La mistica della verità

Stefano Di Michele

Avrà inizio, la sanguinosa mattanza mediatica, quando quelli pieni di buona volontà, e persino di ottime intenzioni, decideranno di salvarti. Il corpo, nell’ordine, l’anima e la memoria. Se chiudi gli occhi, si sentiranno in obbligo di dover immediatamente aprire i loro – così per scrutare fin dove nella tua vita neanche tu scrutavi, non sguardo che comprende, il loro, “il lume ardente” degli occhi innamorati, ma sguardo che scruta, interrogatorio più che interrogativo, lampada da tavolo da piena notte in questura.

    “Ognuno di noi rischia ogni sera di diventare il fatto di cronaca del giorno dopo” (Marcel Proust)

    Avrà inizio, la sanguinosa mattanza mediatica, quando quelli pieni di buona volontà, e persino di ottime intenzioni, decideranno di salvarti. Il corpo, nell’ordine, l’anima e la memoria. Se chiudi gli occhi, si sentiranno in obbligo di dover immediatamente aprire i loro – così per scrutare fin dove nella tua vita neanche tu scrutavi, non sguardo che comprende, il loro, “il lume ardente” degli occhi innamorati, ma sguardo che scruta, interrogatorio più che interrogativo, lampada da tavolo da piena notte in questura. Penseranno di poter dire le parole che da te non sono state dette – violando il tuo silenzio (e un silenzio violato è un crimine odioso non meno della parola impedita), la tua penombra, il chiaroscuro che ti rasserenava. Cercheranno di attraversare, come eserciti invasori, la tua memoria – le mezze frasi, le mezze confidenze, i mezzi gesti. Faranno della tua vita, piena e scelta, una figurina da giornaletto di enigmistica – di quelle da completare unendo i vari punti, e loro pronti con la matita in mano: così che in nome della tua vera vita, della tua vita reale si approprieranno. E’ un impeto, un impegno, una terrificante generosità che non conosce ostacoli – artigliano mediaticamente persino la terra che copre la tua tomba, battono sul legno della cassa con furore e soddisfazione: eccoci, ti portiamo  la tua vera vita, da ogni silenzio ripulita – verità ristabilita, giustizia fatta.

    Ma ogni vita ha diritto ai silenzi necessari e voluti, i silenzi che l’hanno difesa. Ogni essere umano sceglie per la propria  vita il passo e la misura che crede – che il respiro e il buono e cattivo gusto e magari l’ipocrisia (nemmeno confrontabile con l’ipocrisia dei perenni cacciatori di ipocrisie altrui) e persino la menzogna consentono o consigliano. Ognuno è felice e pacificato e infelice nella sua dimensione, dentro il suo paesaggio. Che può valicare – e magari è un bene e una nuova scoperta, allora come verso l’Itaca di Kavafis è il viaggio stesso il senso di tutto; o può scegliere di conservarsi dentro quella dimensione, dentro quell’orizzonte – ed è un’altra forma di viaggio, un’altra scoperta, una rassicurante sottrazione. Chi di tutto ciò – sostanzialmente: di ciò che uno decide di fare della sua vita – ha il diritto di occuparsi? Chi ha il diritto di manometterlo? Nessuno, nessuno, nessuno. Chi può mai essere così prepotente, così insensibile – così coglione – da pensare di avere nelle proprie mani il metro per misurare esattamente cos’era la felicità e cos’era l’infelicità in quella vita non sua?

    Il sabba giornalistico intorno al corpo di Lucio Dalla – corpo minuscolo di peli disseminato, come di allegro ragnetto, di folletto innamorato e musicante – è stato uno scatenamento ben poco onorevole e molto  inquietante. Sembrano correre sempre un pericolo “le vite degli altri”, sempre qualche spione che a quelle vite crede di dover aggiungere qualcosa, di più, di meglio, di coraggioso – valicando baldanzoso i limiti che per l’intera tua esistenza avevi fissato, i silenzi dentro cui ti eri calato e riparato e addormentato: e dovrebbero quei silenzi essere invalicabili (sacri confini davvero, altro che chiacchiere caporettiane), persino ingiudicabili. Il “non fate troppi pettegolezzi” con cui Pavese accompagnò la sua uscita di scena, farsi principio perenne: qui e così quell’esistenza giunse, oltre non bisogna attraversare – come la Yourcenar che si ferma sul limitare dell’ultimo respiro di Zenone, il suo medico alchimista, anch’egli omosessuale avvolto nel chiaroscuro, “questo corpo simile al mio che riflette la mia voluttà”, e così “non oltre è dato andare”. Ecco, cominciare applicando due regole: di uno scrittore rispetto al suo stesso finire, di una scrittrice rispetto al dissolversi letterario di un suo personaggio.

    In questi giorni ogni misura è stata travalicata, ogni buonsenso massacrato sui giornali e sugli schermi televisivi, un’arena di polvere e lacrime e accuse e rivendicazioni – uno scansare brutalmente il morto, per mettersi a parlare al posto del morto. Un processo oscuro, macabro. Due persone avvedute e civili e tolleranti, come Lucia Annunziata e Michele Serra,  hanno anche loro oltrepassato gli estremi dentro cui Dalla aveva voluto vivere – e quindi, morire. Non è questione di “ipocrisia” da parte della chiesa – come annota Serra, per un credente omosessuale è un problema, per un omosessuale non credente una bizzarria – piuttosto delle scelte che altri liberamente compiono. Se dentro quell’ipocrisia, così rumorosamente rinfacciata, il cantante aveva scelto di uscire di scena, non è innanzi tutto mancare di rispetto a lui mettersi a ululare all’ipocrisia di chi sparge incenso attorno alla sua bara? Insomma: se a Dalla quella chiesa andava bene, se gli andava bene il confessore benedettino, se persino l’Opus Dei gli andava bene (e dunque preti e dottrina e morale o moralismo) – se quindi, quella stessa “ipocrisia” era da lui accettata e con essa bene conviveva e chissà, magari persino lo convinceva, dato che aveva la forza e la cultura e la solidità sociale per respingerla, di cosa cavolo ci s’impiccia? A nome di altri omosessuali che ne patiscono? A nome di tutto il civile battersi per coppie di fatto e nuovi diritti ai gay? Battaglia benemerita, ma combattuta sul campo più sbagliato che si potesse scegliere – quello dove viene devastato l’addio a una vita. Tutto in quel funerale – dal rito alle parole di Marco, il compagno amato, forse persino alle gaffe del prete che lo chiama “collaboratore” del defunto, manco fosse il perpetuo – era dentro l’avventura umana e sentimentale e religiosa di Dalla. La sua – solo sua. Perciò sulla soglia di San Petronio ci si doveva fermare. Lucia Annunziata – con fervore spiazzante e nell’occasione male indirizzato – ha detto: “Vai in chiesa, ti concedono i funerali e ti seppelliscono con il rito cattolico, basta che non dici di essere gay. E’ il simbolo di quello che siamo, c’è il permessivismo purché ci si volti dall’altra parte”. Ma che c’entra? E Dalla? E le sue convinzioni? E la sua vita? Perché farne un vittima, che certo non era? Perché farne uno sprovveduto, che meno ancora lo era? Una buona e ardimentosa volontà salvifica, quella di Lucia, che paradossalmente finiva per colpire proprio colui che si pensava di difendere – alla lotta, pure post mortem, quasi chiamato. Così, nulla è più stato come doveva essere. Ma siccome quando nulla c’è da dire, in particolare giornalisti e dichiaratori dicono, il funerale di un grande artista si è mutato in una specie di bisca borgatara e rissosa, un saloon western dove ognuno strillava, rompeva bottiglie sulle teste, sparava a casaccio, lanciava accuse di qualunque genere. Tutto è sbracato, tutto si è confuso, soprattutto i torti e le ragioni si sono confusi, ognuno a gridare e a far birignao intorno a quella povera bara – per tacere di quella che Marco Travaglio definisce eufemisticamente “l’aspra invettiva-provocazione di Aldo Busi”, che si è spinto a sostenere che “un gay cattolico che cerca il dialogo con la chiesa e addirittura il suo perdono (allorché è essa a doversi fare perdonare tutto, anche l’evasione fiscale storica) è come un ebreo che tiene sul comodino la foto di Hitler (...) Un omosessuale che non si smarchi dalla religione che lo condanna / lo perdona e non la mandi affanculo radicalmente quale primissimo passo di emancipazione personale e civile mi fa ribrezzo come a suo tempo avrebbe potuto farmelo un partigiano segretamento collaborazionista”. E gli altri che replicano, giustamente a difesa di Dalla, ma in uno sprofondo dove si rinfaccia il “culo spannato”, s’invoca “un clistere di camomilla”,  si parla di “sproloquio mestruato” – e di là si rilancia, “italietta di merde secche benedette”. Così è, perché così deve essere, quando la misura e la discrezione non sono più la misura di niente. Non è meglio, allora, un po’ di silenzio? Un po’ meno fanatismo nella difesa delle nostre convinzioni? Qualche certezza messa via? Almeno una parvenza di grazia e gentilezza? (In un libro appena uscito – s’intitola “Il vecchio re nel suo esilio” – uno scrittore, Arno Geiger, si confronta con il padre malato di Alzheimer che sta perdendo i ricordi. Cos’è importante per te, papà?, gli domanda il figlio. E il padre, ormai nella penombra che cancella ogni ricordo: “Importante è che attorno a te si parli gentilmente. Rende possibili molte cose”. Nello scivolare dentro l’assenza, e nel prepararsi all’assenza, qualcosa dell’essenziale quasi miracolosamente sopravvive – al contrario di ciò che è accaduto in questi giorni brutti e vocianti e di scarsa misericordia).
    Gli uomini e le donne abitano e frequentano luoghi diversi. In luoghi diversi hanno comportamenti diversi. Ci sono parole diverse – e per questo belle. E un luogo è solo un luogo è solo un luogo – solo diverso, non migliore, non peggiore, fosse un locale gay, fosse una cattedrale: diversa è la  vita che ognuno sceglie di viverci. C’è chi si sente più a suo agio al Gay pride, facendo la ballerina carioca con le penne colorate sistemate all’altezza del culo, e c’è chi invece è tutto l’opposto, uno sfinimento di noia, una discrezione a prova condominiale che regala la dimensione sperata. Al contrario, c’è lo scatenamento per provare a uniformare tutto, la perdita di ogni capacità di distinguere – persino di accettare. A cominciare da quelli che spesso denunciano di non essere accettati. L’omofobia è disgustosa, vomitevole; la banalizzazione che a volte travolge il mondo omosessuale – la replica scontata, l’allarme risaputo, la dichiarazione convenzionale: un coro di vestali che solo allo stesso modo sa trattare una dichiarazione esilarante di Giovanardi, una scenetta fessa in televisione, un funerale in chiesa e una carognata legislativa. A forza di usare le stesse parole per tutto, alla fine non hai più parole per spiegare le cose che accadono. E l’informazione segue a ruota – i “macho macho man” della destra col pistolino etero doc in gran sfoggio così da tenere in ostaggio famiglie e sacrestie; i cronisti progressisti diversamente accasati, tutti con identica alta lagna, pur democratica lagna, seriosissima lagna. A volte, di buone ragioni ne uccide più la noia che il torto.

    Da questa vicenda quasi nessuno esce  bene – nemmeno quelli scesi in campo a difesa (di che?), e il corteo degli amici condolenti che aggiungono del loro: dai a raccontare che mai hanno visto il defunto mano nella mano con un uomo (a un passo dallo spingere Giovanardi alla visione di una pubblica minzione), che Marco dormiva al piano di sotto, che c’è tutto nelle sue canzoni, padre tranviere e “grazie a tuo figlio finocchio”, un formicaio eccessivo e impazzito e superfluo. C’è chi si è portato parecchio oltre. E va segnalato. “Da quell’aldilà in cui lui credeva, Lucio Dalla ha fatto coming out. Forse il più rivoluzionario di tutti i tempi. Ha parlato d’amore gay dentro una cattedrale simbolo della chiesa più reazionaria d’Italia” (Tommaso Cerno, Espresso.Repubblica.it). Pensa tu.

    Forse noi giornalisti avremmo bisogno di una sorta di rieducazione sentimentale rispetto alle vite delle persone che vogliamo raccontare. Forse tutto è cominciato con l’intronizzazione nel nostro mestiere,  di quella parola ora abusata: verità. Bellissima parola, verità. Esemplare tentazione, quella della verità. Ammirevole proposito, la ricerca della verità. Verità, verità, verità – fino a renderla indistinguibile dalla banalità. Fino a diventare un’arma da scasso delle vite altrui, questa faccenda della verità usata tanto in buona fede quanto a compensazione della notevole megalomania della nostra categoria. Ce ne sono tra di noi che vanno annusando perennemente la verità, certi con un’aria tenebrosa alla Javert, spiritata e da furbi tra i più furbi – vale per i politici ladri, per i puttanieri, per i froci in incognito. Fiutano sempre, come cocker in affanno. Scrutano come volpi furbe: a me non mi fregate. Dalla verità che illumina alla verità che acceca. Che brucia. Gli altri. E’ sempre più difficile riuscire a rintracciare la verità, da quando la verità viene braccata quotidianamente. Dal buco della serratura, deve uscire la verità. Dal bruciore di pancia e dal rancore inseguita. Dall’ego personale. Ha da sussultare, la verità, tra le nostre mani. Ha da essere, la verità, quella che noi sapevamo già essere la verità. E casomai si può sempre tirar fuori la verità, alla verità stessa – se la verità alla verità non somiglia, quale noi sappiamo che in verità è. Molto pasolinismo da riporto, pratichiamo, e ognuno “io so”. E siccome so – già prima di trovarla, la verità io conosco. Si dovrebbe, forse, rileggere più Elias Canetti dei nostri articoli, prima di mettersi al galoppo – cavalieri di verità, senza nessun candore donchisciottesco: “Odio l’eterna disponibilità alla verità, la verità per abitudine, la verità per dovere. La verità deve essere un temporale; quando ha purificato l’aria se ne vada (...) La verità non può divenire mai il cane dell’uomo, guai a chi la chiama con un fischio. Non la si tenga al guinzaglio, non la si porti in bocca”.
    E il continuo tracimare nelle esistenze altrui, è anche un continuo tracimare dalla stampa che per mestiere faceva e fa esattamente questo (“Star spiattella i rumors sull’omosessualità di Will Smith”), in un tripudio di corna e tampax principeschi, amanti nobili e ignobili, il politico e il trans, la mignotta in villa – e tutto si mischia, l’essenziale aggrovigliato tra le lenzuola come il superfluo, il vizio indistinguibile dal reato, la misura dall’eccesso. Così che ormai, per esempio, è quasi impossibile che si possa ripetere (da noi meno che altrove) una storia come quella della figlia segreta di Mitterrand, Mazarine – e lì ai funerali del padre (ancora un funerale, come a Bologna), che abbraccia la moglie ufficiale del padre, vicino al labrador Baltic: ciò che si ama si dovrebbe ricomporre come chi ha amato e chi è stato amato desiderano – dentro gli argini che erano stati innalzati. E’ invece una verità ridotta a reality quella che a volte s’impone, accecata dalla luce degli scopritori delle nostre verità quotidiane: luce così forte che spesso la verità stessa deve chiudere gli occhi, per non finire accecata. Una verità da macelleria visionaria come quella dei reality, carne fresca sempre in bella vista – e ben vengano se ci sono parolacce e scorregge e rutti, un’immensa plebea Versailles, pur senza che nessuno abbia la penna e lo sguardo di Saint-Simon. Molto semplicemente, il più delle volte è un’eccitazione da palcoscenico che prende il sopravvento sul racconto – sulla capacità di capire le ombre, persino a volte sull’incapacità di decifrare la luce.

    E a Dalla si ritorna. Per dire ancora di quanto non andava detto – perché il diretto interessato aveva già detto ciò che voleva dire – altro che il buon Franco Grillini, un arcigay a caratura storica, anche lui in grande e gratuito affanno: “Io sono arrabbiato nero, sono furioso su questa faccenda di Dalla e dei suoi funerali”. Lui è arrabbiato nero? E allora, l’uomo di “Futura” e di “Caruso”? Nel 1979 concesse un’intervista al settimanale Lambda – e proprio Grillini nel suo sito l’ha riproposta. Al suo intervistatore Dalla ripeteva: “Ma veramente, spero che lo capisca: non mi sento omosessuale”. Poi aggiungeva: “Mi sento pronto e disponibile a tutte le situazioni d’amore, di affetto, di amicizia, di sentimenti, di tenerezza”. Ecco, lo aveva detto con le sue parole – quelle a lui necessarie. Lo aveva detto nella penombra, nel chiaroscuro, con un soffio e non con le trombe delle pubbliche rivelazioni. Era l’essenziale, era tutto. Bisognava farsele bastare, quelle parole – chiarissime. Preziose: un dare un altro nome alle cose. I profeti di verità, non meno di quelli di sventura, hanno invece pensato di doversi buttare loro in soccorso. E quel soffio, quella delicatezza, quello sfiorare corpi e pulsioni, hanno alla fine mutato in rutto mediatico. Si capisce: in nome della verità. “La verità è la cosa più preziosa che abbiamo. Usiamola con parsimonia”, consigliava Mark Twain. Pare invece ne servano carrettate ogni giorno, verità all’ammasso. Così, a volte ci si sente più difesi da un’ombra rassicurante di ipocrisia che dal bruciante marchio della verità sulla pelle.