Le divergenze parallele di America e Israele sullo strike in Iran
Mettere a confronto le dichiarazioni degli alti ufficiali di Washington sulla possibilità di uno strike di Israele alle strutture nucleari iraniane è un metodo sicuro per smarrirsi. Affiancarle a quelle delle autorità israeliane per trovare le intersezioni è un esercizio enigmistico prima che strategico; se si mettono in conto poi i messaggi anonimi che per dissenso o abile calcolo vengono messi in circolo dai coté militari e diplomatici di ambo le parti non se ne ricava l’impressione che Stati Uniti e Israele sulla questione iraniana siano, come si dice in America, sulla stessa pagina.
Mettere a confronto le dichiarazioni degli alti ufficiali di Washington sulla possibilità di uno strike di Israele alle strutture nucleari iraniane è un metodo sicuro per smarrirsi. Affiancarle a quelle delle autorità israeliane per trovare le intersezioni è un esercizio enigmistico prima che strategico; se si mettono in conto poi i messaggi anonimi che per dissenso o abile calcolo vengono messi in circolo dai coté militari e diplomatici di ambo le parti non se ne ricava l’impressione che Stati Uniti e Israele sulla questione iraniana siano, come si dice in America, sulla stessa pagina. Fra il segretario della Difesa certo che sia tutto pronto per l’attacco, il capo delle Forze armate che parla di conseguenze “devastanti”, il consigliere per la sicurezza nazionale convinto della via diplomatica, il capo dell’intelligence e il segretario di stato con gli estintori, il capo dell’aviazione pronto a far librare in volo i caccia americani – se soltanto qualcuno desse l’ordine – e il presidente, Barack Obama, che ha ripetuto così tante volte “tutte le opzioni sono sul tavolo” che ormai sembra più che altro un segnale di disimpegno, l’unica cosa che appare certa è che la “green light” per procedere all’attacco Washington non è disposta ad accenderla.
Allora si muovono le pedine: il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, vola in fretta a Washington accompagnato da fonti anonime che al quotidiano Haaretz spiegano che Israele non aspetterà il permesso americano per agire e poi l’incontro fra Netanyahu e Obama di lunedì prossimo, anticipato di qualche ora dall’intervento che il presidente americano farà al congresso dell’Aipac, la lobby israeliana con la quale non può permettersi frizioni. Non in un anno elettorale. E non con il Congresso più filoisraeliano della storia recente. Quello che Bibi chiederà a Obama è di dare qualche garanzia sostanziale sull’appoggio americano a un’azione di Israele – Bloomberg citava alcuni ufficiali del Pentagono secondo i quali l’aviazione americana ha un piano pronto per affiancare l’Idf nell’operazione: questo Netanyahu vorrebbe sentire – magari accompagnandola con un po’ di chiarezza pubblica sulle oscure “red lines” che l’Iran dovrebbe superare per scatenare una reazione americana. A Washington ciascuno ha le sue linee rosse (uranio arricchito al 90 per cento, generica “capacità” di produrre la bomba ecc.) e non c’è una versione univoca circa quali sarebbero le conseguenze nel caso Teheran sgarrasse (ammesso che non abbia già passato il segno), un’indeterminatezza che indebolisce il sistema di deterrenza impiantato dagli Stati Uniti e fa innervosire il governo israeliano in cerca di benedizione politica.
Michael Eisenstadt, direttore del programma sulla sicurezza del Washington Institute for Near East Policy, legge in modo alternativo l’apparente divario fra Washington e Gerusalemme: le posizioni dei due paesi, dice al Foglio, “non sono sovrapponibili nella strategia ma sono unite nello scopo: impedire all’Iran di avere la bomba nucleare”. Significa che le divergenze nelle dichiarazioni pubbliche sono un gioco delle parti e in realtà tutti sono d’accordo? “Io credo di no – continua – perché esiste un conflitto fra le due visioni. Dico però che non è un male nell’ottica generale di fermare l’Iran, anzi credo sia l’unico modo realistico per affrontare il problema. L’America non può permettersi di appoggiare lo strike e questo concetto non sfugge a Teheran. Se dunque si facesse trapelare che un accordo per l’attacco esiste, gli ayatollah capirebbero che è un bluff. Al contrario, Israele è pronto ad attaccare, perché considera l’Iran una minaccia diretta, vicinissima e potenzialmente fatale. Vedere che Gerusalemme e Washington non concordano, discutono sulla strategia e non vedono le cose allo stesso modo è quello che preoccupa l’Iran, perché rivela che l’ipotesi dell’attacco non è soltanto virtuale”.
Nel decifrare il senso dell’incontro fra Obama e Netanyahu, Eisenstadt dice che “l’obiettivo di Israele non è chiedere il permesso di colpire, ma valutare quanto costerà chiedere scusa. L’America dissente nel metodo, preferirebbe la solita politica a due velocità, con le sanzioni da una parte, i cui effetti devono peraltro ancora esprimersi del tutto, e dall’altra una trama di negoziati paralleli, ma l’obiettivo è fermare l’Iran nucleare, quindi credo che sarà molto più facile per Israele chiedere scusa il giorno dopo che chiedere il permesso il giorno prima”.
Ma il giorno dopo lo strike la situazione nell’area sarebbe sostenibile? “Il problema della previsione delle conseguenze ha a che fare con un’altra questione: se l’Iran è o no un regime razionale. Molti analisti dicono, non senza ragioni, che Teheran calcola con cura le sue mosse, orchestra le provocazioni, mischia la propaganda alla strategia sapendo ciò che fa e gli scopi che vuole raggiungere. Ma se è così, non si può sostenere che il giorno dopo l’attacco l’Iran si trasformi improvvisamente in uno stato apocalittico che smette di fare calcoli e si lascia trascinare da una cieca sete di vendetta. In più, le forze regionali legate all’Iran non credo muoverebbero un dito. Bisogna ricordarsi sempre della risposta che nel 2006 Khaled Meshaal, il leader politico di Hamas, ha dato a uno studente di Teheran che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto Hamas in caso di un attacco israeliano: ‘Pregheremo per voi’, aveva detto. Anche Hezbollah è in una posizione simile. Quello che ci si può aspettare è una serie di episodi di terrorismo. Israele ha dimostrato di avere le capacità di contenere e neutralizzare questa minaccia in modo efficace”.
All’Aipac si aspettano da Obama una prova più convincente di quella dell’anno scorso, quando ha lasciato amareggiati gli astanti per quel riferimento sgradito ai confini del 1967 e quest’anno il compito degli speechwriter del presidente è ancora più delicato. Fino a che punto potrà spingersi pubblicamente sull’Iran? “Sarei molto, molto sorpreso se andasse oltre il livello di ‘ogni opzione è sul tavolo’, che ormai è il gradino più alto al quale l’Amministrazione accetta di salire in termini retorici. Qualche specifica dovrà fornirla, ma bisogna tenere presente che quando parla all’Aipac il presidente parla al Congresso, e cerca di compiacere i suoi umori”.
Eisenstadt crede che le sanzioni non abbiano ancora mostrato la loro vera forza, crede nella deterrenza e nell’isolamento del regime iraniano, ma da tempo non crede più nella via diplomatica per risolvere il conflitto. “Siamo vicini al momento della verità e il rischio che vedo è che non sia davvero un momento della verità, perché magari l’azione arriverà troppo tardi, quando le installazioni degli iraniani non saranno più attaccabili in modo efficace, oppure quando sarà chiaro che il regime ha il potenziale per armare una bomba. Non mi metto nel gioco delle date, dei mesi o anni che mancano agli ayatollah per avere l’atomica. Semplicemente dico che hanno fatto troppa strada per tornare indietro adesso”.
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