Santorum muove guerre culturali nella pancia smagrita d'America
Rick Santorum è il fiume carsico delle primarie repubblicane americane. Dopo la tripletta in Missouri, Minnesota e Colorado, è riemerso in superficie con forza, in vista del voto in Michigan, il 29 febbraio, e anche nelle proiezioni di voto per il Texas, che è uno stato con un bottino ricco di delegati ma ha dovuto rinunciare alle primarie del 6 marzo a causa di una faida burocratica (forse si voterà il 29 maggio).
Rick Santorum è il fiume carsico delle primarie repubblicane americane. Dopo la tripletta in Missouri, Minnesota e Colorado, è riemerso in superficie con forza, in vista del voto in Michigan, il 29 febbraio, e anche nelle proiezioni di voto per il Texas, che è uno stato con un bottino ricco di delegati ma ha dovuto rinunciare alle primarie del 6 marzo a causa di una faida burocratica (forse si voterà il 29 maggio). Mitt Romney sta recuperando, almeno nel “suo” Michigan (suo padre è stato governatore lì negli anni Sessanta), ma continua a essere un candidato di risulta, non domina il dibattito se non quando si parla delle sue infinite ricchezze. Santorum è il contrario: s’impone perché parla di religione, di valori, di famiglia, e riesce a conquistare quella middle class spaventata dall’ex finanziere mormone e dall’ex speaker iracondo (Newt Gingrich, che pure cerca di riunire dietro di sé il voto evangelico). Con Santorum si torna a parlare di “cultural war”, con toni che fanno naturalmente inorridire i liberal (come la foto che Santorum teneva sulla scrivania al Senato, la foto di Gabriel, il suo quarto figlio nato a 20 settimane e morto dopo due ore di vita: i genitori lo portarono a casa, lo fecero abbracciare agli altri tre figli, poi fecero il funerale), ma che animano la pancia smagrita dell’America.
Santorum ha anche avuto il merito di ricordare al resto della compagnia repubblicana che l’obiettivo finale è battere Barack Obama, non ridurre il Gop in una poltiglia d’idee e identità. Così Santorum ha parlato della “phony theology” del presidente democratico, una teologia ipocrita, falsa, “che non si basa sulla Bibbia”. “So che il presidente è cristiano – ha ribadito Santorum – Ha detto di essere cristiano, ma vorrei parlare della sua visione del mondo”. La macchina elettorale obamiana s’è scatentata: Robert Gibbs, ex portavoce ora assoldato per la rielezione, ha detto che queste considerazioni sono “sbagliate e distruttive”.
Santorum ha fatto ciò che gli viene meglio: torturare i nervi scoperti della società americana in versione liberal. In questo senso è un candidato temibile: fa emergere quei temi etici che tutti ficcano sotto montagne di elucubrazioni sulla crisi economica.
Non è un caso che Newsweek, magazine diretto da Tina Brown e quindi inevitabilmente pop, abbia messo le guerre culturali in copertina. L’evento scatenante era il balletto obamiano sull’imposizione alle istituzioni religiose di pagare ai dipendenti le assicurazioni sanitarie per anticoncezionali, pillole del giorno dopo e procedure di sterilizzazione, finito con un compromesso: per le materie sensibili, il costo ricadrà sulle compagnie assicurative. L’articolo di Newsweek era firmato da Andrew Sullivan, veterano delle battaglie etiche (aveva prematuramente sancito la fine delle guerre culturali grazie all’arrivo salvifico di Obama con un famoso pezzo sull’Atlantic: “Goodbye to all that”), che in realtà voleva fissare un risultato: i repubblicani vogliono le guerre culturali, ma non le sanno vincere, e devono stare attenti perché se continuano a parlare di temi etici favoriranno Santorum. Secondo Sullivan, il presidente in carica vince le guerre culturali perché i dati – ne cita molti – mostrano che le sue decisioni piacciono agli americani cattolici, di destra e di sinistra. Ma pure Sullivan sottolinea che in tre anni Obama ha evitato di sollevare questioni etiche, e ogni volta che accade comunque i cattolici democratici “vanno in panico”.
Ross Douthat, commentatore conservatore del New York Times che pubblicherà a breve un libro sulla religione in America, ha analizzato nella sua ultima column il terreno in comune tra liberal e conservatori sul tema dell’aborto. Tutti vogliono diminuire il numero degli aborti, con modalità diverse. Secondo Douthat, la destra non ha trovato il linguaggio giusto per parlare alla società americana post rivoluzione sessuale, ma i liberal, con le loro “politiche di riduzione delle gravidanze inattese”, non hanno ottenuto risultati: continuano a esserci meno aborti negli stati conservatori, rispetto a quelli liberal. Cioè il terreno in comune è un’illusione, le guerre culturali sono tutt’altro che concluse. E se il momentum di Santorum resiste, se alla convention di Tampa i repubblicani riusciranno a complicarsi ancora di più la vita alla ricerca di un candidato credibile (regalando finalmente qualcosa di eccitante di cui parlare in queste primarie così poco scandalose), Obama avrà i suoi problemi a dimostrare che ha vinto una guerra che non voleva neppure combattere.
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