“Terroristi”. Così Pechino tenta di liquidare la questione etnica
A rompere il silenzio del governo di Pechino sulle immolazioni dei tibetani nella regione sud-occidentale della Cina ci ha pensato mercoledì Wu Zegang, governatore della regione di Aba, nel Sichuan. Durante una conferenza stampa Wu, che è di etnia tibetana, ha detto: “Alcuni dei suicidi sono stati commessi da monaci che stavano tornando alla vita laicale. Tutti coloro che si sono dati fuoco hanno precedenti penali o erano coinvolti in attività sospette. Hanno una pessima reputazione nella società”.
A rompere il silenzio del governo di Pechino sulle immolazioni dei tibetani nella regione sud-occidentale della Cina ci ha pensato mercoledì Wu Zegang, governatore della regione di Aba, nel Sichuan. Durante una conferenza stampa Wu, che è di etnia tibetana, ha detto: “Alcuni dei suicidi sono stati commessi da monaci che stavano tornando alla vita laicale. Tutti coloro che si sono dati fuoco hanno precedenti penali o erano coinvolti in attività sospette. Hanno una pessima reputazione nella società”.
Inoltre per Wu le immolazioni sono state “evidentemente orchestrate e sostenute” dal Dalai Lama e dai movimenti d’indipendenza del Tibet: “Tutti, prima di darsi fuoco, hanno gridato slogan che mirano a dividere la nostra nazione”. Per il governo cinese “sono terroristi, malati di mente, emarginati”. Al contrario, Pechino in ogni occasione pubblica sottolinea “i grandi sforzi di civilizzazione” che sta compiendo nelle aree tibetane.
Le immolazioni dei monaci nella regione sud-occidentale della Cina stanno diventando un problema serio per il governo di Pechino. Almeno venti persone hanno perso la vita dandosi fuoco nell’ultimo anno – tre negli ultimi sette giorni. Quasi tutti erano monaci tibetani della regione del Sichuan. Il primo a immolarsi nel marzo del 2011 era stato Phuntsog, monaco ventenne del monastero di Kirti. Subito dopo le autorità cinesi avevano rafforzato la propria presenza all’interno della cittadella tibetana e arrestato il fratello e uno zio. Secondo Robert Barnett, direttore del programma di studi tibetani presso la Columbia University, “la Cina è convinta di essere stata molto generosa con i tibetani.
Inoltre considera le proteste un disegno del Dalai Lama e degli esuli per l’indipendenza. In realtà molti tibetani sono sorprendentemente moderati e pragmatici, dunque basterebbe una concessione, anche simbolica, da parte del Partito comunista” per fermare le immolazioni. Per esempio potrebbe sospendere “la rieducazione politica forzata e fermare la campagna di demonizzazione contro il Dalai Lama”, ma anche regolamentare i flussi migratori interni in Tibet come fa con Hong Kong. Poi c’è la questione del fuoco, “purificatore”, dei monaci che bruciano e delle persone che circondano il corpo per impedire alla polizia cinese di intervenire. Barnett spiega che il Dalai Lama, e il buddismo in genere, condanna il suicidio commesso per motivi personali, ma non il sacrificio per una nobile causa.
Fino a pochi anni fa i rifugi dei tibetani esuli erano l’India e il Nepal. Ma la crescente influenza della Cina nel piccolo stato dell’Asia meridionale sta determinando anche la presenza pacifica della minoranza tibetana. Recentemente il primo ministro del Nepal, Baburam Bhattarai, ha attuato un giro di vite sui diritti dei rifugiati proprio mentre il premier cinese Wen Jiabao annunciava la costruzione di una ferrovia di collegamento tra i due paesi e di alcune infrastrutture in Nepal. E non è solo l’etnia tibetana a creare problemi nei palazzi di Pechino. Qualche giorno fa sono morte dodici persone durante i disordini nello Xinjiang, una vasta regione della Cina nord-occidentale ricca di petrolio e gas naturale e abitata da circa nove milioni di uiguri, minoranza cinese di religione musulmana. Secondo la versione dell’agenzia di stampa cinese Xinhua, alcuni “terroristi islamici” avevano aperto il fuoco in una strada commerciale della città Yecheng. Secondo il portavoce del Congresso mondiale degli uiguri, Dilxat Raxit, la polizia avrebbe aperto il fuoco contro una protesta pacifica degli uiguri, “scoppiata perché i residenti locali non possono più sopportare la repressione sistematica cinese”. Subito dopo, le parole chiave della protesta, come Xinjiang e Yecheng, sono state oscurate su Weibo (il Twitter cinese) e sui motori di ricerca di tutta la rete internet.
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