Un piano per Damasco
Per il Pentagono l'intervento in Siria è un nuovo Afghanistan
Il dipartimento della Difesa americano dice a Barbara Starr di Cnn quanti soldati ci vogliono per mettere in sicurezza i depositi di armi chimiche in Siria, in caso di intervento: 75 mila, poco sotto al numero schierato in questo momento in Afghanistan. La cifra fa parte dei piani potenziali di azione militare che il Comando centrale sta per consegnare alla Casa Bianca.
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Il dipartimento della Difesa americano dice a Barbara Starr di Cnn quanti soldati ci vogliono per mettere in sicurezza i depositi di armi chimiche in Siria, in caso di intervento: 75 mila, poco sotto al numero schierato in questo momento in Afghanistan. La cifra fa parte dei piani potenziali di azione militare che il Comando centrale sta per consegnare alla Casa Bianca. La notizia sulla preparazione dei piani è uscita lo scorso 7 febbraio e ha creato agitazione, ma si tratta poco più che di un esercizio astratto di scienza militare, perché Washington è riluttante, non intende agire direttamente in Siria: i depositi chimici a rischio sono soltanto una causa d’intervento remota ma più probabile di altre – il bombardamento contro i civili in corso a Homs non lo è, non è sufficiente.
La Siria è uno dei sette stati che non fanno parte dell’Opcw, l’organizzazione internazionale per il bando delle armi chimiche, e quindi non esistono notizie indipendenti e verificate sull’arsenale chimico. Il dipartimento di stato americano sostiene che il programma di armamento va avanti dagli anni Ottanta. Per IHS Jane’s, il database militare più ampio e affidabile a disposizione, citato dal Financial Times, “il programma siriano è sospettato di avere prodotto grosse quantità di gas nervini Sarin e VX e di agente mostarda”. Per Leonard Specter, del Monterey Institute of International Studies, citato da Cnn, “la Siria ha uno dei programmi più vasti al mondo, con diversi tipi di agenti chimici, inclusi alcuni gas usati durante la Prima guerra mondiale, come l’iprite (che è un altro nome dato al gas mostarda, un potentissimo agente vescicante) e il fosgene e anche gas più moderni”. Da una settimana il Pentagono e la Cia stanno sorvolando la Siria con i droni: è verosimile che tra gli scopi dell’operazione ci sia l’identificazione e la sorveglianza dei depositi. Sono 50 – secondo le fonti militari – e sono sparpagliati per il paese. Tre stabilimenti di produzione sono a Homs, a Hama e a Latakia, dove gli insorti contendono il controllo del territorio all’esercito governativo. Il direttore dell’intelligence americana, James Clapper, ha parlato al Congresso del rischio che l’arsenale finisca in mano a estremisti.
Clapper ha parlato al Congresso anche degli attentati con autobomba contro palazzi del governo a Damasco e ad Aleppo: l’intelligence li considera opera di al Qaida in Iraq, ormai presente e attiva sul territorio siriano. Questo genere di informazioni complica il piano americano fondato non sull’intervento diretto ma sull’appoggio dall’esterno con rifornimenti di armi all’Esercito libero di Siria: sembra che ora però Washington abbia messo da parte le sue riserve e l’inizio delle spedizioni sia imminente. Non mancano i critici: Andrew Exum, del Cnas, il think tank di politica estera vicino al presidente Obama, si chiede “che razza di armi potremo mai dare agli insorti per battere l’esercito di Assad, che conta tra le altre cose 4.500 carri da battaglia”. In generale, preoccupa una costante ineluttabile quando si danno armi a un gruppo combattente: finiscono sempre nelle mani sbagliate. Le pistole Glock comprate dagli americani e distribuite agli ufficiali dell’esercito iracheno durante la guerra sono prima scomparse e poi riaffiorate tra gli estremisti in Libano e tra i malavitosi in Turchia (nel 2009 un articolo del quotidiano Zaman sosteneva: su 522 Glock usate in Turchia per commettere reati 514 arrivavano dal “pacco aiuti americano”).
Ieri a Londra si sono incontrati i ministri degli Esteri di una dozzina di paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Oggi a Tunisi c’è la riunione dei cosiddetti “Amici della Siria”, un gruppo internazionale di intervento che comprende circa settanta nazioni. L’obbiettivo è ottenere entro 72 ore un cessate il fuoco e l’apertura di un corridoio umanitario che permetta l’arrivo di medici, medicinali e viveri nelle zone circondate dall’assedio dell’esercito siriano – soprattutto Homs. La proposta di un corridoio umanitario contiene anche l’idea di una forza militare straniera che lo protegga, ma questo punto non è stato spiegato. E anche l’ultimatum temporale di tre giorni contiene la promessa di misure punitive: ma neanche quelle sono state specificate, sono state citate “sanzioni economiche più dure”. Il segretario di stato americano, Hillary Clinton, parla di un “obbligo morale” del presidente siriano Bashar el Assad a interrompere i bombardamenti.
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