Do not disturb

Che cosa sta progettando il direttore della Cia in un albergo di Ankara?

Daniele Raineri

Ieri un giornalista di al Jazeera in un albergo di Ankara si è imbattuto nel direttore della Cia, David H. Petraeus. Aspettava l'arrivo in Turchia dell'inviato speciale dell'Onu, Kofi Annan, di ritorno dalla Siria, e invece ha visto l'uomo dell'intelligence che si è incontrato con il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan e con Hakan Fidan.

    Ieri un giornalista di al Jazeera in un albergo di Ankara si è imbattuto nel direttore della Cia, David H. Petraeus. Aspettava l’arrivo in Turchia dell’inviato speciale dell’Onu, Kofi Annan, di ritorno dalla Siria, e invece ha visto l’uomo dell’intelligence che si è incontrato con il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan e con Hakan Fidan, direttore dell’intelligence turca, secondo un comunicato stringato del governo apparso nel pomeriggio quando ormai la notizia era circolata. Scrive il giornale Hurriyet che Petraeus era al secondo giorno di visita. Il faccia a faccia ricorda l’aprile 2011, quando il predecessore di Petraeus alla Cia, Leon Panetta, spese in segreto cinque giorni in Turchia sempre con Erdogan e Fidan per parlare della possibilità di un regime change a Damasco e dell’opportunità di garantire alla famiglia Assad un passaggio sicuro fuori dalla Siria (Fidan fu spedito in missione a parlamentare con il presidente Bashar el Assad).

    La situazione rimanda anche all’ottobre 1984, quando un aereo militare speciale atterrò a sud di Islamabad, in Pakistan, con a bordo l’allora direttore della Cia, William Casey, che per conto del presidente Reagan aveva il compito di pianificare la guerra segreta contro i sovietici nel vicino Afghanistan assieme ai pachistani. La visita di Casey fu il preludio a una decisione riservatissima dell’Amministrazione americana nel marzo 1985, di cui rimane traccia nella Direttiva sulla sicurezza nazionale 166, che ordinava l’escalation clandestina contro Mosca. Oggi non si sa qual è l’oggetto della due giorni di Petraeus in Turchia. Domenica però il New York Times, il giornalone liberal che si presta volentieri quando l’Amministrazione sente il bisogno di fare circolare un concetto sui grandi media, ha pubblicato un pezzo con molte fonti su quanto sarebbe arduo, secondo i generali del Pentagono, ripetere in Siria una campagna dall’alto come è stata fatta in Libia. La difesa aerea integrata a disposizione di Damasco, ovvero la rete di missili terra-aria, radar, cannoni antiaerei, è molto più avanzata e fitta di quella di Gheddafi – almeno cinque volte di più – ed è piazzata in aree densamente popolate.

    Lo scenario siriano è differente. “Se colpissimo quelle aree ci sarebbero molti danni collaterali”, dice il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, riferendosi ai civili incolpevoli vittime dei bombardamenti. In Libia c’erano aree definite in mano ai ribelli, cosa che non succede in Siria, dove l’opposizione può vantare al massimo il controllo per poche settimane di qualche quartiere. E c’è la questione della distribuzione demografica, ricordata dal capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey: tra gli insorti libici e le città ancora controllate da Gheddafi c’era la vastità del deserto. Ora “sono tutti mescolati assieme”, ogni angolo di edificio può dividere le forze governative da quelle dell’opposizione e poche ore dopo la situazione cambia. L’articolo del Nyt è scoraggiante anche sull’opzione “safe haven”, la creazione di aree protette – in particolare vicino al confine con la Turchia – dove i civili non sarebbero più esposti alle violenze dell’esercito. “Sarebbe un’operazione così complessa che richiederebbe un contingente numeroso di truppe americane”. In breve: viene fuori dalle interviste con i militari che la sola ipotesi di intervento è prevista in caso di collasso del regime per mettere in sicurezza i depositi di armi chimiche.

    Eppure, se l’opzione militare per così dire “pubblica” è fuori dall’orizzonte degli eventi, nemmeno la diplomazia sembra essere la soluzione. Il negoziato lampo di Kofi Annan è stato esperito per provare la vuota inutilità delle trattative internazionali: il ghanese ha chiesto la sospensione delle violenze e la creazione di corridoi umanitari per soccorrere la popolazione – l’ultimatum scadeva ieri mattina – il presidente Assad ha risposto con l’annuncio di elezioni parlamentari per il 7 maggio. Da due giorni le sue truppe stanno marciando su Idlib, a nord, seconda roccaforte dell’opposizione dopo Homs, dove una coraggiosa reporter di al Jazeera, Anita McNaught, racconta l’offensiva in tempo reale. Gli abitanti non si fanno troppe illusioni: “Finiremo come a Homs”. I soldati stanno anche minando i confini del paese con il Libano e la Turchia, lungo le stesse strade percorse dai contrabbandieri di armi ma anche dalla gente comune per trovare scampo e dai giornalisti internazionali per entrare e uscire dal paese. E proprio ai giornalisti che tentano di indagare sul campo tra le opacità della rivolta e le stragi di civili ieri il ministro dell’Informazione ha rivolto una minaccia inequivocabile: chi cerca di entrare in Siria sarà considerato “complice dei terroristi” e trattato come tale.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)