Mappa elettorale

Le ragioni di Squinzi, la sua agenda, il senso della competizione

Stefano Cingolani

A due settimane dall’investitura, Giorgio Squinzi è in testa nella corsa per la presidenza della Confindustria, distaccando Alberto Bombassei. E’ la prima volta dal 2000, quando duellarono Carlo Callieri e Antonio D’Amato (allora vinse l’imprenditore napoletano contro il manager sostenuto chiaramente da Gianni Agnelli), che i candidati si confrontano apertamente, rinfrescando il complesso rituale che, tra cooptazioni, consultazioni, voti per testa e voti per organizzazione, colloqui con grandi elettori ed ex presidenti, arriva a scegliere la guida del patronat, come lo chiamano in Francia.

    A due settimane dall’investitura, Giorgio Squinzi è in testa nella corsa per la presidenza della Confindustria, distaccando Alberto Bombassei. E’ la prima volta dal 2000, quando duellarono Carlo Callieri e Antonio D’Amato (allora vinse l’imprenditore napoletano contro il manager sostenuto chiaramente da Gianni Agnelli), che i candidati si confrontano apertamente, rinfrescando il complesso rituale che, tra cooptazioni, consultazioni, voti per testa e voti per organizzazione, colloqui con grandi elettori ed ex presidenti, arriva a scegliere la guida del patronat, come lo chiamano in Francia.

    Ieri e l’altro ieri i saggi hanno confessato i dirigenti dell’Assolombarda, azionista di maggioranza in Confindustria e da sempre il luogo in cui si determina la svolta finale. Squinzi, “un chimico geniale” lo definiscono amici e concorrenti, ha accumulato il proprio vantaggio con il silenzio. Certo, gioca a suo favore l’endorsement di Emma Marcegaglia, presidente uscente, ma non ha annunciato con squilli di trombe la sua discesa in campo, non ha scritto manifesti, non ha pubblicato proclami. Nell’intervista concessa a Panorama il 26 gennaio (13 giorni dopo la candidatura ufficiale di Bombassei), si presenta come uomo della mediazione e della continuità, pur non negando, per carità, il necessario rinnovamento: “La Confindustria è perfettibile, migliorabile, razionalizzabile. Per esempio, dovremo evitare inutili sovrapposizioni e ridurre le spese, aumentando invece i servizi per gli associati. Però non ha bisogno di nessuna rifondazione”.
    Rifondazione, ecco la parola stregata attorno alla quale si sono formati i due schieramenti. Sessantanove anni, da 30 alla guida della sua Mapei, gruppo produttore di adesivi e collanti (tra l’altro possiede un prodotto popolare come Vinavil) che oggi fattura 2,1 miliardi di euro con 7.500 dipendenti in 27 paesi, l’ex presidente della Federchimica ha preso di petto Bombassei, 72 anni, titolare della Brembo (azienda produttrice di sistemi frenanti), il quale ha costruito la campagna promettendo proprio una “rifondazione”. 

    In realtà, tra i due ci sono molte similitudini. Fanno parte della stessa generazione, due campioni del quarto capitalismo che quasi dal nulla hanno raggiunto una presenza internazionale. Bombassei è più esperto di associazionismo, è stato a lungo presidente della Federmeccanica e poi vicepresidente di Confindustria con Montezemolo e con Emma Marcegaglia. Ma entrambi sono soprattutto uomini di fabbrica, impegnati a far di tutto, dai conti ai progetti. Solo l’anno scorso la Brembo s’è data un amministratore delegato esterno. La Mapei, invece, cucina tutto in famiglia, almeno finché l’amministratore unico non dovrà scendere a Roma. E’ una preoccupazione in più e la moglie Adriana teme questa rottura con un passato che ha garantito finora tanti successi.

    Su Bombassei pesa l’ombra di Marchionne, ma anche una candidatura che a molti è apparsa zigzagante. Nel maggio scorso aveva deciso di farsi da parte sostenendo apertamente Gianfelice Rocca, insieme a pezzi da novanta come Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni che alla Techint aveva lavorato a lungo. Poi Rocca ha rinunciato e la stessa filiera di sponsor, ai quali si è aggiunto Montezemolo, ha convinto Bombassei a fare il salto. Dopo mesi di cauti sondaggi, ha lanciato la sua candidatura in anteprima sul Corriere della Sera. Attorno a lui si sono schierati i bombardieri dell’informazione che fanno capo in un modo o nell’altro all’asse Fiat-Mediobanca.

    Secondo lo storico Giuseppe Berta, la nomina del presidente è diventata “un referendum su Marchionne”. Bombassei non ha nascosto di voler ricucire lo strappo con l’azienda torinese.  E Marchionne il 21 febbraio si è detto disponibile a rientrare in Confindustria se vince Bombassei (che siede nel consiglio Fiat). Ai suoi nemici non è andata giù. Hanno cominciato a lamentare che la Fiat fa il doppio gioco perché ha lasciato Confindustria, ma non l’Unione industriali di Torino dalla quale si fa ancora rappresentare e in ogni caso, se vuole star fuori sono affari suoi e non degli altri soci. Ognun per sé. Così come nel Triveneto.

    Il nord-est questa volta è rimasto isolato, dimostrando ancora una volta di essere una espressione geografica, che ha fatto la fortuna soprattutto di sociologi e giornalisti. La partita si svolge tutta lungo l’autostrada Milano-Torino, con triangolazioni romane. In Veneto si è presentato Andrea Riello, ma non ha trovato consenso in una imprenditoria iperindividualistica e provinciale, divisa dagli odi locali: Vicenza contro Verona, Treviso contro Venezia, Pordenone contro Trieste e via via scomponendo. L’unico collante diventa l’atavica diffidenza nei confronti di Torino e la nuova retorica contro Roma. Il no alla “rifondazione” ha aggregato resistenze burocratiche, aspirazioni promozionali, ma anche una cultura della mediazione che alcuni hanno vantato come valore dell’associazione imprenditoriale. Luigi Abete, il presidente della concertazione (siglò l’accordo Ciampi nel 1993), uomo che capisce la politica e i suoi umori, non cessa di sottolineare che la società non si è decomposta, come è accaduto invece ai partiti, anche perché non è mai mancata la legittimazione dell’avversario. Operazioni di rottura alla Marchionne, soprattutto in questo momento, possono risultare contraddittorie, in sostanza, con l’opera di risanamento in corso, con il governo Monti, con lo spirito da unità nazionale.

    La questione dell’articolo 18, totem e tabù delle relazioni industriali, così, ha giocato un ruolo importante. Squinzi ha detto che per lui non è un discrimine: “Non la vedo affatto come Bombassei. Io sono per il dialogo con il sindacato, anche in anni difficili come questi. Non ho mai ridotto il personale, né mai chiesto un’ora di cassa integrazione, e non ho un precario fra i miei dipendenti. Da presidente della Federchimica, poi, ho siglato sei contratti nazionali senza un’ora di sciopero. E nell’ultimo abbiamo ottenuto anche la possibilità di derogare ai trattamenti minimi economici in caso di giustificati motivi”.
    “Per forza, non ha a che fare con la Fiom”, replicano i suoi avversari. Il sindacato dei chimici è sempre stato conflittuale e cooperativo insieme, la Cgil non si è mai messa di traverso in modo ideologico, nemmeno quando a guidarla era Sergio Cofferati. “Vorrei tanto essere capace di convincere la Fiat a tornare nella Confindustria – ha dichiarato Squinzi a Panorama – Ma vorrei pure ricordare che nelle relazioni industriali non si deve andare per scontri. Si deve cercare l’accordo. Questo è un paese che ha bisogno di ritrovare la concordia che c’era ai tempi di Palmiro Togliatti e di Alcide De Gasperi”. Dunque, convergenze parallele, anzi grande coalizione?

    Scontato che non sia di sinistra (anche se è il candidato preferito da Susanna Camusso), il patron di Mapei è di destra o di centro? “Hanno detto che sono grande amico di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi, che sto con Comunione e Liberazione e con il Pd – risponde – A me piace descrivermi come un indipendente. E anche se fossi eletto vorrei mantenere la mia libertà di giudizio e dagli schieramenti politici. Non solo, vorrei evitare di trasformarmi in un presidente professionista; punterei a risultati importanti, ma senza perdere il contatto con la mia azienda e con i problemi concreti di ogni giorno. Per intenderci, la presidenza di Montezemolo a me non è piaciuta soprattutto per l’eccesso di attenzione all’immagine, oltre che per la quotazione del Sole 24 Ore”. Proprio il quotidiano della Confindustria è non da oggi il frutto della passione. Punta al vertice Emma Marcegaglia, ma Squinzi fa capire di non aver promesso nulla a nessuno. E la vicepresidenza ad Aurelio Regina? Il capo della Confindustria laziale si è schierato da subito e l’asse di ferro con Roma ha pesato sul piatto della bilancia. Quindi, fanno notare gli addetti ai lavori, in qualche modo è nelle cose; ma niente spartizioni, tanto meno quando i giochi non sono ancora fatti del tutto. Lo stesso Squinzi non ha ancora una squadra strutturata. Ha affidato a Image Building le relazioni pubbliche, lo consiglia Claudio Benedetti di Federchimica che conosce benissimo la macchina confindustriale, e non mancano i buoni uffici degli uomini di Emma.

    Un refrain, nell’agenda di Squinzi, è la lotta alla burocrazia: “Dobbiamo tornare ad attrarre investimenti e qui ci sono troppi ostacoli. Oggi una valutazione d’impatto ambientale richiede anche due o tre anni, contro una media europea di 60-90 giorni”. Liberalizzatore, chiede a Monti di fare di più: “Non si riparte solo con taxi e farmacie. La deburocratizzazione è molto, molto di più. Il governo di Mario Monti sta facendo cose buone. La mia speranza è che regga il consenso, e ne faccia molte altre”. Anche per lui il fisco è un macigno insopportabile e cita l’esempio della propria azienda che nel resto del mondo paga il 34 per cento d’imposte e in Italia il 50. Anche lui vuole l’abolizione dell’Irap e la banda larga (ma non si esprime sulla rete in mano a Telecom, forse anche per questo Bernabè non lo ha appoggiato).
    Nuclearista d’antan, sa che è una battaglia persa, ma mette il costo dell’energia nel mirino (facendo mugugnare Eni ed Enel). Tutti temi che hanno attraversato le presidenze precedenti, anche questo in perfetta continuità. E tuttavia non si conosce un leader se non lo si vede all’opera. Ciò vale anche per il patronat. Quattro anni sono molti, una infinità in questa delicata fase di passaggio in cui l’economia italiana, evitato il meltdown finanziario, è tutt’altro che al sicuro.

    A una Confindustria che ha perduto buona parte della propria allure, anzi della stessa ragion d’essere in un’epoca che alla concertazione ha sostituito la consultazione, spetta un ruolo di moral suasion e di vigilanza in qualche modo parallelo a quello che la Banca d’Italia (anch’essa ormai priva del potere di batter moneta) svolge sulle banche. In sostanza, il presidente deve convincere i suoi pari e associati che è arrivata l’ora di chiedersi non più ciò che il paese può fare per loro (e ha fatto tanto), ma quel che loro possono fare per il paese. E rappresentare al meglio la funzione del capitale.