Fattore Medvedev
La campagna elettorale è quasi finita e, dandosi per scontato che il candidato Vladimir Putin venga eletto al primo turno e che subito riparta il movimento di protesta, l’attenzione dei leader e dei commentatori è ormai rivolta agli scenari che si apriranno dopo il 4 marzo. Al primo punto della sua agenda, il prossimo presidente si troverà la riforma del sistema politico.
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Mosca. La campagna elettorale è quasi finita e, dandosi per scontato che il candidato Vladimir Putin venga eletto al primo turno e che subito riparta il movimento di protesta, l’attenzione dei leader e dei commentatori è ormai rivolta agli scenari che si apriranno dopo il 4 marzo. Al primo punto della sua agenda, il prossimo presidente si troverà la riforma del sistema politico. Dmitri Medvedev, formalmente in carica fino a maggio, ha già passato alla Duma una proposta di legge che, di fatto, smantella alcuni capisaldi del cosiddetto “potere verticale”: ritorno all’elezione diretta dei governatori locali (oggi sono nominati dal Cremlino), abbassamento della soglia di sbarramento alle elezioni (oggi è del 7 per cento), diminuzione drastica del numero di firme necessarie per presentare una candidatura indipendente. Dato il farraginoso sistema di lavoro della Duma (siamo alla prima lettura), non è ancora detto che queste proposte vadano in porto, ma sono il chiaro tentativo di lanciare un segnale alle frange più moderate dell’opposizione extraparlamentare.
Non tutti, però, nel campo putiniano, sono d’accordo con questo approccio dialogante, come Grigory Trofimchuk, politologo vicino al primo ministro. “Il guaio, che voi in occidente non capite, è che Putin è troppo democratico, non troppo poco. Se fosse più autoritario i russi lo amerebbero molto di più. Non ha nulla da guadagnare a mostrarsi debole, come invece temo farà. Alla gente non interessa un fico secco di come saranno eletti i governatori siberiani. La gente è preoccupata dell’inflazione che erode stipendi e pensioni, della durezza della vita. Di questo gli chiederanno conto. Per ora la situazione sociale è relativamente buona, ma i soldi del bilancio federale vengono dall’alto prezzo del petrolio. Arriveranno giorni più duri. Fino a quando si potrà mantenere l’attuale aliquota fiscale del 13 per cento per tutti?”.
L’incertezza sul dopo elezioni alimenta anche manovre di Palazzo. Le più importanti riguardano la figura di Medvedev, mai così enigmatica come in questi giorni. E’ noto che una parte dei putiniani non vorrebbe Medvedev come nuovo primo ministro: non si conta il numero di battute, allusioni, rimproveri tesi a mettere in dubbio la sua attitudine a ricoprire il ruolo. D’altra parte, è evidente a tutti il tentativo dell’opposizione di approfondire il cuneo tra Putin e l’attuale presidente. Uno dei leader di piazza Bolotnaja, Vladimir Ryzhkov, è recentemente comparso in televisione, dopo avere incontrato Medvedev (assieme ad altri oppositori), sottolineando su quanti punti il presidente fosse d’accordo con la piazza. L’ultima sparata è appena arrivata da Igor Jurgens, l’irrequieto capo del think tank medvedeviano: Medvedev deve “rifiutare” di fare il primo ministro, solo così potrà candidarsi a punto di riferimento dell’opposizione (e magari ridiventare presidente). “Tutte le manovre in corso per far sì che Medvedev non diventi primo ministro tendono a indebolire il futuro potere” è l’opinione di Trofimchuk. “Putin ha promesso, di fronte al mondo intero, che Medvedev avrebbe preso il suo posto. Se questo non accadrà, la gente penserà che qualcosa di losco è accaduto dietro le quinte del Cremlino”.
Quel che è certo è che non ci sarà, per il nuovo presidente, alcuna luna di miele. Purtroppo lo scontento della gente dipende anche da problemi che non saranno risolti (primo fra tutti quello di una gigantesca burocrazia di funzionari centrali e periferici, mediamente corrotti e inamovibili, piaga non della Russia di Putin ma della Russia e basta), e il movimento di piazza non darà tregua. Già si annunciano le prossime manifestazioni e si spiano le prime crepe nel campo del potere. Esiste anche un problema di escalation della protesta. Finora la protesta è stata pacifica e non c’è dubbio che buona parte dei leader attuali del movimento punta a ottenere risultati senza violenze. Ma c’è una logica obiettivamente eversiva (che non riguarda i singoli che vanno in piazza) in un moto che ha come obiettivo la caduta del “tiranno”. Un giovane leader degli oppositori, non uno di primo piano ma un autorevole nazionalista, Andrej Epifanzev, dice conversando con il Foglio: “Abbiamo già fatto tre manifestazioni e non abbiamo ottenuto nulla. Ci vuole un salto di qualità. Immaginiamo, solo come ipotesi, non dico che lo dobbiamo fare, che all’ultima sfilata dei centomila, invece di imboccare la strada concordata, la folla avesse marciato sulla Duma. Centomila sono come dieci divisioni. La polizia non avrebbe potuto impedirlo, Putin non può far sparare sulla folla (apparirebbe un Saddam). Avremmo occupato la Duma e l’avremmo dichiarata illegittima. Oppure immaginiamo che, con la bella stagione, la gente occupi la piazza e non torni a casa”. Un sognatore, il giovane Andrej. Ma sono scenari che circolano. E, se dovesse prevalere la frustrazione, circoleranno ancora di più.
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