Una proposta a Bersani per salvare il Pd dalle pazze primarie italiane

Claudio Cerasa

Caro Pier Luigi Bersani, si sarà certamente accorto che negli ultimi tempi il suo partito ha incontrato qualche lieve difficoltà nell’affrontare alcuni importanti appuntamenti elettorali e naturalmente non dubitiamo affatto che, dopo il pasticcio palermitano, anche lei, come alcuni suoi colleghi, abbia una voglia matta e disperata di capire se c’è un modo per migliorare questo pazzotico strumento delle primarie.

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    Caro Pier Luigi Bersani, si sarà certamente accorto che negli ultimi tempi il suo partito ha incontrato qualche lieve difficoltà nell’affrontare alcuni importanti appuntamenti elettorali e naturalmente non dubitiamo affatto che, dopo il pasticcio palermitano, anche lei, come alcuni suoi colleghi, abbia una voglia matta e disperata di capire se c’è un modo per migliorare questo pazzotico strumento delle primarie. Lei stesso, e gliene va dato atto, ieri ha detto che “non è giusto dire basta con le primarie” e che sarebbe stupido non capire che “oggi non si può mica buttare via uno strumento così importante”. Perfetto, caro segretario.

    Ci permettiamo però di farle notare che se davvero il suo partito vuole fare una “riflessione seria” su questo strumento non può prescindere da quella che evidentemente è la vera anomalia delle nostre primarie. Lei, così come molti suoi colleghi di partito, sostiene che la vera anomalia sia quella di dare la possibilità a più candidati dello stesso partito di presentarsi contemporaneamente all’appuntamento elettorale. E in questo senso il suo ragionamento non fa una piega: perché è ovvio che, all’interno di una consultazione in cui a essere contesa è la leadership di una coalizione, la presenza di più candidati dello stesso partito ha l’effetto, ovvio, di disperdere il potenziale elettorale del medesimo partito. Il problema, però, caro segretario, è che a essere sbagliata è la premessa stessa del suo ragionamento. Ci spieghiamo meglio. Le primarie, così come concepite dal Pd, non funzionano non perché fanno perdere spesso un candidato del suo partito ma perché sono uno strumento che non riesce a svolgere in modo corretto la sua funzione originaria: quello cioè di essere un congegno indispensabile sia a selezionare nuove leadership sia a innescare un meccanismo virtuoso di rinnovamento della classe dirigente. Questo, invece, come è evidente, oggi non accade quasi mai, e come forse avrà notato negli ultimi mesi sempre più spesso capita che il candidato del suo partito venga percepito come fosse l’insostenibile simbolo di una grigia candidatura “d’apparato”. E anche per questo l’idea che per migliorare le primarie si debba delegare proprio all’apparato la scelta del candidato giusto da presentare sembra essere, semmai, un modo per strozzare, e non per migliorare, il meccanismo delle primarie. Dunque, si dirà, che diavolo si fa? Una soluzione, caro segretario, esiste, eccome se esiste. Sappiamo che alcuni dirigenti del suo partito sostengono che per mettere a punto la macchina delle primarie è necessario dare un’occhiata a quello che succede nel paese che ha inventato le primarie (gli Stati Uniti, naturalmente).

    Giusto ieri, per esempio, abbiamo sentito dire al presidente del suo partito che l’altra anomalia delle nostre primarie è il dare la possibilità a tutti di votare ai gazebo senza richiedere una preventiva registrazione, “come succede invece in America”. A parte il fatto che in realtà in moltissimi stati americani (il Michigan, per esempio) alle primarie possono partecipare anche gli elettori che dichiarano al seggio la loro scelta di partito (si chiamano “primarie aperte con dichiarazione pubblica”, così per la cronaca), il punto è che anche in questo caso si tende a dribblare con molta classe il vero problema. Chiunque abbia infatti dato almeno una volta nella vita un’occhiata alle primarie americane non può non essersi accorto che negli Stati Uniti, così come in tutti gli altri paesi del mondo in cui si svolgono consultazioni di questo tipo, le primarie sono sempre di partito, e mai di coalizione. E questo, caro Bersani, succede non soltanto perché in America non esistono né i vari Italy of Values, né i vari Comunist Rifondation, né i vari Left & Freedom; ma perché negli Stati Uniti i democratici e i repubblicani sanno che le primarie non servono a cementificare delle alleanze o a costruire degli apparentamenti ma, molto più banalmente, servono a incoraggiare all’interno dei partiti la ricerca delle leadership più innovative. E allora, caro segretario, eccola la nostra proposta: abolisca le primarie di coalizione, istituisca soltanto quelle di partito, lasci la scrematura delle candidature al primo turno delle elezioni e verifichi al secondo turno, insieme con il resto della sua coalizione, qual è il candidato da andare ad appoggiare. E’ semplice, caro Bersani: e se ci pensa bene in un colpo solo, così, riuscirebbe a evitare nuovi pasticci come quelli di Palermo, riuscirebbe a evitare casi come quelli di Genova (e di Cagliari e di Milano), riuscirebbe a trasformare il Pd in un formidabile motore di innovazione e riuscirebbe a evitare, una volta per tutte, di regalare sempre agli altri l’immagine del partito dell’anti conservazione. Non sarebbe poi così male, non trova caro segretario?

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.