L'uomo che fustigava i tecnici

Claudio Cerasa

L’uomo che fustigava i tecnici ha 53 anni, ha le spalle larghe, un sorriso timido e due occhi piccini incastonati in un faccione grande: liscio e senza rughe. L’uomo che fustigava i tecnici governa da due anni una delle regioni più ricche (e più rosse) d’Italia e prima di diventare uno degli esponenti del Pd più smaliziati, più spregiudicati, più in ascesa e più amati dalla vecchia e nuova intellighenzia di sinistra (vi dice nulla Carlo De Benedetti?) è stato a lungo uno dei classici simboli del “buon amministratore locale”.

    E Mario Monti? “Dai, inutile prendersi in giro: questo non è un governo della sinistra, non è il nostro governo, e queste non sono manovre che avrebbe fatto un esecutivo guidato dal Pd”. E il governo? “Dobbiamo essere sinceri: a volte sembra guidato da un Berlusconi sotto mentite spoglie”. E i tecnici? “Se in questa fase i politici fanno pena allora bisogna dire che fanno pena anche i tecnici quando per ottenere il consenso rincorrono i politici e fanno proclami e gli annunci in tv la sera a mezzanotte”. E la tecnocrazia? “La verità è che in questa fase o la sinistra ritrova la sua identità o sarà rapidamente fagocitata da questa svolta tecnocratica”. E le liberalizzazioni? “Mica sono tutte da elogiare. E i taxi? E le farmacie? E la liberalizzazione selvaggia degli orari e delle aperture dei negozi? E tutte le altre batoste ricevute dalle piccole imprese?”. E i super ministri? E i Passera? “Qualche volta fanno i furbi. Pensate per esempio all’emergenza neve. Dov’era il governo? Dov’erano i ministri? Dov’era Passera? Dov’era?”.

    L’uomo che fustigava i tecnici ha 53 anni, ha le spalle larghe, un sorriso timido e due occhi piccini incastonati in un faccione grande: liscio e senza rughe. L’uomo che fustigava i tecnici governa da due anni una delle regioni più ricche (e più rosse) d’Italia, è stato a lungo sindaco di Pontedera, è stato a lungo assessore alla Sanità della Toscana, è stato a lungo uno dei dirigenti del Pci più apprezzato dalla famiglia Agnelli; e prima di diventare uno degli esponenti del Pd più smaliziati, più spregiudicati, più in ascesa e più amati dalla vecchia e nuova intellighenzia di sinistra (vi dice nulla Carlo De Benedetti?) è stato a lungo uno dei classici simboli del “buon amministratore locale”: uno insomma di quei tradizionali sobri, misurati, tosti e ruvidi comunisti “tutti d’un pezzo”, come si dice in questi casi, uscito, come molti altri, dalla vecchia catena di montaggio dirigenziale del Partito comunista. Negli ultimi tempi, però, Rossi – che i simpatizzanti chiamano con affetto “il rottamatore rosso” e che gli antipatizzanti invece chiamano quasi con disprezzo “il Vendola del Pd” – è diventato qualcosa di più di un semplice buon amministratore o di un semplice e apprezzato presidente di regione. E’ diventato, a tutti gli effetti, il simbolo di un nuovo Pd. Di un Pd alternativo a quello “sdraiato” sul governo. Di un Pd alternativo a quello “suicida” del Lingotto. Di un Pd che prova a riscrivere il suo Dna sul modello del Pse. E di un Pd, insomma, orgoglioso della sua identità più di sinistra che di centro, e che sotto il mantello del clima da grande sobrietà nazionale, lontano dal Palazzo, dai forconi e dalle stanze di governo, silenziosamente si muove per rimanere aggrappato con gli artigli alla sua vera “base”: “Al nostro popolo, suvvia, che è quello di sinistra, e c’è poco da fare, e c’è poco da girarci attorno. Ché noi non siamo l’Udc. Siamo il Pd, siamo un’altra cosa”.

    Enrico Rossi lo incontriamo giovedì mattina verso ora di pranzo alla stazione Termini, a Roma. Rossi ha appena concluso un lungo incontro sulla sanità con il ministro Renato Balduzzi e altri presidenti di regione; e poco prima di saltare sul treno che alle 13.15 lo riporterà a Firenze si siede per qualche minuto con noi di fronte a uno dei vecchi tavolini di alluminio di Spizzico, a pochi passi dal binario sei. Rossi ordina un supplì al ragù, un trancio di pizza con le patate, un bicchierone di Coca cola e poi, a poco a poco, inizia a parlare e a raccontare qualcosa su di sé e su quello che immagina per il futuro del Pd. Su di “sé”, su Rossi, si sa già molto, in realtà. Si sa dei suoi nove anni passati alla guida della città di Pontedera (1990-1999, anni in cui Rossi riuscì quasi miracolosamente a convincere la famiglia Agnelli a non trasferire in Campania lo storico stabilimento della Piaggio, con i suoi 12 mila dipendenti). Si sa dei suoi dieci anni passati alla guida della Sanità della Toscana (dal 2000 al 2010, e chissà se è solo un caso che dopo la cura Rossi la Toscana è stata l’unica regione italiana insieme con la Lombardia a essere elogiata per i suoi conti in regola nel settore sanitario persino dal precedente governo). Si sa della sua formazione nella rigidissima scuola del comunismo pisano (tessera dei giovani comunisti della Fgci appena maggiorenne, studi umanistici, laurea in Filosofia all'Università di Pisa con tesi sul marxismo etico di Agnes Heller, sulla scuola di Budapest e sul dissenso comunista ai tempi dei regimi dell’est europeo). Ma si sa meno, a proposito di Rossi, della ragione per cui oggi quando il Pd anti lingottiano, anti centrista, anti blairista, anti giavazziano (“Oh Gesù, Giavazzi!”) e persino anti montiano deve pensare a qualcuno prima di tutti, e prima di tutto, e a volte anche prima di Bersani, pensa proprio a lui: pensa a Enrico Rossi. “Sì, sì – dice Rossi rovesciando sul tavolino di Spizzico la sua robusta mazzetta di giornali – mi rendo conto che in questa fase il Pd sta affrontando un momento di transizione importante ma è innegabile che oggi come non mai possiamo riscrivere con coerenza il Dna del Partito democratico. E attenzione, eh, attenzione: questo non significa che il Pd sia un partito senza identità. Significa semplicemente che il nostro partito oggi può decidere una volta per tutte da che parte guardare per raccogliere il consenso. E non credo ci siano dubbi – dice Rossi facendo con il capo un cenno ammiccante verso la sua sinistra – che il futuro del partito sia più di qua che di là”.

    Più di qua che di là. Più a sinistra che al centro. Già, bello: ma che significa? Rossi lo spiega con parole chiare. E lo spiega con le stesse parole che in questi ultimi tempi vengono utilizzate da tutti quegli esponenti del partito che credono sia inevitabile agganciare il Pd al così detto treno del “nuovo socialismo europeo”. “So – dice Rossi – che questo significa promuovere un Pd diverso rispetto a quello che era stato progettato cinque anni fa. Ma sono certo che sia questa l’unica strada che può prendere un partito come il nostro per garantire al paese un vero e robusto e gagliardo bipolarismo come si deve. Con i moderati da un lato, con il Ppe italiano di là, e con i progressisti da questa parte, con il Pse italiano. E’ evidente, sì: si tratta di un processo che cambia un po’ la genesi del nostro partito ed è comprensibile che questa impostazione possa far indispettire, e persino fare andare via, qualche ‘mo-de-ra-to’ o qualche ‘bla-i-ri-a-no’”, dice Rossi scandendo le sillabe con tono grave quasi a voler sottolineare la cupezza e l’improbabilità stessa delle due categorie. “Io però – continua – non ho paura a dire che il governo Monti sia estraneo al bagaglio culturale del Pd. Il montismo, in quanto tale, contiene la stessa notevole, notevolissima, componente liberista che ha portato noi, e tutta l’Europa, al punto in cui siamo arrivati. E per questo dobbiamo dire la verità: questo governo è una parentesi, è una pausa ed è semplicemente una fase di sospensione della politica causata – dobbiamo ricordarlo – da tutta la classe politica. Tutta”.

    Proprio tutta? Rossi capisce dove vogliamo arrivare e non si tira indietro, e butta in rete il nostro assist. “Tutta, sì, sì. Il centrodestra ha fallito la sua missione, è chiaro, ma se oggi, a differenza di quanto successo in Portogallo, in Spagna e in tutti gli altri paesi in cui la crisi ha decapitato i governi eletti dal popolo sovrano, l’Italia non si è potuta permettere di andare a votare è ovvio: la colpa è anche del nostro partito, e la colpa è anche di quella classe dirigente del centrosinistra che ha fallito in questi vent’anni, che non ha garantito nel momento della caduta del berlusconismo un’alternativa vera, concreta e che sarebbe sbagliato se alle prossime elezioni si presentasse compatta a rappresentare ancora la sinistra. E badate bene, eh: non parlo di Bersani, ché il segretario è stato generoso e leale nel rinunciare ad andare a elezioni che probabilmente avrebbe vinto, ma parlo di tutti coloro che oggi si sentono padroni del Pd e che in realtà in tutti questi anni hanno contribuito ad azzoppare i progetti vincenti del centrosinistra. E dei nomi chissenefrega, tanto avete capito”. Occhio però: non fatevi ingannare. Al contrario di quello che potrebbe sembrare, Rossi è quanto di più distante ci possa essere dalla “rottamazione” di stampo renziano. E anzi, per certi versi, una delle ragioni per cui il governatore della regione viene portato in palmo di mano dal fronte sinistro e anti giavazziano e anti blairiano e anti modernista del Pd è proprio legato al modo in cui Rossi, nel corso dei mesi, è diventato uno dei massimi esponenti dell’anti renzismo del Pd. E a questo proposito in molti ricordano con malizia come un anno e mezzo fa Repubblica (il giornale forse più affezionato a Rossi e il cui editore, Carlo De Benedetti, due mesi fa, intervistato da Lilli Gruber a “Otto e mezzo”, definì Rossi “Il miglior governatore che abbiamo in Italia anche se nessuno ne parla mai”, tanto da far scrivere il giorno dopo all’Unità che CDB lanciava “il governatore della Toscana Enrico Rossi come candidato premier per il centrosinistra”) chiese proprio a Rossi di rispondere al sindaco di Firenze sulla questione “rottamazione”. E Rossi, nell’intervista, non fu, come dire, esattamente tenero con Renzi: “Non posso accettare il linguaggio del sindaco, non si possono usare parole come ‘rottamazione’ a proposito dei vertici del Pd. Se uno milita in un partito deve prima di tutto avere rispetto per gli altri e parlare in modo educato”.

    Più in generale, però, le parole di Rossi sono utili anche a comprendere quali sono le vere linee di frattura che in questo momento dividono in due il mondo del Pd. Perché è ovvio, sì: l’elemento più significativo che in questa fase caratterizza la dialettica (ehi, è un eufemismo) tra il fronte sinistro e il fronte centrista del Pd riguarda il modo in cui gli iper-montiani e gli iper-non-montiani osservano il governo Monti (con i primi che vedono in Monti il salvatore, il messia, il Gesù Cristo dei riformisti italiani e con i secondi che guardano invece al governo tecnico con la paura di essere inghiottiti, fagocitati, spappolati e prosciugati nell’anima). Ma a parte questo (che ovviamente non è poco ma che non è nemmeno tutto) esiste anche un’altra questione che divide il Pd; ed è una questione relativa – chissà quante volte l’avrete sentito – alla così detta deriva “leaderistica dei partiti”. E Rossi, in questa fase in cui il Pd quotidianamente si divide, si tormenta e si lacera praticamente su ogni tema, crede che il punto da cui partire per “rifondare il partito” (e Rossi usa proprio queste parole) sia proprio quello. “Non possiamo essere la sinistra dei fighetti e dei saputelli – dice Rossi citando una sua vecchia frase che anni fa fece scalpore – di quelli che fanno i riformisti senza mai confrontarsi col popolo e soprattutto con i lavoratori. E soprattutto non possiamo essere noi i promotori di un progetto perdente: quello del leaderismo matto e disperato. Spesso mi fanno notare che il Pd oggi è l’unico partito che conserva nella sua denominazione la parola ‘partito’. E’ vero, è così, ma noi non dobbiamo vergognarcene: lo dobbiamo rivendicare con forza. Noi siamo forse l’unico vero partito che esiste in Italia, abbiamo l’occasione di costruire un partito forte che possa rappresentare tutta la sinistra, abbiamo l’occasione di promuovere – noi sì – una vera vocazione maggioritaria (e anzi, apro una parentesi, ma cosa aspetta Nichi Vendola a entrare nel Pd? Su Nichi, vieni con noi, siamo un’unica famiglia, ma che ci fai là fuori?). E in questo senso – aggiunge Rossi – sarebbe da pazzi pensare prima al leader e solo dopo al partito. Vogliamo davvero andare avanti con questa storia ridicola delle liste civiche? Vogliamo davvero andare avanti con questa storia imbarazzante dei leader che rinnegano i loro stessi partiti? E’ vero che il leader è importante per vincere un’elezione, per carità, ma è anche vero che senza partito il leader non va da nessuna parte. E tutti quei ‘bla-i-ri-a-ni’ – ripete Rossi ancora con tono quasi disgustato – che predicano la teoria che un partito moderno non debba avere un blocco sociale di riferimento li considero in fallo. E anzi, dico di più: sono, loro, portatori di una malattia mortale per la sinistra”.

    Rossi fa una pausa, impugna con la mano destra la Coca Cola, fa rimbombare nel bicchierone i cubetti di ghiaccio, infila di nuovo la cannuccia nella bocca e poi ricomincia a chiacchierare con gusto. Sono le tredici e sette, il treno del governatore parte tra otto minuti ma Rossi ha ancora voglia di parlare. Oggi è giovedì, i giornali sono pieni di notizie sul tostissimo botta e risposta tra il segretario del Pd e il ministro del Welfare Elsa Fornero (con Bersani che dice che “Non è scontato che il Pd dica di sì alla riforma del Lavoro senza l’accordo con le parti sociali” e con Fornero che risponde dicendo che “il governo andrà avanti con la riforma del mercato del Lavoro e che il Parlamento si assumerà la responsabilità di dire se appoggia il governo o non lo appoggia”); e Enrico Rossi, indicando con un cenno della testa il titolo a tutta pagina della Stampa (“Lavoro, la sfida di Fornero”), parte e quasi non si ferma più. “Credo sia ovvio, no? C’è un limite oltre il quale non si può andare e non capisco come facciano alcuni miei amici di partito a essere sempre e dico sempre, sempre, sempre, sempre così sdraiati sul governo Monti. Dico io: ma si può criticare oppure no? Si potrà pure dire che non possiamo farci spolpare vivi da questo governo? Si potrà pure dire che a volte i nostri amici tecnici – che sono tanto bravi, tanto sobri e tanto belli – sbagliano pure? E poi te tu che si fa – dice Rossi rifugiandosi in un toscanaccio generalmente molto temperato – mica lo si può sempre inghiottire il rospo, no?”. Rossi dà un’occhiata all’orologio, si alza, saluta con un cenno della mano un ferroviere pisano che da lontano gli urla un “grazie, presidente!”, poi supera il salone centrale della stazione Termini, si avvicina al binario numero otto e prima di salire sul treno ci regala una frecciatina mica male ai “compagni montiani” del Pd: sintetizzando in modo perfetto quello che in questi giorni pensano e non hanno il coraggio (o la possibilità) di dire tutti quegli esponenti che fanno parte della così detta sinistrasinistra del Pd. “Il governo Monti – dice Rossi – durerà fino alla fine della legislatura, e su questo sono pronto a scommettere qualsiasi cosa. Nessuno ha né la forza né la voglia di far cadere Monti e a questo punto bisogna ragionare soltanto sul dopo”.

    Già, il dopo. Il ragionamento di Rossi lo avrete capito: il governatore scommette sul fatto che una volta esaurita la fase montiana vi sarà un’inevitabile voglia di sinistra che il Pd farebbe male a non andare a stimolare, e ovviamente a rappresentare. Ed è proprio su quel versante – sostiene il governatore – che il Partito democratico deve andare a cercare il famoso popolo astensionista. Rossi però dice anche qualcosa di più. Prima scherza sul suo futuro (“Ma quale segretario, ma quale presidente del Consiglio: lasciatemi fare per ora il governatore, dai”) ma poi si immerge nel mondo della fantapolitica e prova a fare lui il mago. “E che non lo so che alle prossime elezioni è probabile che si candiderà qualcuno che fa parte di questo governo? E che non lo so che nel nostro partito molte persone sarebbero pronte a sostenere un Monti o un Passera o un qualsiasi altro ‘erede’ di questo governo? Lo so, certo che lo so, tutti lo sappiamo. Ovvio: trovo curioso che a sostenere la teoria del ‘Monti dopo il 2013’ siano tutti quei dirigenti del mio partito che fino a oggi si sono spesi con passione per difendere ‘il bipolarismo’, ‘la vocazione maggioritaria’. Ma a parte questo, beh, cosa volete che vi dica? E’ evidente: Passera e Monti sono liberi di candidarsi, i nostri amici ‘moderati’ sono liberi di appoggiarli, noi però, da parte nostra, siamo liberi di fare il Pd. E il Pd, sia chiaro, non potrà mai essere il partito dei Passera e dei Monti. E’ un’altra cosa, dai – e questo chi vuole salvare il Pd lo sa, eccome se lo sa”.    

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.