Capire la storia dell'art. 18

La giunta tecnocratica va avanti, risoluzione strategica del Quirinale

Alessandro Giuli

A giudicare dallo stallo delle trattative tra governo e sindacati sul mercato del lavoro, è ancora possibile che l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resti confinata nel retrobottega dell’inattuale. La parola stallo non va necessariamente intesa in senso negativo: secondo alcuni osservatori sarà più difficile per la Fiom-Cgil scioperare contro uno “stallo” negoziale, e non contro un accordo ritenuto infausto ed esibito come un magnete per mobilitare energie di protesta.

    A giudicare dallo stallo delle trattative tra governo e sindacati sul mercato del lavoro, è ancora possibile che l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resti confinata nel retrobottega dell’inattuale. La parola stallo non va necessariamente intesa in senso negativo: secondo alcuni osservatori sarà più difficile per la Fiom-Cgil scioperare contro uno “stallo” negoziale, e non contro un accordo ritenuto infausto ed esibito come un magnete per mobilitare energie di protesta.

    Ma bisogna comunque uscire dal recinto dei tatticismi, se si vuole comprendere il presupposto di ogni attuale ragionamento sulla riforma del welfare: è il quadro europeo – come hanno ricordato sia il governatore della Bce, Mario Draghi, sia l’Ocse ieri – a suggerirci che stavolta un intervento potente è ineluttabile. Questa volta la “bomba sociale” giunge da acque extraterritoriali. I primi ad averlo capito sono quegli stessi sindacati (Cisl e Uil) che nel 2001 avevano siglato il così detto Patto per l’Italia concepito dal secondo governo Berlusconi sotto le pressioni di una Confindustria abbastanza irrequieta (la guidava Antonio D’Amato). Il centrodestra giunse all’appuntamento forte di un ampio consenso elettorale, e con alle spalle la lezione politica ricavata dal rovescio del 1994-’95: lo sfarinamento di una maggioranza acerba e priva di coperture istituzionali alle prese con una riforma delle pensioni che avrebbe poi avviato Lamberto Dini. Nel Patto per l’Italia era compresa la sospensione per tre anni dell’articolo 18, ma solo per le imprese votate a nuove assunzioni a tempo indeterminato. Alla riduzione delle garanzie in uscita si affiancavano promesse di protezioni integrative e una maggiore indennità di disoccupazione. Si sa come andò a finire: i berlusconiani cincischiarono per due anni; la Cgil di Sergio Cofferati inaugurò una breve epica di contestazione solitaria e vincente; Confindustria non resse l’urto anticoncertativo; i Ds si divisero comme d’habitude tra massimalisti e possibilisti (parallelamente deboli), infine scelsero d’intervenire solo a cose fatte, nel 2003, a un anno dall’assassinio del giuslavorista Marco Biagi da parte delle Br, quando Cofferati e Fausto Bertinotti tentarono di strafare attraverso il referendum che avrebbe dovuto estendere le garanzie dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. Quella dei Ds fu una resistenza passiva sufficiente a far mancare il quorum referendario, ma non ad allontanare dalla sinistra il marchio di una contraddizione non sanata tra una massa critica comprensibilmente ideologizzata in senso conservativo, un manipolo riformista che sulla modernizzazione del lavoro aveva già contato un morto nel 1999 (il professor Massimo D’Antona, consulente dell’allora ministro del Lavoro Antonio Bassolino, ucciso per mano brigatista) e una classe dirigente vittima delle sue calamitose oscillazioni da un estremo all’altro.

    Dal 2001 lo schema è pressoché identico, ma è decisamente mutato il quadro di riferimento, dobbiamo al limite censire un altro paradosso sopraggiunto nel tempo: è stato il centrodestra, con la staffetta intermittente al ministero del Lavoro tra il leghista Roberto Maroni (2001-2006) e il berlusconiano Maurizio Sacconi (2008-2011), a tessere il filo dell’intelaiatura riformista raccolto da sinistra, a vario grado, dagli eredi di Biagi e D’Antona (da Pietro Ichino e Tiziano Treu in giù, fino all’ex Cgil e oggi senatore del Pd Paolo Nerozzi).

    Oggi la ferita torna a sanguinare in un corpo sociale esulcerato dalla crisi e sterilizzato nei suoi punti di riferimento politici. Il governo dei tecnici non fa medicina preventiva né si cura dell’anamnesi, preferisce circoscrivere il malanno e mettere il paziente di fronte all’intervento non rinviabile. Uno di questi, forse il più radicale, prevede di estendere i sussidi di disoccupazione a tutti i dipendenti del settore privato, ma finanziandoli interamente con i contributi sociali a carico di imprese e lavoratori, senza più un euro dallo stato. Lo si potrebbe definire un welfare di autosussistenza, una roba senza precedenti nemmeno immaginabili in Italia.

    Ecco dunque dove la sinistra rischia di divorziare da se stessa e andare in frantumi, ecco la linea di minor resistenza oltrepassata la quale il Pd di Pier Luigi Bersani dovrà operare una scelta tra il “liberi tutti” dal patto d’onore con Mario Monti e la necessità di trovarsi un altro segretario.

    Ed ecco anche la premessa teorica per giungere, un domani, a maneggiare l’articolo 18 dopo aver messo in chiaro che cosa intende la giunta tecnocratica per mobilità sostenibile e superamento delle fratture tra garantiti e non. Se Bersani incassa i colpi con la fissità sorridente dell’ottimista (l’ha detto lui), e se Susanna Camusso non trova di meglio che incatenare la Cgil sul fronte della guerriglia temporale – “ci vorranno almeno cinque anni per riformare gli ammortizzatori sociali” – anche Confindustria tradisce la sensazione di preferire il sottobosco dello status quo all’ignoto di una liberalizzazione totale del mercato. E non per caso, nella sua pluralità di voci concorrenti, le più squillanti contro l’articolo 18 sono quelle del presidente uscente Emma Marcegaglia e del candidato alla successione meno favorito, Alberto Bombassei: come a dire il passato prossimo e il futuro anteriore, non certo il presente dei vertici industriali.
    Anche il Pdl zoppica nell’equivoco. Quando il segretario Angelino Alfano dice che manterrebbe volentieri l’articolo 18, a patto d’intervenire sulle meccaniche che ragolano il reintegro dei licenziati per giusta causa, il sottotesto implicito potrebbe essere più o meno questo: attenzione a non perderci il Pd per strada, attenzione a non forzare la mano con i sindacati dialoganti, da soli non possiamo farcela, non siamo più ai tempi del Patto per l’Italia. Ma così si ritorna sulla linea dei tatticismi di partenza.

    Infine ci sono i due grandi convitati di pietra, la cui apparente marmorizzazione è speculare: Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano. L’ex presidente del Consiglio osserva con occhi favorevolmente sbalorditi il premier Monti e il ministro del Lavoro Elsa Fornero intenti a completare il prologo scritto per i posteri da Maroni e Sacconi – sotto ispirazione laburista, come dicevamo – e vede inverarsi il progetto che gli era stato svuotato durante il suo lungo e tempestoso principato a Palazzo Chigi. Quanto al presidente della Repubblica, non si può negare che sia lui il vero garante della mise en scène montiana. E’ lui che ha offerto fin dapprincipio l’unica copertura politica e attiva indispensabile all’esperimento tecnocratico. Sicché l’assenza di alternative parlamentari al governo del Preside, da causa efficiente dell’azzardo quirinalizio, sta già diventando anche un effetto durevole. Mentre Pd e Pdl simulano un’indipendenza d’iniziativa rispetto all’esecutivo che non hanno e forse non vogliono detenere, mentre vanno al voto amministrativo malvolentieri e accarezzano il sogno di una candidatura tecnica in corpore politico per l’anno prossimo, è sempre Napolitano a fungere da motore immobile del raggio d’azione tecnocratico. E’ di ieri, per esempio, l’ultima risoluzione strategica anti articolo 18 prodotta dall’entourage presidenziale e pubblicata dal Corriere della Sera. Autrice: Alessandra Del Boca (con Paola Rota), ordinario di Politica economica presso l’Università di Brescia, nonché uno degli otto esperti nominati dal presidente Napolitano al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel). Titolo del suo articolo: “Articolo 18 inefficiente e iniquo. Non perdiamo l’occasione di cambiare”. Se non ora, quando?