Un gioco da ragazze
Quell’estate a Lorient le ragazze del liceo ebbero la stessa pericolosa, irriducibile forza dell’oceano in cui facevano il bagno da quando erano molto piccole. Loro ci erano abituate e non avevano paura. Si può dire, guardando “17 filles” il primo film delle sorelle Delphine e Muriel Coulin presentato a Cannes, che quelle ragazze, con i capelli lunghi, i corpi scattanti e pieni di giovinezza totale, la vernice rossa sulle unghie, mille buchi alle orecchie, la faccia di Kate Moss sulle magliette, non avevano paura di niente.
"Quell’estate a Lorient ci fu un’invasione di coccinelle
Per una volta successe qualcosa di meraviglioso in questa città
Però invece di stare nei giardini, andarono tutte in riva al mare
Delle coccinelle sulla spiaggia
Gli anziani dissero: 'Questa volta abbiamo davvero visto tutto'
Non sapevano che sarebbero arrivate altre sorprese".
(“17 ragazze”)
Quell’estate a Lorient le ragazze del liceo ebbero la stessa pericolosa, irriducibile forza dell’oceano in cui facevano il bagno da quando erano molto piccole. Loro ci erano abituate e non avevano paura. Si può dire, guardando “17 filles” il primo film delle sorelle Delphine e Muriel Coulin presentato a Cannes, che quelle ragazze, con i capelli lunghi, i corpi scattanti e pieni di giovinezza totale, la vernice rossa sulle unghie, mille buchi alle orecchie, la faccia di Kate Moss sulle magliette, non avevano paura di niente. Di buttarsi dentro all’oceano quando faceva troppo freddo. Di bere vodka dalla bottiglia. Di scappare dalla finestra, la sera, per andare a dormire da una del gruppo. Di raccogliere da terra un padre ubriaco, dopo avergli lanciato in faccia l’acqua di una caraffa. E di avere un bambino a sedici anni.
Ecco la scandalosa, pazza idea, la rivoluzione delle fanciulle.
“Saremo libere, felici e responsabili. Saremo rispettate”. Poiché erano state deluse, dalla noia di periferia e dall’infelicità pigra che respiravano intorno, non volevano esserlo più: a sedici anni si ha il diritto di pensare che il corso della storia seguirà te, e non il contrario, come le coccinelle che decidono di cambiare rotta e andare al mare. Le coccinelle, poi, muoiono tutte, ma intanto hanno dato un grande spettacolo, hanno mostrato che non è sempre tutto identico, tutto già visto. “Avrò qualcuno che mi amerà per sempre”, dice Camille, bellissima senza averne l’aria, la prima a rimanere incinta, per sbaglio, il leader del gruppo di amiche, la più ascoltata e ammirata, la prima a scegliere la strada che nemmeno le sue adoranti sorelle di scuola e di pomeriggi infiniti avevano preso mai in considerazione, e la prima a dire a sua madre, inferocita dalla notizia (“Pensavo che non volessi una piccola vita di merda”): “Io voglio vivere, ma capisco che questo è l’ultimo dei tuoi problemi”.
Vivere, in quel momento, in quel posto sull’oceano (il fatto di cronaca accadde invece in Massachusetts, ne scrisse anche il New York Times), dentro i palazzoni vista mare, diventa scartare di lato, prendere una decisione che lasci tutti senza fiato, abbracciare, giovanilmente, l’assoluto: entrare spavalde a scuola, in gruppo, portando in giro la pancia sotto la felpa col cappuccio e lasciare il mondo a guardare. Attonito, troppo vecchio e stanco per provare a capire (preoccupato di mettere distributori di preservativi dentro la scuola, come fosse quello il problema e quella la soluzione). A quindici, sedici, diciassette anni è troppo presto. Lo spieghiamo diligentemente ai nostri figli, facciamo di tutto perché sappiano cos’è la contraccezione, rivestiamo di incubi la possibilità di una gravidanza: un bambino non è un giocattolo, non hai idea di cosa significhi, è la fine di tutto, e la scuola? chi lo mantiene, non penserai che noi, adesso, eccetera.
E’ certamente la cosa giusta, non ci sono dubbi, ma bisogna fare i conti con la ribellione. “Avrai una piccola vita di merda, per te è finita”, ripete a Camille la madre infermiera, che fa i turni di notte, che non ha voglia di ricominciare a occuparsi di un neonato, di un bambino, di un’altra vita fuori da sé. E’ come quando i genitori dicevano alle figlie che dovevano restare vergini fino al matrimonio, rendendo il non matrimonio la cosa più eccitante del mondo, e il sesso un bel modo per dimostrare che si era padrone del corpo e dell’anima. Da giovani si dà scandalo per essere vivi, da giovanissimi si ha tutta quella enorme energia, quelle mille ragioni intime per disubbidire, anche quando sembra che non sia rimasto nulla contro cui disubbidire, e si guardano gli adulti come si guardano gli animali morenti, pietà mista a fastidio e molta fretta di girare la testa. Gli adulti hanno le rughe, la cellulite, i capelli radi, lo scoramento di non aver ottenuto la vita che volevano, e negli occhi la luce è spenta, ripetono cose sempre uguali, come i dischi rotti, forse nemmeno ci credono, perché non credono a niente, sono rassegnati, sono falliti, perduti, per quello sono sempre incazzati (essere giovanissimi vuol dire anche essere cattivi, e tutti da ragazzi abbiamo pensato qualcosa di simile, almeno una volta o mille volte, “Sai, mia madre ha quarant’anni, poveretta”, fumando una sigaretta, provando un sincero ma vago dispiacere per quella vecchiaia inconsolabile e rancorosa).
“Vitadimerda.com” è lo slogan con il quale le diciassette filles definiscono i discorsi dei loro genitori e dei loro professori, che fanno assemblee e cercano una soluzione, parlano di famiglie assenti, di gesto politico, di ignoranza, di colpa della società. Ad ascoltarli, nel film che uscirà nelle sale il 23 marzo, vietato ai minori di quattordici anni, e che è anche un romanzo, “Le pacte des vierges”, di Vanessa Schneider (lo pubblicherà in Italia Barbès in aprile), succede una cosa strana: si comincia a guardare il mondo con gli occhi delle quindicenni scriteriate. Come possiamo essere diventati tanto stupidi, svuotati, pieni di squallido finto buon senso, tanto morti pur essendo vivi? Come possiamo non avere più il coraggio di niente? Il preside della scuola è preoccupato per lo scandalo, le televisioni, i genitori danno la colpa agli insegnanti che non vigilano abbastanza, gli insegnanti rinfacciano ai genitori di non avere capacità di controllo, l’infermiera dice che le madri devono pensare alla pillola anticoncezionale, il preside annuncia che darà più compiti in classe per tenerli occupati, per impedire loro di trovare il tempo di restare incinte, e che espellerà le teste calde. Ma hanno paura, dicono: “Sono ragazze intelligenti, conoscono i loro diritti”. Il gruppo fa paura perché è invincibile, qualunque cosa decida. “Il giardino delle vergini suicide” di Sophia Coppola, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides, è l’esempio estremo di questa forza incontrollabile e testarda: “Evidentemente lei, dottore, non è mai stato una ragazzina di tredici anni”, dice la più piccola delle sorelle al medico che la sgrida per il suo primo tentativo di suicidio nella vasca da bagno. Evidentemente noi, dottore, non ci ricordiamo più quanta forza si può avere a tredici anni.
La potenza giovane e terroristica di un gruppo di amiche è più invadente di ogni think tank progressista o conservatore, di qualunque saggio sulla sorellanza femminista. La sorellanza, le diciassette ragazze di questo film girato da due sorelle (una col pancione) l’hanno messa in pratica: sono rimaste unite, avvinghiate, compatte e convinte di quel gesto fino alla fine, senza pensare a nient’altro, come le coccinelle suicide. E’ stato un gesto di protesta femminista? Non lo so, è stata (è accaduto davvero al liceo di Gloucester, diciotto gravidanze nello stesso periodo, anche se il sindaco ha negato che ci fosse alcun patto tra le ragazze) soprattutto una valanga, per l’idea sconvolgente che le ragazze non fossero rimaste incinte per sbaglio, per ignoranza, per un preservativo rotto, perché nessuno aveva voluto dare loro la pillola del giorno dopo, per una costrizione, ma perché lo avevano desiderato. In assoluta libertà, modernità, senza mai nominare Dio nemmeno per sbaglio, e anzi con l’esclusione di qualsiasi maschio dal loro patto d’acciaio. Una cosa fra donne, un gioco da ragazze.
Per loro, in quel nuovo Millennio, in quella scuola, la libertà era fare quello che nessuno avrebbe immaginato: diventare madri per ricominciare e riscrivere le regole della vita giovane sulle loro pance, per insegnare qualcosa di diverso ai figli. Avessero deciso di diventare tutte spogliarelliste, di mettersi il burqa, di farsi suore, avrebbero creato meno scompiglio. “Abbiamo pochi anni di differenza, quindi riusciremo a capire i nostri bambini”. Elizabeth Badinter, francese, direbbe che il bébé è il miglior alleato della dominazione maschile, come ha fatto nel suo nuovo libro (“L’amore in più, storia dell’amore materno”, Fandango), ma quelle ragazze le avrebbero riso in faccia. “Lei sa bene che è tutto falso. Tutti seguono i vostri ideali di vita, ma non si accorgono che è solo merda. Abbiamo ragione a provare altro”, dice Camille all’infermiera, lastricata di buone intenzioni ma incapace di rispondere alla domanda: “Voi adulti avete sempre avuto delle buone idee? Cosa ci avete mostrato? Quali alternative ci avete dato?”.
Così, all’improvviso, l’evento meno desiderabile al mondo per una minorenne moderna, libera di uscire la sera, libera perfino di non tornare la notte, di andare male a scuola, di andare a feste in spiaggia con i ragazzi, diventa il simbolo del desiderio. Avere un figlio. Un manifesto che non si alimenta di teorie, mistica della ragione, Simone de Beauvoir, femminismo moralista e antimoralista, otto marzo sì o no, distinzione fra buone e cattive e ragazze. Un gesto definitivo, non ideologico ma nemmeno inconsapevole. “Non saremo come le nostre madri”, ha a che fare con la voglia scriteriata di cambiare tutto, di creare una comunità completamente nuova. Diventare madri per diventare donne: fa paura ma è così, anche se le protagoniste di questo film non sono state costruite per rivendicare nulla, solo per raccontare un sogno di libertà dai pensieri vecchi, e anche la pericolosa esaltazione di venti ragazzine. La cosa più sorprendente è l’attrazione che questo gesto esercita sulle altre. Come il mare per le coccinelle, l’idea di una nuova vita da cullare dentro di sé diventa l’ossessione. “Sabato alla festa ci lanciamo. Sarà il delirio”, dicono mentre stringono il patto, e in effetti il delirio arriva, tanto che qualcuna sente il bisogno di mettersi i cuscini sotto le magliette per farsi accettare (e una commissione censura ha trovato tanto pericolosa questa attrazione, semplicemente raccontata e indagata con ironia, da vietare il film ai minori di quattordici anni, probabilmente con la scusa che girano spinelli, ma con il terrore dell’istigazione alla gravidanza).
Le amiche, quando si è molto giovani, sono il centro del mondo e sono un cerchio stretto in cui infilarsi a ogni costo, guardano gli altri dall’alto in basso, non lasciano entrare, non ci si può sedere al loro tavolo alla mensa, bisogna essere degne per essere ammesse alla loro compagnia. Si proteggono a vicenda, i pensieri suonano all’unisono, hanno le stesse scarpe da ginnastica, gli stessi capelli, gli stessi sguardi famelici, accesi, ridenti. I maschi le guardano eccitati, ma impauriti da quella forza comunitaria, dal balletto di ormoni, mani, bocche, braccia nude, caviglie, cervelli in ascolto, risate di scherno per chi sta fuori. Nemmeno chiuderle a chiave in camera può servire, le ragazze scappano dalla finestra.
Non è il branco, però, è il gruppo. Come il romanzo bellissimo di Mary McCarthy, “Il gruppo”, che negli anni Sessanta scioccò l’America (loro erano otto ragazze upper class di una scuola prestigiosa e andavano incontro ai loro sogni come coccinelle al mare), perché le confidenze fra ragazze all’inseguimento di una vita sono sempre sconvolgenti. Tre femministe romane in vacanza insieme, molti anni fa, parlavano con raccapriccio della penetrazione: gesto violento, autoritario, maschilista. La meno affascinante ma più sincera di loro disse: “Per me, invece, se ce ne fosse un po’ di più, di questa penetrazione, non sarebbe male”. Nel gruppo nascono e cambiano i pensieri, nel gruppo si prendono le decisioni ridendo, senza nemmeno saperlo. Quando tornarono a casa, le due che maledicevano la penetrazione, rimasero rapidamente, allegramente incinte. Nel film ci sono le schiene nude sulla spiaggia, le ragazze sedute le une accanto alle altre che si raccontano il futuro. Ci sono tutti questi giovani corpi vitalissimi che saltano, ridono, corrono, sbattono, si abbracciano, si buttano in mare, bevono, fumano hashish e sigarette, mangiano salame, disegnano facce che ridono sui pancioni nudi, galleggiano in piscina, si schizzano, se ne fregano di tutto.
Si sentono preziose e invincibili. Si aiutano, anche, litigano per i nomi da dare alle loro figlie, decidono che i ragazzi non sono importanti ma poi ci soffrono. Ma non avrebbero avuto tutto quel coraggio, quella sconsiderata eppure razionale incoscienza, se non fossero state un gruppo, sorelle non di sangue ma di ribellione alle cose stantie che le avevano cresciute. Si può desiderare lucidamente un bambino quando si è appena state bambine, quando è ancora tutto da fare, quando non si è nemmeno innamorate di qualcuno? Le diciassette ragazze (nel libro si racconta che erano molte di più, che una fece cinque test di gravidanza uno dietro l’altro e pianse disperata, a quindici anni, per aver perso quella grande occasione) avevano un solo pensiero: essere parte di qualcosa di più grande dei pomeriggi in mezzo alla pioggia o alla puzza di pesce. Avevano perfino attrezzato una roulotte, per quando i genitori rompevano troppo, si sdraiavano là tutte insieme a fumare, a parlare di come sarebbe stato, dei turni per tenere i bambini quando bisognava studiare per i compiti in classe. “Abbiamo passato dei bei momenti laggiù e ce ne saranno degli altri anche se, con i bambini, non sarà più così facile. Ma il ricordo più bello rimane la prima sera che abbiamo trascorso alla roulotte. Il giorno che ho fatto quello che serviva per avere un bambino non ho sentito neanche un decimo del piacere che ho provato quella sera lì”, scrive Vanessa Schneider nel romanzo “Diciassette ragazze”.
Quel che succederà dopo ha a che fare con il mare e le coccinelle, con la vita che scorre. Con le carrozzine da spingere e la fine (o la realizzazione) dei sogni. Non ci si può disegnare il futuro, perché il futuro arriva e cambia tutto. Ognuno potrà immaginare come crede il destino di ragazze così, e dei loro bambini. Le chance perdute o quelle giocate, gli sbagli, l’irresponsabilità, la protesta sociale. Ma quel che è certo è che c’e stato un momento di femminile e irripetibile potenza.
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