Sparizioni e città stato, benvenuti nella Libia del dopo Gheddafi
Non possiamo far rivivere chi è morto, ma siamo in grado di spedirvi da lui” è l’ultimo slogan dei rivoluzionari libici rivolto ai “verdi” di Tripoli (i fedeli del vecchio regime), se non si adattano al nuovo corso. Lo racconta sorridendo Samir, medico libico con la mamma di origine italiana, che ha partecipato alla rivolta. “Lui” è il colonnello che per 42 anni ha governato la Libia come padre e padrone. Un anno dopo l’inizio della fine del regime, la capitale libica è in mano a decine di milizie (almeno 250 nel paese).
Non possiamo far rivivere chi è morto, ma siamo in grado di spedirvi da lui” è l’ultimo slogan dei rivoluzionari libici rivolto ai “verdi” di Tripoli (i fedeli del vecchio regime), se non si adattano al nuovo corso. Lo racconta sorridendo Samir, medico libico con la mamma di origine italiana, che ha partecipato alla rivolta. “Lui” è il colonnello che per 42 anni ha governato la Libia come padre e padrone. Un anno dopo l’inizio della fine del regime, la capitale libica è in mano a decine di milizie (almeno 250 nel paese). Fra le più forti ci sono quelle di Zintan che controllano l’aeroporto e la strada verso il centro con un migliaio di uomini. All’interno della zona costiera di Tripoli, verso est, comandano i miliziani di Misurata. A macchia di leopardo, divisi nei quartieri roccaforte della rivoluzione come Fashlun e Suk al Juma, controllano il territorio le milizie di Tripoli. Il governo transitorio è la forza più debole sia dal punto di vista militare che politico. I poliziotti in servizio non hanno alcun potere. I miliziani fanno così ciò che vogliono, compresi rapimenti spacciati per arresti ed espropri giustificati da fantasiosi sospetti. Quasi ogni notte i rivoluzionari si sparano fra loro, anche se i botti di armi pesanti sono rari. Il problema è che nella giungla delle milizie hanno trovato rifugio bande di criminali, che non prendono ordini.
Il terrore di chi andava in piazza per Gheddafi, anche se non coinvolto nella repressione del regime, è sparire a un posto di blocco. Samira è un nome di fantasia, adottato per evitare rappresaglie, di una professionista libica che avevamo conosciuto ai tempi del colonnello. Un suo stretto parente era arruolato nei livelli medi della sicurezza. Non risulta che abbia compiuto atrocità e tantomeno che fosse ricercato, come ha ammesso lo stesso governo transitorio. “Il 18 febbraio era in macchina lungo la strada dell’aeroporto con al volante un amico che fa parte dei towhar (i rivoluzionari, nda)”, racconta Samira al Foglio. “L’hanno fermato al primo ponte verso Tripoli, a un posto di blocco di una banda di Zintane armata fino ai denti. Uno di loro aveva un passamontagna nero per non farsi riconoscere”, prosegue Samira. Il documento del Comitato della rivoluzione del 17 febbraio dell’amico non è servito. Prima hanno preso lui e poi l’ex gheddafiano, davanti alla moglie e ai figli piccoli. La signora si è recata all’aeroporto dal comandante della milizia, vanamente. Solo tempo dopo la famiglia ha individuato il capobanda responsabile della sparizione, che vive in una villa con i rubinetti d’oro sequestrata a una membro del regime. Il boss ha ribadito con arroganza: “Non mi interessa se era o meno sulla lista dei ricercati. Lo volevo io e basta”. Era chiaro che i “rivoluzionari” volevano un riscatto. Gli stessi towhar hanno ammesso che per alcuni pezzi grossi della sicurezza di Gheddafi catturati sono stati chiesti alle rispettive famiglie 3 milioni di dinari (oltre 1 milione e mezzo di euro). Per i “farisa”, le prede più piccole, bastava molto meno. “La moglie del mio parente era pronta a tutto – spiega Samira – Qualche giorno dopo il rapimento i sequestratori l’hanno chiamata al telefono forse dandole la speranza di liberare il marito. Lei è andata verso l’aeroporto e non l’abbiamo più rivista”.
Nessuno sa con certezza se gli arresti arbitrari a Tripoli siano decine o centinaia, ma al momento in Libia i prigionieri risultano poco meno di diecimila. Molti sono detenuti in una sessantina di carceri illegali e in alcuni casi segrete, dove non mancano vessazioni e torture. Per non parlare di Tawarga, la cittadina di quarantamila anime vicino a Misurata cancellata dalla carta geografica. Una pulizia etnica degli abitanti di pelle nera accusati degli episodi più brutali dell’assedio della terza città della Libia per conto di Gheddafi. Soprattutto con il buio, come abbiamo visto al primo posto di blocco davanti all’aeroporto, le milizie fermano chiunque vogliono con qualsiasi pretesto. Oltre all’affare dei riscatti, alcune bande di miliziani sequestrano le macchine di chi non gli va a genio, in particolare se sono nuove e di marca. “Il sistema è sempre lo stesso – ci raccontano – Ti chiedono di scendere perché la targa della tua auto è stata segnalata come sospetta. E poi si portano via l’auto per supposti controlli”. Gli stessi seguaci della rivolta schifati dai soprusi raccontano di giovani donne violentate di fronte ai genitori che hanno sostenuto Gheddafi. “Dove vai a sporgere denuncia? La polizia di fatto non esiste – spiega Samira – Le malefatte in 40 anni di Gheddafi i nuovi padroni le stanno ripetendo in pochi mesi”.
Le stime più attendibili indicano che la Libia è in mano a circa 150 mila miliziani. Il debole governo transitorio ha lanciato un programma per far scegliere ai towhar l’arruolamento nel futuro esercito o nella sicurezza interna. Esiste anche l’alternativa di tornare alla vita civile e in ogni caso verrà riconosciuta una somma in denaro. La Difesa è controllata da Osama al Juwali (comandante di Zintan), il ministero dell’Interno da Fawzi Abdelali (referente di Misurata). Delle ventiduemila domande iniziali si è arrivati a settecentomila, e stanno aumentando, come se tutti avessero fatto la rivoluzione. L’ultima trovata per il primo anniversario dell’inizio della rivolta, il 17 febbraio, è stato l’annuncio della distribuzione a pioggia di 2.000 dinari a famiglia, oltre a 200 per ogni figlio. Un salasso di 4 miliardi per un bilancio 2012 non ancora approvato. La gente chiede dove vadano a finire i soldi del petrolio che ha ricominciato a pompare un milione e trecentomila barili. Il presidente del Cnt, Abdul Jalil, ex ministro di Gheddafi passato con i ribelli, è in attrito costante con il premier Abdel Rahim al Kib. In questa incertezza, le elezioni che dovrebbero tenersi il 23 giugno sono viste come la panacea a tutti i mali. Isham Abu Ajar è un veterano del Fronte islamico di salvezza nazionale, che si è opposto a Gheddafi per trent’anni. “Non penso che siamo pronti alle elezioni, ma se il voto sarà corretto almeno al 60 per cento, la gente si riterrà soddisfatta”, osserva il comandante di una delle milizie di Tripoli.
Un anno dopo la rivoluzione sono già nati 65 partiti, anche se solo tre o quattro saranno determinanti. Una specie di Alleanza di centro è stata fondata una decina di giorni fa da Mahmoud Jibril, tecnocrate di ispirazione liberale che aveva ricoperto la carica di primo ministro nel governo transitorio. Pur difendendo la sharia, il suo movimento viene considerato “laico” e punta alla separazione fra stato e islam. Molti ex gheddafiani lo voteranno o sono già stati arruolati nei quadri del partito. Jibril potrebbe conquistare fra il 18 e il 25 per cento dei voti. I più forti sono i Fratelli musulmani, che in questi giorni terranno il congresso fondativo del partito. “L’Europa non deve avere paura. Il nostro modello è la Turchia, non l’Iran. Noi pensiamo a una Libia democratica fondata su un regime parlamentare”, ci spiega Abdullatif Karmous, numero due della Fratellanza a Tripoli. Il suo futuro partito sarà “una specie di Democrazia cristiana morotea con la fede islamica”, fa notare un osservatore italiano a Tripoli. I Fratelli musulmani vengono accreditati al 30-35 per cento dei consensi. In campo scenderanno anche i salafiti e qualcuno che cercherà di sparigliare le carte, come il discusso comandante Abdul Hakim Belhaj, che presiede il Consiglio militare di Tripoli. Lo incontriamo nell’aeroporto militare di Mittica, nella capitale. Ex volontario della guerra santa internazionale accusato di essere stato in combutta con al Qaida, ci ha confermato che intende lanciare “un partito fra qualche settimana, su base nazionale e patriottica, per partecipare alle elezioni in concorrenza ai Fratelli musulmani”.
I problemi sono enormi, non solo a Tripoli. Misurata è diventata una città stato, che ha già votato le municipali. Bengasi, dove è iniziata la fine di Gheddafi, si sta ribellando apertamente al governo transitorio e rispunta lo spettro della secessione della Cirenaica, dove si trova l’80 per cento delle risorse energetiche libiche. A Bani Walid sono tornate a sparare le armi della tribù Warfalla, che non sopporta di stare sotto il tallone dei nuovi padroni. All’estremo sud la situazione è più complessa. A Kufra e dintorni sono scoppiati scontri con decine di morti fra clan. Dietro la sanguinosa faida si nasconde il controllo del lucroso traffico di droga, armi e clandestini. I sopravvissuti del deposto regime difficilmente riusciranno a cavalcare l’onda, ma si teme una campagna terroristica di Abdullah al Senoussi, il cognato del colonnello, ex capo dei servizi segreti, ancora libero. Non solo: la figlia Aisha in esilio ad Algeri ha ancora in mano i conti nascosti all’estero, mentre il fratello Saadi lancia proclami bellicosi di rivincita. Nonostante le tante ombre la Libia ha voltato definitivamente pagina, ma deve ancora imboccare la strada giusta. Un recente sondaggio delle Università di Oxford e Bengasi condotto su un campione di duemila libici dimostra che oltre il 40 per cento invoca un leader con il pugno di ferro. Lo stesso comandante Abu Ajar ammette candidamente: “Per la Libia oggi ci vuole un uomo forte”.
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