Dopo il rogo e le proteste

E' il Corano o la strategia di ritiro di Obama che va in fumo in Afghanistan?

Daniele Raineri

Il piano per la transizione in Afghanistan ora è a rischio per colpa della sollevazione nazionale scatenata da un rogo colposo di copie del Corano in una base militare Nato. Da quando c’è rivolta nelle strade sono accelerati gli attacchi di soldati afghani contro i militari Isaf. Nell’ultima settimana è successo cinque volte.

    Il piano per la transizione in Afghanistan ora è a rischio per colpa della sollevazione nazionale scatenata da un rogo colposo di copie del Corano in una base militare Nato. Da quando c’è rivolta nelle strade sono accelerati gli attacchi di soldati afghani contro i militari Isaf. Nell’ultima settimana è successo cinque volte. Sabato due alti ufficiali americani, un maggiore e un colonnello, sono stati uccisi con un colpo alla nuca all’interno della sala di comando e controllo del ministero dell’Interno, uno dei luoghi più sicuri del paese, protetto da tre porte con codice numerico di sicurezza e telecamere a circuito chiuso. I cancelli del ministero sono rimasti aperti per 45 minuti e l’assassino è riuscito a fuggire. Due giorni prima, durante una protesta violenta a Nangarhar, un agente afghano ha fatto lo stesso con due soldati americani e poi si è mescolato alla folla. Mercoledì un capitano albanese è stato ucciso da un gruppo di poliziotti durante la visita pacifica in un villaggio per la costruzione di una scuola.

    Per ragioni di sicurezza, il generale dei marine e comandante di Isaf, John Allen, ha ordinato il ritiro immediato di centinaia di consiglieri militari americani dai palazzi dei ministeri di Kabul. Il dipartimento di stato lo ha subito seguito con un richiamo identico per i suoi diplomatici, imitato da Gran Bretagna, Francia e Germania. Il passaggio di consegne previsto tra due anni, nel 2014, si fonda in teoria su un patto di collaborazione quasi fraterna tra forze occidentali e governo di Kabul, necessario per il funzionamento di istituzioni acerbe, per l’addestramento, per l’istruzione e per le missioni di guerra assieme. In realtà, il patto è già parzialmente compromesso. Se ne sono accorti i giornali americani. Ieri il Wall Street Journal titolava: “Il ritiro dei consiglieri danneggia la missione afghana”; il New York Times: “La sollevazione in Afghanistan getta un’ombra sul ritiro”.

    Si è anche dissolta la consueta divisione del paese, da una parte il nord tranquillo e dall’altra il sud-est violento in mano all’etnia pashtun che riempie le file dei talebani. La geografia del rischio non conta più come prima. Sono stati presi d’assalto l’ufficio Onu di Kunduz, a nord (da dove proviene anche l’infiltrato che ha ucciso i due alti ufficiali); il consolato americano a Herat, a ovest, dove dominano i tagichi nemici dei talebani; le basi americane, francesi e norvegesi nelle province prima tranquille del settentrione come Samangan. I soldati tedeschi hanno approfittato delle proteste per ritirarsi definitvamente da Taloqan. A gennaio ai francesi è stato già ordinato il ritiro con un anno di anticipo sul previsto, dopo un episodio identico all’uccisione a tradimento dei due militari americani.

    Il piano per la transizione ha già subìto un colpo a metà febbraio, quando il Pentagono ha annunciato che per ragioni di ristrettezze del budget non vuole più 352 mila uomini per le nuove forze di sicurezza afghane, ma soltanto 230 mila. Questa settimana, secondo Associated Press, era previsto un viaggio a Washington del ministro della Difesa afghano, Rahim Wardak, e di quello dell’Interno, Bismullah Khan, per convincere l’Amministrazione a tornare al piano originale, ma la situazione a Kabul li ha costretti ad annullare l’incontro. Ora i due ministri hanno una previsione di spesa per la sicurezza stravolta al ribasso e ministeri abbandonati dai preziosi consulenti occidentali.

    Il duplice omicidio parte da una madrassa
    Il presidente afghano, Hamid Karzai, ha rotto il suo silenzio sulla sollevazione nazionale soltanto domenica, dopo cinque giorni. Ha chiesto calma, ha riconosciuto al popolo afghano la disponibilità a sacrificare la vita per la propria fede religiosa, ha promesso di ottenere dal presidente americano, Barack Obama, che i soldati americani responsabili siano puniti. I due presidenti si sono evitati. Obama ha telefonato al suo generale, Allen, ma non a Karzai. L’afghano ha lasciato che il suo ministro della Difesa, Rahim Wardak, chiamasse il capo del Pentagono, Leon Panetta, perché le cose fossero risolte “da militare a militare” (è una costante della politica estera americana: quando il problema è troppo urgente o complicato, dall’Egitto al Pakistan, chiamare il Pentagono). A Washington sono convinti che Karzai avrebbe potuto parlare prima: il segretario di stato americano, Hillary Clinton, lo ha preceduto di ventiquattr’ore.

    La caccia al giovane sottufficiale tagico dei servizi che ha ucciso i due americani dentro il ministero porta a nord, a Kunduz. Dettaglio che suona come un capo d’accusa: nel suo passato recente c’è un periodo di due mesi in una madrassa in Pakistan.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)