Fiom, lo sciopero del gran rifiuto

Sergio Soave

Dire che lo sciopero e la manifestazione contro la riforma del mercato del lavoro indetti dalla Fiom per domani ha un carattere politico più che sindacale appare persino ovvio. D’altra parte la “piattaforma” illustrata dal segretario Maurizio Landini non tenta neppure di negare questo dato, che merita però di essere analizzato più a fondo.

    Dire che lo sciopero e la manifestazione contro la riforma del mercato del lavoro indetti dalla Fiom per domani ha un carattere politico più che sindacale appare persino ovvio. D’altra parte la “piattaforma” illustrata dal segretario Maurizio Landini non tenta neppure di negare questo dato, che merita però di essere analizzato più a fondo. Com’è noto la trattativa sul mercato del lavoro non è ancora conclusa, le confederazioni hanno in pratica ottenuto che si trattasse di una contrattazione effettiva, anche se il governo continua a darle formalmente il carattere di una pura consultazione, anche grazie all’abilità negoziale della segretaria della Cgil Susanna Camusso. Quindi lo sciopero preventivo della Fiom non è contro la riforma, ancora ignota, ma contro la trattativa. D’altra parte i metalmeccanici della Cgil avevano esplicitamente chiesto alla confederazione di non partecipare agli incontri, in base a quella che si può chiamare una politica del rifiuto.

    Qual è la concezione sindacale cui si ispira questa prassi ostruzionistica? Che cosa offre ai lavoratori metalmeccanici in carne e ossa che la Fiom rappresenta e tutela? Lo schema cui la Fiom fa riferimento è quello del “potere sindacale”, che dovrebbe esercitarsi sul luogo di lavoro in contrapposizione antagonistica alla gerarchia aziendale. In realtà in un’azienda possono coesistere due “poteri” distinti solo se impegnati nella collaborazione e al limite nella cogestione. L’esempio del sindacalismo tedesco, compreso quello della IG Metall, che accettando quando è stato necessario riforme e trasformazioni ha creato le condizioni per reclamare poi i dividendi salariali, va in questa direzione. La volontà, invece, di impiantare nelle aziende un potere permanentemente antagonistico porta all’espulsione, più o meno morbida ma ineluttabile, del sindacato antagonista dalle aziende o, in alternativa, al loro fallimento. E’ quello che è accaduto alla Fiat, già ai tempi di Vittorio Valletta, e ora con Sergio Marchionne.

    Quando la Fiom fu sconfitta nel 1955 alle votazioni per la commissione interna della Fiat, riuscì a ricostruire la sua presenza con una svolta profonda nelle scelte rivendicative e nella tattica sindacale, sotto la guida di Agostino Novella. Invece dopo la sconfitta subita alla Fiat nel 1980, quando la rivolta dei quadri impose la sospensione del blocco delle portinerie, la Fiom ha rifiutato di trarne le conseguenze, ha anzi elaborato una sorta di strategia della rivincita, che è proseguita per trent’anni, fino alla sconfitta più recente nei referendum di Pomigliano e di Mirafiori.
    L’antagonismo è stato sconfitto nelle fabbriche: nella maggior parte dei casi i delegati Fiom applicano le nuove regole contrattuali che l’organizzazione non ha accettato, confluendo nella linea contrattualistica della Cisl, che invece viene accusata nelle piazze di essere un sindacato asservito e subalterno.

    Le vertenze si sono trasferite dalle officine ai tribunali, il che obiettivamente lede lo stesso principio di base dell’autonomia sindacale. La strada alternativa intrapresa è quella di guidare e aggregare l’antagonismo sociale fuori dalle fabbriche, assumendo quindi esplicitamente una valenza e una prospettiva puramente politica. E’ così che si spiega il collegamento con le agitazioni a oltranza dei NoTav, l’adesione alla manifestazione della Fiom di settori dell’intellighenzia che vi vedono uno strumento di destabilizzazione dell’assetto politico e forse istituzionale. I lavoratori in carne e ossa, in questa tattica, hanno una funzione di supporto numerico, ma non possono attendersi alcun vantaggio contrattuale. D’altra parte il riferimento “ideologico” al quale si avvicina sempre più esplicitamente la strategia della Fiom è quello del sindacalismo eversivo dell’inizio del secolo scorso, quello dell’anarco-sindacalismo e del sindacalismo rivoluzionario, che avevano come orizzonte la rivolta sociale e non si curavano affatto di tutelare concretamente il lavoro nelle aziende.

    Può avere successo questa strategia? Non è escluso che, in una fase di crisi acuta e di profondo disagio sociale, possa crearsi una situazione di tipo greco, ma è difficile che anche una diffusione del movimento e dell’agitazione sociale possa condurre alla rinuncia alle politiche di rigore e quindi al dissolvimento del sistema economico europeo.

    Le conseguenze per i lavoratori di un successo del movimento antagonistico, peraltro, sarebbero peggiori di quelle derivanti dal suo fallimento. Il rifiuto delle compatibilità necessarie per elevare la competitività del sistema produttivo aggrava la crisi e porta a un aumento della disoccupazione, com’è accaduto in Spagna e può accadere in Italia. Trasformare la preoccupazione dei lavoratori, del tutto giustificata e razionale, in rabbia irrazionale e distruttiva è un salto di qualità, una scelta che si può definire storica e che si esprime nelle parole d’ordine e nello schieramento che circondano la manifestazione di domani. L’Italia ha già pagato cari altri avanguardismi e i dirigenti della Fiom dovrebbero ricordarsi che invece il loro ruolo è di rispondere a una grande massa di lavoratori.