime considerato laico. In più c’è un alleato, l’Iran, che è pronto a scatenarsi se un cambio a Damasco è deciso da qualcuno che non abita a Teheran. Eppure la comunità internazionale non può più stare a guardare, e per ora opta per un altro mix: l’intervento indiretto (cioè armare i ribelli) e altre sanzioni. Russia e Cina permettendo.
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