Italia “sì” o “no”?
Perché il tormentone Fiat non riguarda solo Marchionne
Dopo le ultime fibrillazioni, Sergio Marchionne torna alla politica dell’appeasement. Ieri, durante la conferenza di apertura del Salone internazionale dell’auto di Ginevra, l’amministratore delegato di Fiat ha detto che “non esiste alcuna minaccia: abbiamo preso un impegno per Pomigliano, confermato quello per Mirafiori con almeno un modello della Fiat e uno della Jeep, gli altri due stabilimenti hanno altri prodotti”.
Dopo le ultime fibrillazioni, Sergio Marchionne torna alla politica dell’appeasement. Ieri, durante la conferenza di apertura del Salone internazionale dell’auto di Ginevra, l’amministratore delegato di Fiat ha detto che “non esiste alcuna minaccia: abbiamo preso un impegno per Pomigliano, confermato quello per Mirafiori con almeno un modello della Fiat e uno della Jeep, gli altri due stabilimenti hanno altri prodotti”. Due giorni fa erano già arrivate le rassicurazioni del ministro per il Lavoro, Elsa Fornero, ma adesso lo stesso ad del Lingotto ha voluto tranquillizzare evitando il rebus nazionale su quale degli stabilimenti Fiat italiani potrebbe eventualmente chiudere se la domanda non solo europea ma anche statunitense non fosse in grado di sostenere la capacità produttiva degli impianti. Una condizione nuova, quest’ultima, espressa da Marchionne nell’intervista sul Corriere della Sera del 24 febbraio; una sorta di rialzo della posta in gioco, dopo aver chiesto e ottenuto (da solo contro quasi tutti, costretto a uscire anche da Confindustria) un ambiente più accogliente in tema di struttura dei costi del lavoro e rapporti industriali. Così l’intervista a Massimo Mucchetti ha rilanciato il dibattito pro o contro Marchionne, con interrogativi che si sommano a quello ormai “classico”: se cioè la Fiat rimarrà o no in Italia. Tema ulteriormente rinfocolato dalle voci riferite un mese fa da Francesco Guerrera, commentatore del Wall Street Journal e firma della Stampa agnelliana, che subito dopo il Forum di Davos scriveva sibillino: “Un capoazienda italiano mi ha detto di recente che, viste le prospettive cupe dell’economia, la sua società – una delle pietre angolari del sistema industriale italiano – sta valutando di spostare la produzione dal paese”. Sibillino fino a un certo punto, quindi.
Giulio Sapelli, storico dell’economia alla Statale di Milano e torinese, non crede alle rassicurazioni di Marchionne e ritiene che “la via è ormai tracciata”. Sapelli è pessimista e dice al Foglio che “la mancata presentazione di Fabbrica Italia”, cioè il piano di investimenti di cui in molti imputano a Marchionne la scarsa chiarezza “non denota una mancanza di strategia ma al contrario una strategia ben precisa, una lenta uscita di Fiat dal mercato italiano. Per Sapelli, “paghiamo il prezzo di mancati investimenti sugli stabilimenti italiani da anni” e la Fiat sconta stravolgimenti geopolitici. “Passa dall’essere incentivata dal governo di Roma a quello di Washington. Ma dagli anni Venti la Fiat era un nesso strategico tra gli Stati Uniti e l’Italia, dal prestito Morgan del 1927 in poi. Invece negli ultimi 20 anni gli Stati Uniti hanno abbandonato l’Europa a se stessa”. Insomma, Sapelli crede nell’ipotesi del disimpegno; prospetta l’insussistenza anche a livello di prodotto. Già, il prodotto: uno dei temi che più riscalda le tifoserie. L’ultimo è stato Carlo De Benedetti qualche giorno fa, a chiedere a Marchionne “cosa fa lui per fare automobili che si vendono” oltre a “cosa può fare per l’Italia”. Sul primo fronte, come ricordava ancora ieri il Wall Street Journal, vendere in Europa è ormai un’impresa. Lo ha scritto anche ieri sul Sole 24 Ore Giuseppe Berta, storico dell’impresa, che “nell’arco tra il 2007 al 2011 le vendite di autovetture sono diminuite di circa 2,5 milioni di unità a livello continentale”. E al Foglio Berta ribadisce che “tutti i produttori sono in crisi: Peugeot ha 7.000 esuberi mascherati perché ci sono le presidenziali in Francia, Renault sfrutta Nissan per delocalizzare in Marocco, e anche Ford, che in madrepatria va benissimo, in Europa non vende”. Per Berta, insomma, non ha senso fare il toto-stabilimenti. Intanto perché “è un dibattito sommario oltre che ideologico”, poi perché “è veramente improbabile che Marchionne chiuda un impianto su cui ha investito 1 miliardo di euro (Pomigliano), e io ho notizia che anche su Grugliasco e su Mirafiori ci siano produzioni e investimenti”. Secondo lo storico della Bocconi, è assurdo oggi stare a scommettere sulla “scelta di Sophie”, come Marchionne ha definito l’ipotesi di chiusura di un impianto. “Perché non avverrà domani” dice. “Bisogna invece pensare all’intero ciclo produttivo, che dovrà cambiare. Già oggi per Renault le operazioni di assemblaggio finale delle vetture contano solo per il 15 per cento del valore aggiunto del prodotto. E’ chiaro che ci sono delle parti del ciclo produttivo che non conviene più fare in Europa.
Eppure, anche l’Economist l’ha scritto, l’industria dell’auto rimane un “simbolo della virilità nazionale”. Di qui il dibattito acceso e i consigli di molti tifosi all’allenatore Marchionne. Un allenatore che “vende dove è possibile vendere, cioè in America, dove Chrysler va alla grande”. Berta conclude ricordando come “fino a qualche anno fa si dicesse che in Italia non veniva nessuno a produrre perché c’era la tentacolare Fiat. Adesso che da almeno 10 anni la Fiat è in decadenza, non si è mai presentato nessuno. Bisogna evidentemente dimostrare che l’Italia può essere un paese attraente per questo tipo di investimento”. Una volta tanto, insomma, non quello che Marchionne può fare per l’Italia ma quello che l’Italia può fare per l’auto.
Marco Ferrante, autore di “Marchionne. L’uomo che comprò la Chrysler” (Mondadori), sorride della metafora calcistica. “Noi trattiamo il prodotto Fiat come se stessimo parlando della Nazionale di calcio. I prodotti portati a Ginevra come la nuova 500 L sono accolti con interesse dagli osservatori. Poi è chiaro che ognuno fa la minestra con gli ingredienti che ha in frigo”. Ma il dibattito italico pro o contro Marchionne non convince neanche Ferrante, che sottolinea come “dobbiamo ricordarci che nel 2004 la Fiat era sull’orlo del commissariamento di stato, e soggetta alla vendita differita a General Motors”, queste insomma le condizioni di partenza. Per il resto, dice, “è significativa l’analisi che Romano Prodi ha fatto sul Messaggero di domenica scorsa: e cioè che la fusione con Chrysler è stata un’operazione che ha permesso di preservare un presidio importante dell’economia italiana; adesso però serve che il governo si metta al lavoro su un progetto di vera politica industriale intorno al settore auto, come hanno fatto gli altri paesi”.
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