Il Pdl traballa, ma in gran segreto Alfano ha fatto pace con Fini

Salvatore Merlo

Montecitorio, nove del mattino di giovedì 23 febbraio, l’ora di chi non vuole essere visto. Angelino Alfano lascia la scorta, scende dalla macchina e a passo svelto conquista l’ingresso laterale del Palazzo, aggira il Transatlantico deserto, inforca un corridoio silenzioso, poi le scale fino al secondo piano. Gianfranco Fini è lì, nel suo studio, e lo aspetta. 

    Montecitorio, nove del mattino di giovedì 23 febbraio, l’ora di chi non vuole essere visto. Angelino Alfano lascia la scorta, scende dalla macchina e a passo svelto conquista l’ingresso laterale del Palazzo, aggira il Transatlantico deserto, inforca un corridoio silenzioso, poi le scale fino al secondo piano. Gianfranco Fini è lì, nel suo studio, e lo aspetta. Pier Ferdinando Casini invece è ancora a casa, ma sa tutto, forse è un po’ impaziente, d’altra parte (assieme a Gianfranco Micciché) è stato lui a favorire l’incontro, che è premessa di ogni sviluppo futuro. Così, nel Palazzo che si sveglia pigro, solo i commessi assistono indifferenti al piccolo evento, impensabile fino a qualche mese fa, una riconciliazione politica tra il segretario del Pdl e l’uomo che da quel partito è stato invece espulso come un calcolo renale.

    L’uno di fronte all’altro, il giovane erede designato dal Cavaliere (in ambasce per le prossime elezioni amministrative) e un meno giovane ex erede, più volte illuso, e poi definitivamente scaricato. Una solida stretta di mano e un accordo che nessuno conferma, e che anzi il portavoce del presidente della Camera smentisce: nessun accordo e nessun incontro. Ma è tutto vero. Adesso Fini dovrà ridurre al buonsenso alcuni dei suoi recalcitranti colonnelli siciliani, mentre Alfano dovrà farsi largo nel folto degli odi tra ex missini per afferrare la mela, la ricomposizione del centrodestra per come era un volta (o quasi). Concluse le primarie del Partito democratico a Palermo, il Terzo polo e il Pdl annunceranno di essere alleati alle amministrative in Sicilia. E poi chissà, è solo l’inizio. “E’ quello che dovrebbe succedere in tutta Italia. In politica valgono i princìpi e non le persone”, dice Daniela Santanchè, ricordando le promesse di imperitura inimicizia che Bossi e Berlusconi si scambiarono dopo il ribaltone del 1994.

    Ed è, anche questa, una sorpresa. “L’esperimento è esportabile”, dice Mariastella Gelmini. Alleati con Fini e con Casini, dunque, dimentichiamo il passato. Una bomba che si vuole maneggiare con la necessaria cautela, perché non deflagri prima del tempo, rovinando tutto. La fronte di Roberto Rao, felpato luogotenente di Casini, si stringe nella perplessità: “La Sicilia non è un laboratorio”. Eppure quella siciliana è l’esplosione di una stella, che proietta i suoi frammenti enormi o minuscoli per l’intero e confuso universo italiano.

    Quindici giorni fa, a cena, a Roma, si sono incontrate due alte cariche istituzionali, l’una del nord, l’altra del sud, una iscritta al Pdl, l’altra iscritta all’Udc, entrambi sostenitori sinceri del governo Monti, entrambi di casa al Quirinale. Uno dei due domanda: “Se tutto dovesse andare bene come speriamo, voi che ne pensate di candidare Corrado Passera?”. E’ certo solo un’ipotesi, una delle tante, ma è l’idea che conta, come riassume un ex ministro del governo Berlusconi: “A.A.A. presidente del Consiglio cercasi”. E’ da circa un mese che all’ombra degli incontri semiclandestini dei leader, ben illuminati dalla stampa, sono cominciate consultazioni parallele, ancora disordinate ma – queste sì – segretissime.

    La faccenda è intricata. Sullo sfondo dei bacetti furtivi, si staglia la figura ingombrante di Silvio Berlusconi. Con lui, che incarna il pregiudizio ostativo di Casini, non si può costruire nulla; ma senza di lui crolla tutto. E il Pdl non è precisamente quello che si può definire una casa delle più solide. I congressi, ancora in corso, hanno esulcerato rapporti personali già tesi e squassato delicati equilibri di potere: dalla Puglia alla Lombardia. In un suo recente report per Berlusconi, Denis Verdini sintetizza l’andamento dei congressi come un ridimensionamento considerevole degli ex di An (La Russa e Gasparri, soprattutto): “Non più 70 a 30 per Forza Italia, ma 90 a 10”. Ragione per la quale La Russa si tiene stretta la proprietà del simbolo della vecchia An (scippato a Fini, che gli ha fatto causa). E in un angolo remoto, tra i suoi pensieri meglio riposti, l’ex ministro della Difesa non esclude nulla a proposito di quel simbolo ancora evocativo, nemmeno di poter farne uso alle prossime elezioni.

    In un Pdl tribalizzato e impaurito dal futuro, il Cavaliere è indispensabile affinché tutto ancora si tenga; ma nel gruppo dirigente si chiacchiera molto: come si fa un partito vero con Berlusconi? Come si ritrova Casini, se Berlusconi non esce definitivamente di scena? E lui deve essersi accorto di qualcosa. “I miei non mi difendono più”, si sarebbe lamentato il Cavaliere. Oggi è atteso in tribunale, a Milano, per la sentenza sul caso Mills. “Domani sarà terribile”, dicevano ieri sera gli uomini di Palazzo Grazioli, come i granatieri di Napoleone alla vigilia di Austerlitz. Lo hanno frenato, contenuto a stento, “i suoi”; perché il Cavaliere avrebbe voluto convocare giornalisti e telecamere, denunciare l’assedio, l’accanimento giudiziario, con forza, come ha detto ai deputati che giovedì lo avvicinavano a Montecitorio per salutarlo. “Presidente, è da un mese che ho chiesto a Valentino Valentini un appuntamento con te, nessuno mi richiama”; “che volete, ormai faccio l’imputato di professione”.

    Avrebbe voluto scatenarsi su televisioni e giornali, invece niente. Sssh, silenzio. E così, agli amici: “Quelli del partito non mi difendono più”. Ma non è vero, non del tutto. La politica è effetto di scena, le reazioni chimiche sono instabili, e la presunzione di una parte del Pdl è che si possa ottenere il bene di Berlusconi (e quello di tutti) anche dispiacendo al grande capo. “Spesso per aiutare Berlusconi bisogna dirgli di no. Persino fargli la fronda”, dice Gianfranco Micciché, il quale occupa, come un tempo, un ruolo da protagonista, da tessitore, nel presepio decomposto del centrodestra. “Dell’Utri lo diceva sempre, a noi che lavoravamo a Publitalia. Con Silvio bisogna sapersi imporre, per parargli il culo”.

    E l’accenno a Publitalia forse non è casuale, perché è da quegli ambienti, caratterizzati da una fedeltà antica e sedimentata nei confronti di Berlusconi, che si è avviato quel meccanismo di sicurezza attraverso il quale giovedì Alfano e Fini hanno potuto tornare a stringersi la mano. Fingono la massima rivalità, ma poi scivolano nel giardino al centro col lume in mano e s’incontrano, si abbracciano, si scambiano tra i cespugli favori e segreti, baci clandestini, concessioni. Difficile non riconoscere la lunga catena di implicazioni che collega Micciché in Sicilia a Giancarlo Galan – ex ragazzo di Publitalia anche lui – in Veneto. “Grande sud” e “Grande nord”, il primo consente di riannodare i fili al vento della vecchia amicizia con Casini e Fini, il secondo si immerge nel dedalo di contraddizioni della Lega, costruisce liste civiche, e a Verona si prepara a sostenere la rielezione (anti bossiana) del sindaco maroniano Flavio Tosi. Chiudere il Pdl per recuperare i vecchi compagni di strada.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.