Due piani per cacciare Assad
Ci sono due modelli di intervento internazionale per cacciare Bashar el Assad. Uno è quello “come il Qatar in Libia”. Fare leva da fuori sull’insurrezione interna dei siriani. E se questa leva è ancora troppo debole e non riesce a sollevare il regime dal suo posto, occorre irrobustirla, farla crescere fino a misure gigantesche. E’ stato fatto in Libia negli otto mesi tra la rivolta iniziale di Bengasi e la fuga disperata di Muammar Gheddafi da Sirte.
Ci sono due modelli di intervento internazionale per cacciare Bashar el Assad. Uno è quello “come il Qatar in Libia”. Fare leva da fuori sull’insurrezione interna dei siriani. E se questa leva è ancora troppo debole e non riesce a sollevare il regime dal suo posto, occorre irrobustirla, farla crescere fino a misure gigantesche. E’ stato fatto in Libia negli otto mesi tra la rivolta iniziale di Bengasi e la fuga disperata di Muammar Gheddafi da Sirte. Di questo modello Libia fanno parte i carichi di armi leggere arrivati via charter dall’Egitto, i missili controcarro – i temibili Milan francesi – le squadre speciali di istruttori americani, inglesi, francesi e italiani che addestravano i libici senza esperienza militare (perché l’esercito di Tripoli è rimasto di lato senza intervenire), i commando e i blindati dal Qatar che si sono gettati in combattimento fino ai cancelli del compound di Tripoli, i finanziamenti quasi illimitati, il fondo di garanzia acceso anche quello dal Qatar per convincere i paesi Nato con le economie gracili a protrarre la guerra fino a quando fosse necessario – “fate decollare i caccia, ché se dura più del previsto i soldi ce li mettiamo noi”, la no fly zone e dopo i bombardamenti, prima in chiave puramente difensiva e poi – con sempre maggiore evidenza – per stanare la famiglia Gheddafi, fino all’epilogo, quando un drone americano ha bloccato il convoglio del colonnello in fuga da Sirte e lo ha lasciato in mano ai ribelli impazziti dalla voglia di vendetta (e la vista di Gheddafi sanguinante che ammoniva, haram aleikum, state peccando, mentre era trascinato come un pupazzo dagli adolescenti delle brigate ribelli ha convinto Mosca di essere stata giocata, avere sbagliato ad avere concesso il suo consenso alla risoluzione Onu, e le conseguenze si sono viste quando è arrivato il Consiglio di sicurezza sulla Siria: veto russo).
Non che questo modello libico sia replicabile in Siria, ma la bozza è quella, con ovvie differenze. Non ci sarebbe la no fly zone, perché “le difese aeree della Siria sono cinque volte più pericolose di quanto lo fossero quelle libiche”, come ha testimoniato mercoledì davanti al Congresso il capo di stato maggiore americano Martin Dempsey, ma ci sarebbe il flusso di armi e uomini per trasformare i disertori dell’Esercito libero di Siria in una forza credibile.
La Libia ha appena promesso cento milioni di dollari da destinare ai ribelli, e la maggioranza dei non molti volontari stranieri che stanno andando ad aiutare gli insorti contro Assad sarebbero libici, “durante la difesa perdente del quartiere di Bab al Amr a Homs ne sono caduti cinque”, dice l’opposizione. Il ministro degli Esteri saudita ha detto che armare i ribelli perché possano proteggersi è “un’idea eccellente”, anche se la Lega araba ha frenato. Secondo al Arabiya, le armi starebbero già arrivando, anche se l’unico indicatore affidabile di cosa accade realmente è il prezzo delle armi al mercato nero nei paesi confinanti, e per ora è così alto che il traffico dev’essere ben poca cosa. Il Qatar ha proposto una forza di peacekeeping, che finirebbe per giocare a tutto vantaggio dei ribelli, impendendo alle truppe di Assad la libertà di circolazione che permette loro di muoversi per il paese e di concentrarsi dove serve, schiacciando le rivolte nelle aree che alzano la testa (prima Homs, ora Deraa nel sud e poi a stretto giro sarà Idlib, nel nord). Circolano rumors su squadre speciali inglesi, francesi, turche e del Qatar già presenti sul campo, dalla parte dei ribelli. A pompare la notizia è soprattutto Russia Today, il canale all news russo in lingua inglese che vuole dimostrare che anche in Siria, come in Libia, ci sono inconfessabili manovre egemoniche occidentali. Tre giorni fa titolava su “120 militari francesi catturati nell’ospedale di Homs” dalle truppe del governo. Altre fonti meno fragorose fissano il numero dei francesi a 13 e parlano anche di agenti turchi arrestati.
Questo modello di intervento con armi e infiltrati però è troppo poco sottile e apre la strada a conseguenze troppo brutali, una guerra civile tignosa e prolungata fra minoranze religiose, pronta a tracimare nel vicino Libano (come spiega Rolla Scolari da Beirut in questa pagina). Una guerriglia armata di mitra contro le divisioni corazzate meglio equipaggiate del medio oriente. Così, nelle analisi dei commentatori inglesi e americani il termine che ricorre con più frequenza è “bloodbath”, bagno di sangue. Per non smarrirsi in congetture sulla presenza degli estremisti di al Qaida, sempre pronti a inserirsi fra i tempi lunghi della diplomazia internazionale: mentre quelli aspettano, noi arriviamo dall’Iraq, agiamo, annunciamo la nascita di almeno un fronte inequivocabilmente jihadista, mandiamo autobomba contro i palazzi governativi, produciamo video di propaganda.
L’altro modello d’azione per cacciare Assad è più sottile, penetrante. Si tratta di convincere l’establishment siriano che quasi tutto può rimanere così come ora, a patto che gli Assad siano estromessi dal potere. Per brevità e con le dovute differenze potrebbe essere definito una via “all’egiziana”. Al Cairo gli americani hanno lasciato che fossero il capo dei servizi segreti, Omar Suleiman (che ieri ha rinunciato a candidarsi alle presidenziali del 24 maggio), e gli alti generali comandanti da Mohamed Hussein Tantawi ad abbandonare il presidente Hosni Mubarak e a evitare così un bagno di sangue in piazza Tahrir. Altri analisti fanno l’esempio della caduta di Baghdad nel 2003: il superaccordo con i generali iracheni che lasciarono Saddam Hussein da solo e risparmiarono agli americani la temuta battaglia urbana per prendere la capitale e i suoi sette milioni di abitanti, già circondati dalle nuvole di fumo del greggio in fiamme. La battaglia non ci fu. Certo che parlare di modello Baghdad non ispira sentimenti positivi.
Qua si entra nel campo dei rumors. Sarebbe in corso una sistematica operazione di aggancio dei generali siriani, con tutti i mezzi possibili, dalle chiamate a sorpresa sui telefonini personali, alle lettere fatte trovare nelle case fino all’intercessione discreta – nel caso degli ufficiali cristiani – di uomini di chiesa siriani, che in questo caso sono diventati messaggeri e quasi mediatori. Basterebbe anche soltanto un generale con 400 carri armati a montare un golpe efficace nella capitale Damasco.
Gli elementi certi sono questi. L’intelligence americana, secondo un articolo del Washington Post di ieri, tiene d’occhio gli spostamenti di denaro fatti dai membri dell’establishment verso il Libano e Dubai, per capire chi sono gli anelli deboli. Per ora, dicono, “il senso che ne ricaviamo è che lo facciano per precauzione. Stanno puntando su ogni casella della schedina”.
James R. Clapper, direttore della National Intelligence, in un’audizione davanti al Senato a febbraio ha detto che alcuni uomini di regime stanno facendo piani d’evacuazione, per mettere in salvo le famiglie e spostare i capitali, ma per ora non ci sono segni di cedimento. Non sono per forza finiti: la risoluzione della Lega araba non parla di spazzare via il regime, ma soltanto di deporre il presidente Bashar el Assad. Il dipartimento di stato americano ha già fatto sapere che nei suoi auspici non c’è nessuna “debaathificazione”, come fu in Iraq sotto Paul Bremer. L’esercito non sarebbe dissolto e resterebbe al suo posto, il resto sarebbe questione di elezioni aperte e di riconciliazione nazionale (è molto vago e speranzoso il piano per il dopo: dopo quello che hanno subito, i ribelli non porteranno mazzi di fiori). Anche i russi hanno proposto che Assad ceda semplicemente il potere al suo vicepresidente, purché la loro base militare nel Mediterraneo rimanga gattopardescamente come prima.
C’è chi nota che Assad potrebbe non essere la chiave di volta del regime, ma soltanto il volto e che la situazione in realtà potrebbe essere a rovescio, lui debole in ostaggio di una cricca di generali e uomini d’affari determinatissimi a resistere. Altri, al contrario, fanno la conta delle defezioni: sempre più di alto livello, come quella ieri del viceministro del Petrolio, Abdo Hussameddin, che però è sunnita e quindi naturalmente portato a una minore lealtà per il presidente. Non sono ancora sufficienti e il governo è ancora troppo forte. Sabato notte 50 reclute hanno convinto il loro capitano a una fuga di massa. Lui li ha traditi, sono stati fucilati prima dell’alba.
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