Operai vil razza dannata

Marianna Rizzini

Il mare di felpe rosse Fiom si muove a chiazze. Scende dall’Esquilino tra vuvuzelas, elmetti di plastica, anziani barbuti, giovani col fazzoletto al collo, tamburi rotanti, catene umane – tutti uomini, pare, poi si vedono le donne, a due a due, sparse – e lascia spazio, in mezzo alla folla, al polipo di gomma (allegoria della finanza globale e dei suoi “pupazzetti”, dice un manifestante in piazza San Giovanni, indicando le figurine penzolanti di Mario Monti e Mario Draghi). Srotola bandiere-scudo pro articolo 18, il mare di felpe rosse cassintegrate e non, e indossa magliette da posto non più fisso.

    Il mare di felpe rosse Fiom si muove a chiazze. Scende dall’Esquilino tra vuvuzelas, elmetti di plastica, anziani barbuti, giovani col fazzoletto al collo, tamburi rotanti, catene umane – tutti uomini, pare, poi si vedono le donne, a due a due, sparse – e lascia spazio, in mezzo alla folla, al polipo di gomma (allegoria della finanza globale e dei suoi “pupazzetti”, dice un manifestante in piazza San Giovanni, indicando le figurine penzolanti di Mario Monti e Mario Draghi). Srotola bandiere-scudo pro articolo 18, il mare di felpe rosse cassintegrate e non, e indossa magliette da posto non più fisso (“Ieri operaio stabile, oggi esubero precario”, dice la signora Rita, leggendo in favore di fotocamera). Sono operai-operai, quelli che sfilano, gente del nord e del sud senza ombra di gauche caviar, senza tavolino a Campo de’ Fiori, anche se una parte della sinistra intellò, da giorni, dà carburante al proprio antimontismo salutando con toni elegiaci il ritorno del conflitto sociale – padroni contro operai, classe operaia che va in paradiso (vedi Massimiliano Fuksas, su MicroMega). In piazza c’è, in infinite varianti, la storia anche un po’ rassegnata dell’ordinario disagio (“Io licenziata, mio figlio licenziato, meno male che mio marito è agricoltore, ma poi lo sai che i soldi delle zucchine a peso d’oro vanno a quelli come Emma Marcegaglia?”, dice l’ex operaia Antonia sul prato di piazza San Giovanni, mentre a Roberto, giovane operaio abruzzese, viene quasi da ridere: “Era meglio quando mio nonno andava in America”). Ma in piazza, dietro alle felpe rosse, c’è anche l’andare oltre la piattaforma sindacal-metalmeccanica, c’è l’incursione nel movimentismo indignato alla Occupy Wall Street. C’è Maurizio Landini superstar mediatica dell’area santoriana che arringa il popolo in nome del caso Fiat.

    C’è Sergio Marchionne che aleggia come diavolo assoluto, in piazza; c’è un antiliberismo che si fa antimontismo e poi “no” generalizzato a un Pd assente per dissociazione dalla liaison Fiom-No Tav. Poi succede che i No Tav presenti al corteo – sparpagliati, sonnacchiosi, a volte in bicicletta, alcuni “solo solidali” da Roma – non facciano la faccia cattiva, anzi, e succede che il No Tav sul palco non dica cose turche, facendo assumere un volto da “ve l’avevo detto” ai pochi ribelli del Pd dissociato, come Pippo Civati e Vincenzo Vita (nei giorni scorsi si erano spesi pro corteo Fiom pure Sergio Cofferati e Furio Colombo), oltre a qualche sparuto militante democratico con bandiera, diventato per via Merulana subito leggenda, manco fosse Calimero (“Ma che hai visto quello del Pd?”, “’ndo sta la bandiera?”). Il nemico numero uno (Marchionne, appunto) è, nel venerdì Fiom, lo stampino di ogni politica carogna: messo in rima e in riga negli slogan, evocato come orrore degli orrori assieme a “Monti e ai banchieri”, infine investito da Landini (“Basta autoritarismi”). Ce n’è anche per Monti e per la Cgil (fischiata in piazza) nel comizio di Landini: “O risposte o sciopero generale”, dice. Volano uova (poche), ma sono studenti quelli lanciano, non operai. Si alzano fumogeni (pochi), ma non c’è traccia di 15 ottobre, nel venerdì Fiom elevato a battesimo della nuova opposizione (qualcuno ci fa un pensierino, vedi Luigi De Magistris). C’è il no preventivo e senza tregua alla politica prossima ventura e alla Elsa Fornero da “tavoli del lavoro”, ma il germe di un possibile “conflitto sociale” è tenuto a fuoco basso, incanalato in Quarto stato che avanza sul palco sotto al coperchio Fiom (tutti schierati in fila, come nel quadro). “E noi che siam di Novara / abbiamo un sogno nel cuore / Fornero a San Vittore”, canta un gruppo in un impeto di goliardia manettara, forse retaggio di altre piazze e d’altri tempi). E’ sinistra lavoratrice rétro, quella che issa bandiera sarda e saluta Fausto Bertinotti come fosse reliquia di un passato felice perso chissà dove e chissà quando (“Fausto, Faustoooo”).

    Gli operai-operai di Bergamo, Teramo, Gioia Tauro, Firenze, Napoli, Ravenna, Reggio Emilia si fermano a ogni taccuino, intervistano a loro volta, vogliono farsi fotografare con il giornalista televisivo intravisto sul marciapiede. Verso il palco, è profluvio di kebab, pizza e j’accuse: “Sai, questi vogliono sostituirci, mettere gente pagata meno”. “Sai, ci chiudono”. “Sai, parlano parlano, ma noi siamo trecento operaie e ci è stato detto: ‘Non c’è futuro per questa azienda’, e il mio futuro, che ci faccio, lo mando al mare?”. Sullo sfondo, nell’appello di MicroMega, negli endorsement del Fatto, nelle parole dell’informale partito Fiom-Servizio Pubblico, si muove una sinistra “di media e di spettacolo” innamorata della tuta blu (Moni Ovadia, Ascanio Celestini, Sabina Guzzanti, Dario Fo, Franca Rame). E in piazza Paolo Flores d’Arcais si lancia contro “quelli che accusano la Fiom di fare politica”: “Vorrei dirlo sommessamente, con i toni sobri che sono di prammatica da quando abbiamo un nuovo governo: questi signori, ogni volta che si stracciano le vesti perché la Fiom fa politica, hanno la faccia come il culo. Non fa forse politica Marchionne? Non fa politica la Confindustria? Non fanno politica i grandi banchieri…? E il partito di Bersani non ha candidato nelle sue liste i Calearo e i Colannino (bella roba, sia detto en passant, per un partito che si dice riformista e forse di sinistra), ritenendo normale che gli imprenditori facciano politica?”. Per via Merulana, intanto, scende un serpentone che non ha il lessico dell’intellighenzia da Palasharp-Teatro Smeraldo che vede sotto la pelle di Monti un berlusconismo-visitor che cova e scalcia. In questo senso il serpentone, nonostante la comune bandiera pro articolo 18, non è gemello di quello giunto a Roma quasi esattamente dieci anni fa (era il 23 marzo del 2002, Sergio Cofferati portava i famosi “tre milioni” al Circo Massimo, e il gotha girotondista-morettiano offuscava in pianta stabile la classe operaia che va in paradiso).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.