Sottozero tituli

Maurizio Crippa

Due uomini si abbracciano in un parcheggio sotterraneo, al buio, appoggiati al muro. Singhiozzano come disperati, il più basso, forse il più anziano, una mano che accarezza mentre l’altra resta serrata in tasca, sembra consolare lo spilungone; si staccano, poi tornano indietro, si abbracciano ancora. Come in un film di Almodóvar. Sembra un film di Almodóvar. Sono José Mourinho e Marco Materazzi, è la notte del 22 maggio 2010, la notte di Madrid.

    “Questa Inter è come un carro armato a vele spiegate” (Spillo Altobelli)

    Due uomini si abbracciano in un parcheggio sotterraneo, al buio, appoggiati al muro. Singhiozzano come disperati, il più basso, forse il più anziano, una mano che accarezza mentre l’altra resta serrata in tasca, sembra consolare lo spilungone; si staccano, poi tornano indietro, si abbracciano ancora. Come in un film di Almodóvar. Sembra un film di Almodóvar. Sono José Mourinho e Marco Materazzi, è la notte del 22 maggio 2010, la notte di Madrid.

    C’è qualcosa che non funziona, che non quadra, se l’immagine più forte, l’icona indelebile della notte del Triplete, al netto di Capitan Zanetti che s’infila in testa la Coppa dalle grandi orecchie, non sono le braccia al cielo di Milito o le feste al Bernabeu, ma due uomini che piangono abbracciati nel buio di un parcheggio, in un film di Almodóvar. Si piange per un brusco, lungo addio. Ma non basta. Perché piangevano, allora?
    Perché avevano già capito che era finita. Che quella squadra miracolosa, perfetta, quella macchina mentale applicata al gioco del calcio, quel fascio di forza magnetica in cui anche Eto’o veniva con naturalezza risucchiato a fare il terzino, quella squadra forgiata in due anni al fulmicotone, di gioie e di polemiche sublimi da José Mourinho, il Filosofo di Setúbal che aveva ribaltato il calcio italiano, era arrivata al trionfo irripetibile e dunque al passo fatale dell’addio.

    Come abbia poi fatto l’Internazionale FC di Milano a distruggere tutto questo nel giro di nemmeno due anni, come faccia oggi a ritrovarsi al punto più basso della sua storia recente, cinque sconfitte consecutive e un pareggio in campionato, una sconfitta in Coppa Italia e una in Champions a Marsiglia, dove Gad Lerner era andato “sospinto dal tifo nerazzurro e dalla voglia di bouillabaisse”, una stagione con undici partite vinte e undici perse, 34 gol fatti e 34 subiti, sesta difesa più sforacchiata del campionato e uno score da zona retrocessione mai visto in 104 anni di storia, tutto questo è largamente insensato, ma spiegabile.
    Basta mantenere il sangue freddo di fronte agli sfottò di quelli che negli ultimi anni hanno solo speso soldi e preso batoste, e ora non credono ai loro occhi. Soprattutto, bisogna stare lontani da tutti i tic depressivi e psicosomatici che tornano a galla nei tifosi interisti. Gli “interismi” per tutte le stagioni di Beppe Severgnini, quello che l’Inter è “una forma di allenamento alla vita”. Il malaccio di vivere da chansonnier vista San Siro di Roberto Vecchioni: “l’Inter è un caso disperato. Quello che sta succedendo è quasi incomprensibile”. Non può essere questa narrazione maniaco-depressiva, dunque vagamente consolatoria, a spiegare quest’Inter tornata perdente, in caduta verticale. Per capire, ci vorrebbe qualcuno capace di scavare e ancora scavare in questa Storia (in)naturale della distruzione – per rubare un titolo al grande esploratore di rovine W. G. Sebald – che l’Inter di Massimo Moratti sta riuscendo nell’impresa di regalare a se stessa.

    Scavare, tocca iniziare in un parcheggio buio di Madrid. Come ha scritto Sandro Modeo nel suo fondamentale saggio mourinhiano (L’alieno Mourinho, Isbn), per l’Inter di Moratti vincere con Mou è stato qualcosa di più, e di diverso, di vincere e basta, come fanno tutte le squadre normali. Massimo Moratti ha passato anni matti e disperatissimi a cercare di far rivivere i fasti della Grande Inter di suo padre. E allo stesso tempo a cercare di scacciarne i fantasmi. Non dev’essere stato facile sedersi ogni domenica in tribuna in compagnia dei convitati di pietra di papà, Facchetti e Mazzola, Corso e Suárez. Spendere tutti quei soldi senza riuscire a esorcizzarli. Poi finalmente ce l’ha fatta, quando ha trovato il suo “Herrera redivivo”. Il suo Mourinho, l’uomo che non solo ha vinto, ma ha scacciato anche i fantasmi. Per il presidente dell’Inter, tutto poteva anche finire lì. Ma per capire il presente non basta capire Moratti (i Moratti). Bisogna fare archeologia, andare a rintracciare i segni dell’anima cupa, la dark side of the moon di una squadra che ha scelto per sé i colori della notte e dell’inquieto, il nero e il blu, come in un incubo stellato di Van Gogh: “Nascerà qui al ristorante l’Orologio, ritrovo di artisti, e sarà per sempre una squadra di grande talento. Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”. O per la quale, per meglio dire, il Fato del calcio ha scelto i colori della notte, del subconscio e dell’indecifrabile: se è vera la leggenda per cui il pittore futurista Giorgio Muggiani quella notte dipinse lo stemma dell’Inter con quei colori anche perché erano gli unici disponibili sulla sua tavolozza.

    Oltre all’inconscio ci sono i danè: vulgaris la gestione economica. Dopo il Triplete, si dice, al presidente gli ha preso la mania di risparmiare. E per uno spendaccione impenitente è come ribaltare il metabolismo, trasformarsi da divoratore di filetti al sangue in vegano. La questione dei danè è molto concreta: l’oro nero di famiglia scorre di meno. Il 28 febbraio scorso la Saras, la petrolifera dei Moratti, ha archiviato il quarto trimestre del 2011 “con un utile netto adjusted di 10,3 milioni, rispetto a una perdita di 3,5 milioni di un anno prima”. Nel 2011 i ricavi sono aumentati del 28 per cento, ma l’anno si è chiuso con una perdita netta adjusted di 18,5 milioni, in miglioramento rispetto al rosso di 43,9 milioni registrato del 2010 (fonte Reuters). A penalizzare il gruppo, spiegano gli esperti, ci sono le tensioni geopolitiche, e se l’embargo sull’Iran dovesse diventare effettivo, per Saras, che utilizza circa il 10 per cento del greggio iraniano, saranno altri problemi. Le cose sembrano migliorare, se nel 2009 avevano perso 54,5 milioni, ma i Moratti si stanno guardando attorno, in Russia o in Azerbaijan, alla ricerca di nuovi partner o acquirenti. Comunque vada, il business della raffinazione è in difficoltà e di pompare milioni in perdita secca nel pallone non è più il caso.
    La questione dei danè ha anche un aspetto più profondo, diciamo filosofico: si chiama fairplay finanziario. E’ il dannato marchingegno punitivo e merkeliano che la Uefa di quel piccolo Sarkozy che è Michel Platini ha escogitato, pensando di fare un gran bene al calcio. A metà ottobre il Manifesto, sempre controintuitivo anche quando parla di calcio, ha pubblicato un bell’articolo di Luigi Cavallaro con un titolo che non poteva sfuggire a convinti sviluppisti krugmaniani come noi: “Il declino dell’Inter post Mourinho spiegato attraverso il falso mito del fairplay finanziario”. Cavallaro denunciava le folli strategie decliniste dell’Inter post Triplete, basate su tagli alla spesa e conseguenti rischi depressivi sul fatturato (se l’anno prossimo l’Inter fosse esclusa dall’Europa, avrebbe già bruciato i vantaggi economici della dolorosa vendita di Eto’o), come frutto dello “stolido principio della ‘finanza sana’ che ha obnubilato a tal punto le menti della nostra generazione da insinuarsi perfino nell’ultima ‘rappresentazione sacra’ del nostro tempo, ossia il calcio”. Secondo la regola Uefa le squadre potranno spendere solo quanto guadagnano, o al massimo in minimo deficit, peggio che sotto la mannaia dei parametri di Maastricht. E allora tagliare, tagliare, tagliare (giocatori e ingaggi), col risultato di abbassare il tasso tecnico e il rischio di uscire dal giro che conta, dove vince chi può spendere di più o se ne frega allegramente della Maastricht del calcio. Non è che Moratti si sia davvero innamorato del nuovo credo risparmioso, è solo un buon paravento politicamente corretto dietro cui nascondere le magagne del bilancio Saras. Il vero problema è che, da psicologo qual è, ne ha introiettato il pessimismo declinista. Scrive Cavallaro: “Il declino dell’Inter nei quindici mesi successivi alla vittoria in Champions League illustra al meglio questa tendenza, affatto analoga a quella che Keynes pronosticava per le società industriali avanzate che fossero cadute preda della sindrome del bilancio in pareggio”. Per farla corta: risparmio o teoria depressiva, gli hanno detto di non buttare più soldi nel giocattolo di famiglia, soprattutto ora che anche suo fratello Gianmarco ha smesso di buttarne per il giocattolo di sua moglie Letizia, la poltrona del sindaco di Milano.
    Così l’Inter sazia e depressa, invece di programmare come crescere e svilupparsi, ha dismesso. Punto. Una cazzata che in verità fece anche il Milan, quando dopo l’ultima Champions vinta avrebbe dovuto innalzare a Milanello un monumento ai suoi fenomenali vecchietti, come quello dei marine di Iwo Jima, e cominciare tutto da capo. Invece li ha tenuti a immalinconirsi e a immalinconirci, a vedere un grande come Maldini scricchiolare sulle ginocchia e farsi scherzare da ogni brocco ventenne ma di buoni garretti, esattamente come capita oggi agli intoccabili eroi interisti, a Cambiasso e Zanetti, a Lucio. Ma in quel momento il Cav. pensava ad altri polpacci e rotondità, per anni il Milan ha comprato rottami o cartoni animati come Ronaldinho. Poi, beati loro, hanno capito che non funzionava. Il disastro, per i cugini di sponda Bauscia, quelli che adesso sono allo sprofondo, è che non è poi vero che la società non abbia speso: è che in due anni ha comprato una quindicina di giocatori, alcuni autentici bidoni (l’oggetto misterioso Jonathan e Ricardo Álvarez detto Alvarez Vitali), alcuni giocattoli rotti (Forlán) e un numero imprecisato di giovani di probabile talento, ma in piena crisi regressivo-psicoanalitica (Ranocchia). Una bella mano di milioni spesi, ma dei nuovi nessuno – manco il Pazzo – è stato all’altezza di diventare titolare. Solo a far da panca per i vecchi e sempre più azzoppati leoni. Tolto forse Yuto Nagatomo, “Nagatomico” per i tifosi: ma il piccolo samurai, in fondo, è solo un perfetto caso di serendipity morattiana applicata al calciomercato. Una squadra con tredici ultratrentenni e quasi tutti possibili titolari, si può pretendere che corra ancora? In tutto questo, purtroppo, c’è del metodo. Quasi per punirsi di aver avuto il più bravo del mondo, Moratti ha scelto in due anni quattro allenatori improbabili per quattro progetti di squadra altrettanto improbabili, avendo cura di scombinarli come in un cubo di Rubik impazzito. E soprattutto ha cacciato in malo modo l’unico uomo che, con Roberto Mancini prima e con Mourinho poi, aveva fatto la squadra e il mercato: Lele Oriali. Una vita da mediano, a spomparsi i polmoni in maglia nerazzurra, per poi finire immolato sull’altare di Marco Branca, per i disperati tifosi ormai Brancaleone, l’uomo degli acquisti sbagliati anche più delle sue sbagliatissime pochette.

    Alla fine, qualche mese fa, sembrava che l’Inter avesse messo la testa a posto. In panchina era arrivato Claudio Ranieri, il saggio aggiustatore del Testaccio, l’anti-Mourinho per eccellenza: un po’ come se Veltroni prendesse Vendola a fargli da addetto stampa, ma tant’è. Ranieri è un buon tecnico dall’aria modesta: per un po’ di settimane ha abbassato lo spread, ha guidato una rimonta non entusiasmante, ma realista. Poi è arrivato il mercato, e quando si apre il mercato all’Inter è come se si aprisse il vaso di Pandora, perdono la trebisonda. Il saggio aggiustatore Ranieri, reduce dal primo derby vinto dopo due anni di dolori, non ha fatto in tempo a dire: “Per me l’uomo chiave e incedibile è Thiago Motta, mentre in questo momento inserire in squadra Sneijder sarà un problema”. Detto fatto, Motta è finito dritto al Paris St. Germain, e il talentuosissimo ma bizzoso Wesley è diventato un problema geofisico insolubile, il punto di sbilanciamento di ogni possibile equilibrio tattico. Partito Thiago Motta, l’Inter ha collezionato solo sconfitte, e dopo qualche mese alla corte dell’Inter anche il vecchio saggio testaccino ha perso la brocca. Come chiamare tutto questo, se non masochismo?
    Ogni volta che le cose vanno male (era un po’ che non accadeva, ma i tifosi interisti dimenticano in fretta), il primo a finire nel mirino è il buon Massimo Moratti. C’è chi ne chiede pure la testa, ora che non gli si può più chiedere il portafogli. In verità, se un giorno i Moratti se ne andassero davvero – e la stessa cosa, a parti molto rovesciate, vale per i Berlusconi e il Milan – sarebbe una gran perdita, per Milano e non solo. Sarebbe la fine definitiva del calcio dei grandi patron – il nipote dell’Avvocato si comporta come il padrone delle ferriere, ma non ha più le ferriere – quelli che hanno garantito l’identificazione squadra-città-famiglia. L’Inter di Massimo Moratti, con la sua vena di smisurata follia, è una parte dell’identità milanese. E l’Inter da 50 anni è la squadra dei Moratti, anche quando non lo è stata.

    Soprattutto è la squadra di una parte di città. Pazzotica, buonista, sostenitrice di Gino Strada, è l’Inter in cui Gad Lerner adora “la società multietnica denominata non a caso Internazionale Football Club”, contrapposta al Milan berlusconiano, all’immagine del calcio spettacolo, della televisione. Del resto, su questa immagine Moratti ha investito quasi quanto sui giocatori. Nel 2006-2007, dopo il lavacro di Calciopoli e lo “scudetto degli onesti”, l’Inter lanciò una campagna parossisticamente identitaria intitolata “Iosonointerista”. E per “esaltare l’orgoglio e lo spirito di coesione” democratico tra divi e tifoseria popolare vennero coinvolti tutti i testimonial della tribuna radical-vip interista: Lella Costa, Alessandro Profumo, Gianni Riotta, Gabriele Salvatores, Roberto Vecchioni: “Io sono interista e vado in giro a testa alta. E tu?”. Manco fosse la campagna tesseramento del Pd di Bersani: “Grandi e piccoli, famosi e sconosciuti, donne e uomini, italiani e stranieri: un popolo, una famiglia, una storia con tante storie. Io sono interista”.

    Questa Milano morattiana, con le sue bellurie e la sua buona coscienza velleitaria ha anche la sua parte di colpa, almeno ideale, nella storia naturale della distruzione interista. La celebrazione dell’individualismo anarchico – la vittoria non è mai programmazione e lavoro, dipende sempre dall’ultimo campione, meglio ancora se è quello che deve ancora arrivare; il vittimismo estetizzante – si perde sempre per colpa di qualcun altro; la presunzione di diversità – la squadra Internazionale, “perché noi siamo fratelli del mondo”, l’onestà – profumano della vera grande ambizione che l’Inter dei Moratti ha sempre cullato, senza mai riuscire a perseguire: quella di essere “més que un club”, più che soltanto una squadra di calcio, a immagine e somiglianza del Barcellona. Sogno sempre frustrato, a partire dalle fondamenta. Il caso dello stadio di proprietà, ad esempio: da sempre il sogno di costruirlo si schianta su una montagna di inconcludenza. Due anni fa sembrava fosse pronto il progetto fighissimo di Stefano Boeri, archistar arci-interista, che ha passato gli ultimi anni a immaginare il suo Bosco Verticale e lo stadio della sua squadra. Il primo è quasi pronto, il secondo è rimasto al palo, come la sua candidatura a sindaco, come la sua candidatura ad assessore per l’Expo. Un’inconcludenza davvero molto interista. Che fa il paio con la familiare conduzione anarco-capitalista della società. Dove l’incapacità di portare avanti progetti coerenti va di pari passo col decisionismo assoluto, e il buonismo del presidente-padre con una lunga tradizione di calciatori indisciplinati. Tutto questo basta a spiegare lo sprofondo abissale cominciato, simbolicamente, proprio da una notte folle in Europa, quella della sconfitta disastrosa con lo Schalke 04?

    Cosa ci sia al termine della notte, è difficile prevedere. Qualche anima razionale, in realtà, un’idea ce l’avrebbe: se sei costretto al downsizing e al risparmio, se sei giocoforza fuori dal giro delle grandi, scegli un giovane allenatore di talento, giovani calciatori selezionati magari non da un ubriaco ma da uno staff tecnico all’altezza e metti su il tuo piccolo modello Arsenal, o Udinese che dir si voglia. Poi porta pazienza. Ma bisogna fare i conti con l’irrazionale anima interista e con le ubbie del suo legittimo presidente. E infatti i giornali di questi giorni ricamano attorno alla nuova voglia matta di Moratti, Pep Guardiola, il coach del Barcellona che ha vinto tutto. Noi non ci crediamo. Anche se l’uomo sarebbe morattianamente perfetto: un altro “alieno” rispetto al calcio italiano, educato e poliglotta, che veste bei cappotti e belle cravatte strette, visita mostre e legge libri impegnati. L’unico problema è che prima di ingaggiare Guardiola, bisognerebbe essere il Barcellona. Che è innanzitutto un sistema mentale, culturale, sportivo che in cento anni di storia ha forgiato se stesso per essere “més que un club”, e poi ha trascorso gli ultimi quaranta a dissodare, arare, seminare e far crescere un innesto di calcio olandese sotto il sole di Catalogna. Ci vuole pazienza, e poi forse ci vorrebbero una città-stato invece che una semplice città, e una lingua comune col suo orgoglio, e un Palau de la Generalitat al posto di un Formigone a sostenere le grandi ambizioni. Ma forse basterà Pep Guardiola, e in fondo la notte porta sempre consiglio. Ah, dimenticavo: Pazza Inter amala!

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"