Parmigiano russo
Da qualche parte tra la via Emilia e l’antica via Porretana, un giorno, un tizio ha deciso di darsi due settimane di tempo per capire che cosa fare della sua vita (aveva trentatré anni, una laurea tardiva in Letteratura russa, un passato di ragioniere parmense in terre arabe – Algeria, Iraq – e un presente di semidepressione incipiente).
Da qualche parte tra la via Emilia e l’antica via Porretana, un giorno, un tizio ha deciso di darsi due settimane di tempo per capire che cosa fare della sua vita (aveva trentatré anni, una laurea tardiva in Letteratura russa, un passato di ragioniere parmense in terre arabe – Algeria, Iraq – e un presente di semidepressione incipiente). Lo scrittore, si è detto il tizio, voglio fare lo scrittore, e ci voleva del coraggio, a dirselo, se non altro per mettersi lì tutti i giorni a scrivere qualcosa che non era detto venisse bene, anzi era probabile che per i primi sei mesi venisse male, o comunque peggio del lavoro di ragioniere in terra araba, sulle montagne algerine o nella Baghdad di fine anni Ottanta, con Saddam Hussein al potere, la guerra Iran-Iraq, la dittatura, una strana libertà di costumi e molti Martini sotto il cielo della Mesopotamia. Da qualche parte lungo le ex mulattiere appenniniche, poi, il tizio si è dato due anni di tempo per capire se più o meno lo sapeva fare, lo scrittore, come più o meno aveva cercato di capire se sapeva fare un lavoro qualsiasi quando era partito per l’Algeria. “O entro due anni pubblichi qualcosa o niente”, si è detto. Ha pubblicato. E non una sola volta. E’ per questo che oggi Paolo Nori è Paolo Nori lo scrittore, il traduttore dal russo e il lettore di classici in libreria e in podcast (per il Post di Luca Sofri, ed è lì che oggi l’hanno scoperto – voce narrante formidabile – quelli che non l’avevano mai letto). E’ per quei quindici giorni “o decidi o morte”, che Paolo Nori oggi non è “il Nori”, ragioniere a Parma: uno magari anche bravo a far di conto, anche responsabile d’azienda, alla fine, solo che non era la ragioneria la sua voce-guida. Perché per Paolo Nori è prima di tutto una questione di voce, anche oggi che è un quasi cinquantenne scrittore dell’Emilia stralunata cavazzonian-celatiana (nel senso di Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati, amici, modelli e un tempo colleghi alla rivista Il semplice, ragion per cui gli esperti non appassionati di Nori mettono Nori nella casella “allievi”, individuando nella sua prosa qualche vezzo di maniera. Ma questa è un’altra storia, raccontata su questo giornale da Matteo Marchesini nell’agosto dell’anno scorso).
Voce, dice Nori. La voce che, se non la trovi, quando racconti qualcosa hai pure la preoccupazione di essere originale, e sarebbe meglio di no. La voce che, se non la trovi, poi strafai anche nelle traduzioni. Dice Nori che un suo amico e collega, Daniele Benati da Reggio Emilia, scrittore e traduttore di Samuel Beckett, era sconcertato per il fatto che un precedente traduttore di Beckett avesse tradotto “I was feeling awful”, con “avevo una tarantola d’inquietudine in petto”. Ma perché non ha scritto “stavo male?”, si era chiesto Benati, a quel punto traducendo direttamente in dialetto reggiano: “A steva mel”.
“Il mondo è pieno di gente strana, e anche tu sei un po’ strano”, dice Nori citando uno dei libri di Benati da lui letti per il Post, “Le Opere complete di Learco Pignagnoli”. Cioè: pure tu sei originale, ma non fare l’originale. “Basta trovare la voce, poi puoi raccontare qualsiasi cosa”, dice Nori. La sua voce-voce, intanto, è una voce da attore, la voce quasi d’oltretomba di profonda e pacata inflessione parmense che Nori usa nei reading, quelli che, ad ascoltarli, poi magari sembra normale andare per strada con le cuffie e Gogol che parla per bocca di Nori: “Dal portone di un albergo del capoluogo di governatorato della città di NN, era entrato un piccolo calesse a molle abbastanza bello, del tipo di quelli su cui viaggiano gli scapoli…”. Uno magari se le ricordava pesanti, le “Anime morte”, magari le aveva lasciate su un comodino a diciotto anni. E invece dopo il reading uno resta irretito dal calesse e dal resto (scrive Nori che “è stranissimo che un libro così, un libro dove i contadini diventano dei samovar, i ballerini delle mosche, i possidenti degli orsi, le possidenti delle scatolette, un libro dove le signore si dividono in signore semplicemente piacevoli e signore piacevoli da tutti i punti di vista, dove le carrozze diventano dei cocomeri e gli ufficiali arrivati da Rjazan’ stanno svegli tutta la notte a decidere se comprare o non comprare un quinto paio di stivali, sia stato considerato un caposaldo del realismo russo”). Ha una sua presenza scenica drammatica, il Nori lettore: maglia scura, volto segnato e senza sorriso, braccio proteso in avanti nel buio della sala.
Come mai è stato in Algeria e in Iraq e in Francia e in Russia?, si chiede chi si accosti a Paolo Nori senza aver mai letto Paolo Nori ma avendo letto le biografie on line su Paolo Nori. E come mai ha studiato russo dopo aver fatto il ragioniere? Nori risponde che viene tutto dal fatto che a un certo punto l’Italia degli anni Ottanta non gli piaceva, che voleva vedere se era capace di lavorare ma non qui. Poi legge in podcast riflessioni sul “sacro nelle nostre vite” – che è tutte le volte “che il mondo ti dà una botta”, e può essere mentre stendi il bucato, quando bevi il primo vino dell’anno o quando guardi tua figlia piccola e pensi “ma com’è bella” (Nori ha una figlia piccola che compare sulla copertina di alcuni suoi libri e dice cose sagge riportate sul sito www.nori.it. Per esempio: “La bambina di cinque anni, quando sono tornato dalla Polonia, la prima cosa che mi ha detto è stata ‘Io non voglio cambiare genitori’. E poi mi ha fatto vedere un libro che si intitolava ‘Il catalogo dei genitori’ e mi ha detto ‘Sono tutti bruttissimi’ ”). Sacro, dice Nori, è quando al bar “i pensionati girano attorno ai quotidiani come bambini”.
Ma nei romanzi di Nori c’è un altro Nori, l’alter ego Learco Ferrari che si aggira tra Bologna e le colline come un vitellone senza sfrontatezza, insicuro ma anche consapevole, diviso tra sogni di gloria, nostalgia, incidenti in macchina, tutine anticicatrici da Raffaella Carrà, colpi di testa, gatti, madri, padri, nonne, colleghi cretini e ragazze che si chiamano Francesca. Quale Nori sia davvero Nori non si sa e non ha importanza (nel romanzo “I quattro cani di Pavlov” i possibili “doppi” dello scrittore sono addirittura tre, anche se non quattro come i cani del titolo). Pare oltremodo inquieto, Nori, questo sì. D’altronde ha tradotto “Oblomov”, inquieto immobile, per la nuova edizione Feltrinelli: la storia dell’uomo che sta sul divano e si lascia passare davanti la vita e i sogni e il benessere e l’amore. E ha scritto una prefazione, Nori, in cui parla dei giovani russi della prima metà dell’Ottocento, quelli istruiti che avevano vinto Napoleone e si erano spinti fino a Parigi, “e avevano letto gli illuministi” e, con “le teste piene di libertà, uguaglianza, fratellanza e idealismo…erano tornati in Russia, la loro patria, dove c’era ancora la servitù della gleba, e uno stato corrotto e arretrato, e avevano scoperto che non potevano far niente”. Solo “ritirarsi in campagna e non dare troppo fastidio”. Poi Nori si immagina che oggi un certo “Claudio di Carpi o di Mirandola”, appassionato di filosofia, faccia una tesi sulla “Città del Sole” di Campanella, “… e immaginiamo che dopo due anni che ci lavora discuta la tesi, centodieci e lode, va bene, e dopo? Proviamo a chiederci cosa interessa, alla società dove vive questo Claudio di Carpi, o di Mirandola…della ‘Città del Sole’…che utilità ha, Claudio di Mirandola, per quella società, che cosa può fare, in quella società? Ha davanti due possibilità: o si mette a servire, o si mette in un angolo e cerca di non rompere troppo i maroni, mi scuso per la volgarità ma i tempi, in qualcosa, sono cambiati”.
Si sentiva molto Claudio di Mirandola, Nori, tornato da Mosca, appena laureato. In uno dei suoi discorsi, raccolti ne “La meravigliosa utilità del filo a piombo”, racconta che gli veniva da “tornare a casa e star tutto il giorno sopra il divano, alla russa, come Oblomov, ero un disadattato”. Oggi Nori non legge giornali, non guarda tv, non ascolta nemmeno la radio specie “quando sta bene e riesce a stare per conto suo”. Un tempo li leggeva, i giornali, ma poi gli è parso che avesse tutto molto a che fare con l’idolatria (o di qua o di là) e ha smesso. Ci scriveva e ogni tanto ci scrive, sui giornali. A Parma, tanti anni fa, prendendo contatti con un responsabile della pagina culturale della Gazzetta, si era sentito dire “qui avrai libertà a 340 gradi”. A Libero, pochi anni fa, si era invece sentito libero, responsabile solo di quello che scriveva. E però c’era gente scandalizzata (ma come, non eri di sinistra?). Andrea Cortellessa, critico del Manifesto, l’aveva attaccato (“Libero è un giornale fecale e coprolalico”, “Nori deve chiarire”). Era seguita una disfida intellettuale tra i due a Roma, una sorta di processo (complice lo stesso Nori) in una libreria di San Lorenzo: “Non mi piace l’espressione ‘intellettuale di sinistra’”, aveva detto Nori, “primo perché la parola intellettuale mi fa venire i brividi, e poi perché sinistra, destra, cosa sono oggi?… Certo non sono di destra, mi definirei piuttosto uno scrittore anarchico”. Anarchico e nostalgico, almeno nel discorso “Noi e i governi”, letto per la prima volta a Praticello di Gattatico il 19 settembre 2010, nella casa dei fratelli Cervi. Nori parla di libertà e anarchia con molta malinconia, di Daniil Charms che in Russia sotto la dittatura muore di fame in manicomio e invece che invettive lascia capolavori, di Sacco e Vanzetti che muoiono innocenti nella democrazia americana, di Simone Weil che nel 1943 scrive: “Il fatto di prendere partito ha sostituito il fatto di pensare”. Della difficoltà, oggi, di capire quali siano i pensieri propri e quali quelli pensati da altri. Della continua “recita del pensiero”. Dei regimi in cui si nuotava come nel mare senza accorgersi di avere attorno l’acqua. “Le frasi dei politici faccio fatica a ricordarle”, dice Nori oggi. “Le frasi degli scrittori invece restano”. Non necessariamente famosi, ché Nori preferisce “i marginali”.
Ha visto l’ex Urss quando ancora era Urss, Nori, ed era per forza una “palestra di sguardi” (“Il fatto che le cose non ti dicessero ‘guardami guardami come son bello, era come se ti obbligassero a guardare e guardare è una cosa che è come pensare’”). Aveva fatto colazione “in una specie di mensa con un uovo e basta”, il giorno dell’arrivo in Russia. Aveva percorso a piedi tutta la Prospettiva Nievskij, a San Pietroburgo (allora Leningrado) e aveva visto tanti omini piccoli, vestiti tutti uguali, e poi d’improvviso un enorme cartellone, l’unico in una strada senza negozi o insegne occidentali: pubblicità Lancôme, foto di Isabella Rossellini, una macchia di colore immensa in un panorama in bianco e nero, e sembrava fantascienza. Aveva studiato, Nori, si era fatto degli amici, e un giorno era andato anche a Murmansk. Così, tanto per dire “son stato sul Circolo polare artico”. C’era uno, a Mosca, che gli diceva che a trent’anni Napoleone era già imperatore, perché lui, Nori, a trent’anni ancora studiava, perché alla Russia e ai russi c’era arrivato tardi. Lo racconta il suo Learco Ferrari nei libri. Nori ci scherza, nei podcast per il Post, e legge in parmense un brano di “Storia della Russia e dell’Italia”: ci sono due amici che ricordano quando all’università si usciva la sera e c’era sempre “una figa” che, attratta dal loro “magnetismo animale”, chiedeva: ‘Ma voi cosa studiààte?’”, e se loro rispondevano “studiamo il russo”, lei diceva “ma dààài? ma che interessante!”, e chiamava la gente e tutti cominciavano a chiedere “ma lo parlate anche, il russo?, e ci siete stati, in Russia?, ma che cosa si mangia, in Russia?, ma c’è freddo?”. I due amici constatavano che si rimorchiava pure, a parlar di Russia, “c’era scappata anche qualche fiondata, all’inizio”, ma poi si erano anche “un po’ rotti i maroni”. E quando “qualche figa” chiedeva “ma voi cosa studiààte?” e la gente diceva “ma dàài, ma che interessante” e poi domandava “ma c’è freddo, in Russia?”, i due rispondevano “freddo? In Russia? Ma se c’è il monsone siberiano e la stagione delle piogge”. E quando qualcuno chiedeva “ma cosa si mangia, in Russia?”, loro rispondevano che mangiavano i bambini, “e che in generale erano anche buoni”.
Ma è proprio papale papale, l’autobiografia, nei romanzi di Nori?, ci si chiede al secondo romanzo di Nori. Lui, in podcast, rimanda al libro “Si chiama Francesca, questo romanzo”: Learco Ferrari, scrittore ed ex magazziniere sulle montagne algerine, racconta di quando “un deficiente” venuto dall’Italia si era messo, tra algerini ostili e italiani incuriositi, a descrivere la mirabolante macchina che dal prosciutto, a ritroso, tira fuori il maiale, e allora, dice Learco, “ci vorrebbe una macchina miracolosa così, per risalire dal romanzo alla vita di quello che scrive il romanzo, solo che la gente è difficile che lo capisce, la gente gli basta che vede una cosa stampata, ci crede subito, a quello che vede”.
In Algeria c’è andato, Nori-Learco, perché c’era in Italia un periodo brutto, c’erano anni pieni di gente che a Parma voleva vendere e rivendere oro. “La febbre dell’oro”, la chiama Nori. Stavano sparendo le lucidatrici la domenica, nelle case si era pieni di bicchieri infrangibili che non erano infrangibili, i telefoni a gettone erano in via di smantellamento, i maschi al bar non andavano più al bar e, ha scritto Nori, ci si sentiva un po’ come Joseph Roth quando scrive dell’impero austroungarico “proprio nel momento che l’impero austroungarico stava sparendo, era come se glielo stavano tirando via sotto i piedi…”.
C’è la voce del Nori-lettore e ci sono “le voci”, ché il doppio seriale di Nori, Learco, da quando è piccolo sente delle voci che vivono sopra la sua testa, e gli dicono ma che cosa fai, ma sei proprio una merda, ma perché invece che un romanzo d’amore non vai a scrivere “con estrema levigatezza e in modo crepuscolare un romanzo a cornice che ci porti in modo convincente a confronto con un mondo tramontato che è quello della detection scientifica” o un romanzo che “sia un’elegante e inconsueta descrizione di New York”, una città “dove brillanti agenti di Borsa professori di letterature e gangster riescono miracolosamente a vivere assieme a essere amici” o un romanzo “che mescoli sapientemente il comico al tragico e al riso che scaturisca da circostanze paradossali e da eventi grotteschi e che lasci in bocca l’amaro di una situazione esistenziale in cui si riconoscono tre generazioni tradite nelle illusioni e negli ideali”. E vai poi a spiegare che non è romanzo d’amore ma un romanzo su un trasloco, quello che stai scrivendo. Vaglielo a spiegare, alle voci che stanno sopra la testa e si perdono in autobus per i paesini emiliani e fanno riunioni straordinarie sul collegamento recondito tra i traslochi, i filosofi russi e “Caccia alle Farfalle” di Otar Iosseliani.
Ma chi sta prendendo in giro, Nori?, ci si chiede, ché a volte pare proprio che le voci sopra la testa stiano facendo la parodia di qualche intellettuale, di qualche Alessandro Baricco, di qualche Andrea De Carlo, di qualche Paul Auster, persino, ma poi se glielo chiedi, a Nori, che cosa pensa di Baricco, Nori risponde che “è uno bravo”, e che pure Ammaniti è uno bravo, e che li ha recensiti entrambi, anche se “certo Baricco ha un’idea singolare di letteratura” e “fa il suo mestiere in modo diverso dal mio”, e a volte magari assume “atteggiamenti ridicoli”, come quando è andato alla Leopolda di Firenze da Matteo Renzi e ha parlato “come fosse responsabile, lui Baricco, di tutte le sconfitte della sinistra” – che poi da Renzi, ha scritto Nori in un commento richiestogli da Marco Travaglio per il Fatto, “… sul fondo, sfocati, si vedevan dei libri, che non ho capito bene se erano veri o finti”, e si vedeva “sul tavolo della direzione dei lavori un cesto di frutta. Un cesto di frutta grande, ma non da mangiare, decorativo, a fare finta, a ostentare opulenza, forse, ma un’opulenza da poco, un cesto di frutta”. E Renzi, lui, “tutte le volte che parlava, al di là di quello che diceva, non ne so niente, ma non diceva tantissimo, presentava e leggeva gli sms, o i messaggi su Twitter, o su Facebook, e ogni cosa che diceva la commentava con una battuta… scherziamo, facciam finta che è finto, o una cosa del genere”. Ma si vede che Baricco è intelligente, dice Nori: “Non si è mai arrabbiato per quello che ho scritto”, per le parole del romanzo “I Diavoli”: “… aveva scritto un primo libro bellissimo, dopo poi si è montato la testa, ha messo su una scuola di scrittura creativa, Alessandro Baricco, dove fa delle lezioni che si siede al pianoforte e dice Sentite questa nota, e suona un fa, poi non dice più niente per tre quarti d’ora, gli studenti in silenzio ascoltano questo fa che si dirada, poi continuano tre quarti d’ora a sentire il diradamento del fa. Dopo suona la campanella, gli studenti dicono Oooh. Poi, mentre escono, ‘cianno’ delle espressioni tutte stupite. Qualcuno dà di gomito al suo vicino, gli chiede Ma cosa avrà voluto dire, Baricco? Mah, gli rispondono. Chi lo sa, gli rispondono. Però, gli rispondono, è stato molto toccante”). E in “Si chiama Francesca, questo romanzo” c’è uno scrittore che se ne sta “con una grande camicia bianca e una faccia da bambino un po’ malinconico”. Ma oggi Nori dice che non è Baricco, e allora uno tira a indovinare ma è inutile, il nome non lo fa neanche morto.
Anche se poi pure Nori ha la sua scuola (non Holden). Si chiama “Scuola elementare di scrittura emiliana”. Sono giovani e vecchi che si incontrano a Bologna il lunedì sera, per parlare di letteratura, “pensa te che roba strana”, dice, vedersi il lunedì e provare a descrivere così come viene che cosa si vede dalla tua finestra.
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