Nella Pietroburgo putiniana risaltano le crepe del putinismo
Ora che può dire di essere presidente anche all’aria aperta, Vladimir Putin sembra abbastanza sollevato. Ha persino pianto al momento di annunciare l’esito del voto, una di quelle cose che gli uomini si concedono solo quando sono a casa o quando si trovano molto lontani da casa. Pochi mettono in dubbio che il vero padrone del Cremlino sia sempre stato lui, anche negli ultimi quattro anni, con la poltrona del presidente affidata a Dmitri Medevdev.
Ora che può dire di essere presidente anche all’aria aperta, Vladimir Putin sembra abbastanza sollevato. Ha persino pianto al momento di annunciare l’esito del voto, una di quelle cose che gli uomini si concedono solo quando sono a casa o quando si trovano molto lontani da casa. Pochi mettono in dubbio che il vero padrone del Cremlino sia sempre stato lui, anche negli ultimi quattro anni, con la poltrona del presidente affidata a Dmitri Medevdev. Ci sono buone probabilità che il tandem di governo vada avanti ancora per qualche tempo, secondo la regola d’oro del putinismo: la stabilità prima di tutto. Le elezioni di domenica non sono state un plebiscito, ma hanno permesso a Putin di conquistare il terzo mandato senza patemi: ha raccolto il 63 per cento dei voti, molto più del comunista Zyuganov (17 per cento) e del milionario Prokhorov (8 per cento).
Il comitato elettorale dice che cento milioni di russi hanno partecipato al voto. Già ieri, Putin ha annunciato un’inchiesta sulle accuse di brogli che arrivano dall’opposizione: le sue parole non hanno fermato i “miting” e le “azioni di strada”, i cortei organizzati via Twitter a Mosca. Settemila persone si sono riunite nel pomeriggio alla stazione Pushkinskaya per chiedere “elezioni pulite”, e lì sono iniziati gli arresti da parte della polizia.
A Pietroburgo non ci sono così tante proteste, ma anche la vigilia del voto è passata senza slanci. Questa è la città di Putin, di Medvedev e dei loro collaboratori più stretti, eppure i manifesti elettorali sono rimasti fuori dal centro, lungo le strade trafficate che portano alla periferia. Su quelli del presidente, uno slogan piuttosto generico con i colori della bandiera russa ha sostituito la fotografia. Domenica era più facile vedere grosse donne ben coperte in marcia con i figli e le loro sacche enormi verso le piste di hockey, che persone in coda ai seggi elettorali. Pietroburgo pare lontana da quel che succede nella capitale, ma la distanza che separa la politica dalla classe media si vede anche qui, come negli altri centri del paese.
Lo scorso agosto, Valentina Matviyenko ha lasciato l’incarico di governatore e si è trasferita a Mosca. Le carte dicono che ha ricevuto una promozione, dato che Matviyenko è molto vicina a Putin e oggi guida la Duma. Il suo nuovo lavoro, tuttavia, è arrivato dopo proteste massicce contro il governo della città. Un progetto urbanistico che avrebbe cambiato il profilo di Pietroburgo e la cattiva gestione delle strade hanno fatto scendere la popolarità di Matviyenko sino a mettere in pericolo la reputazione di Putin. Ora il suo posto è occupato da Gregori Poltavchenko, ex agente del Kgb, prima esperienza politica, uno di quelli che il New York Times definirebbe “i toccati da Re Mida”, con il presidente russo nelle vesti del re greco.
I “miting” di Mosca non dipendono soltanto del voto di domenica, le manifestazioni contro il Cremlino c’erano anche negli anni passati, ma arrivavano di rado sulla stampa internazionale perché erano troppo magre e terminavano in qualche caserma della milizia. In un certo senso, le proteste di massa degli ultimi mesi possono aiutare Putin e il governo a ripulire l’immagine del paese: i portavoce dei ministeri e delle ambasciate hanno ripetuto per anni che in Russia non c’è l’opposizione, anche a costo di sembrare parecchio lontani dalla vita quotidiana; ora spiegano che il dissenso esiste e nessuno si sogna di impedire le proteste pacifiche, ma alla fine è la maggioranza che decide, come dicono le elezioni di domenica. Avviene lo stesso in ogni grande democrazia. Anche Adam Michnik, l’ex dissidente polacco che dirige il quotidiano Gazeta Wyborcza, mostra più clemenza del solito nei confronti del Cremlino: “La Russia di Putin non è certo quella che immaginava Puskin”, ha scritto nel suo ultimo editoriale, “lui ha i modi del prepotente ma non è un nuovo Stalin”.
Con una decisione a sorpresa, Medvedev ha fatto sapere che ci sarà un riesame per il processo a Mikhail Khodorkovsky, il magnate del petrolio in carcere con l’accusa di curruzione che si è scontrato spesso con il Cremlino. Il vero pensiero del presidente resta il malcontento della classe media, una noia che riguarda alcune migliaia di persone nelle grandi città e sta guastando i rapporti fra Putin e la sua grande creazione, la borghesia russa nata sulle riforme e sulla stabilità economica degli ultimi dodici anni. Un altro cittadino di Pietroburgo, Victor Zaslavski, direbbe che il problema sono le élite. La classe dirigente non è stata eletta dai cittadini, ma viene scelta dall’alto secondo il principio del potere verticale. Questo sistema di reclutamento permette a tecnici e amministratori di rimanere fuori dal controllo dei partiti. Putin ha ancora il 60 per cento del paese, come dicono le elezioni di domenica, ma il putinismo se la passa peggio. Il caso della governatrice Matviyenko e del suo erede Poltavchenko è lì a mostrarlo.
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