Nei bar cool di Mosca, tra i baci delle ragazze, con vista sobria sul putinismo
Il nome completo sarebbe lungo e poetico, Les Z’amis de Jean-Jacques, ma ai tassisti basta sentire “Jean-Jacques” per capire dove mettere la freccia.
Il nome completo sarebbe lungo e poetico, Les Z’amis de Jean-Jacques, ma ai tassisti basta sentire “Jean-Jacques” per capire dove mettere la freccia. E’ un bistrot elegante nel centro di Mosca, i camerieri sono pochi, parlano il francese e portano ai tavoli tovaglie di carta e qualche matita: i clienti abituali gradiscono parecchio il pensiero, specie dopo la seconda vodka. Non è che il Jean-Jacques sia l’unico bistrot della città, ma negli ultimi mesi si è fatto una certa reputazione. E’ successo quando sono cominciate le proteste contro il presidente russo, Vladimir Putin, e la schiera di ministri e governatori che gli sono intorno: pare che alcuni intellettuali di Mosca organizzassero da qui, dalle stanze calde del bistrot, i cortei antigoverno della campagna elettorale. La voce è circolata in fretta e ha conquistato molti quotidiani europei, tanto che i bevitori del Jean-Jacques sono stati paragonati ai decabristi del grande Ottocento. Da qui, insomma, doveva partire l’ultima rivoluzione russa. Oggi la percentuale di reporter stranieri fra i tavoli del bar è decisamente elevata, ma le tracce dei ribelli sono scarse. Certo la musica è buona, la sala è fumosa e ci sono ragazze russe, belle ragazze russe che baciano amiche orientali, nel complesso l’atmosfera è parigina ma non è la Parigi delle ghigliottine. Se i decabristi hanno lasciato pochi segni del loro passaggio, sorte peggiore dev’essere toccata all’Ararat, un cognac armeno che si trova quasi ovunque in Russia: il cameriere alza le spalle e dice “non plus”, potrebbe essere una questione di fornitori o forse è un problema di credibilità, perché un liquore con quel nome rischia di avere poco successo qui dentro. “Ararat” ha un suono ruvido, sembra un ordine stampato su carta intestata, non è roba da poeti.
Il Jean-Jacques somiglia poco a un covo di ribelli, eppure le notizie in arrivo da Mosca non suone buone per il governo. Basta dare un’occhiata ai risultati delle elezioni. Putin ha vinto con il 63 per cento delle preferenze, ma si è fermato al 46 nella capitale: se il voto fosse stato un affare di città, il presidente sarebbe andato al ballottaggio. “Per qualche ora abbiamo pensato che la svolta sarebbe arrivata davvero”, racconta Masha, una ragazza di trent’anni seduta al bancone del Propoganda. Il guaio, prosegue, è che in Russia ci sono anche posti come la Cecenia, dove Putin vince con il 99 per cento: a quel punto diventa tutto più difficile.
Il Propaganda è un bar frequentato dai cosiddetti “burzhoi”, i giovani puliti e ben educati della piccola borghesia. Il portone è vicino al quartier generale dei servizi segreti e il numero di militari lungo la strada rende superflua la presenza dei buttafuori. La popolarità di Putin fra i burzhoi di questo locale è in netto declino, al lunedì sera c’è poca voglia di fare discorsi impegnati, sono tutti in ghingheri per la serata gay, ma l’umore è quello e si percepisce senza fatica. Di solito i burzhoi hanno studiato all’estero e lavorano per una compagnia straniera. Non finiscono mai una conversazione senza aver fatto sapere di essere manager: manager delle relazioni esterne, delle vendite, del servizio clienti, manager di un negozio di scarpe ma pur sempre manager. I giornali vicini al governo non ne parlano troppo bene, dicono che sono quelli dell’iPhone per far capire che hanno poco in comune con le piaghe della nazione, con le pensioni da fame degli anziani e i disoccupati cronici delle periferie. In realtà l’iPhone ce l’hanno anche i sostenitori di Putin, serve a restare aggiornati e può dare una mano con le ragazze: è un oggetto piuttosto diffuso nel paese europeo con il maggior numero di accessi a Internet.
A Mosca la crisi di Putin è soprattutto la crisi del putinismo, degli uomini che rappresentano il Cremlino nella guida della città. La capitale è stata per vent’anni nelle mani di Yuri Luzhkov, un amministratore furbo e popolare caduto in disgrazia nel 2010. Il suo periodo al potere ha coinciso con l’ascesa della moglie, Elena Baturina, che ha costruito dal nulla un impero di palazzi e grattacieli. Questa immensa ricchezza ha attirato sospetti, critiche e accuse di corruzione, sino a quando il Cremlino ha deciso le dimissioni di Luzhkov. Al suo posto è stato scelto un fedele collaboratore di Putin, Sergei Sobyanin, qualcuno ha pensato che fosse meno carismatico del predecessore, ma che almeno non avrebbe avuto accanto una donna audace e smaliziata come la Baturina. Le speranze hanno retto per qualche mese, poi Sobyanin ha ordinato di ricostruire tutti i marciapiede della città, un affare da cento milioni di dollari che sarebbe gestito dalla società della moglie, una bella donna di nome Irina.
Anche per questo la capitale è diventata il fulcro della protesta. L’ultima si è vista sabato sulla strada Novi Arbat: cinquantamila persone hanno sfilato contro Putin, contro il risultato delle elezioni e gli altri mali della Russia, quasi tutti avevano una macchina fotografica e un cartello in mano, con un lieve predominio delle macchine fotografiche sui manifesti. La polizia ha sigillato gli accessi alla metropolitana per un paio d’ore, mentre i soldati si sono messi in fila, uno dietro l’altro, lungo la via d’accesso al corteo, che era segnato da un enorme preservativo bianco con il nome del presidente. Per entrare nella zona era necessario superare un controllo al metal detector. La cosa importante non era quanti fossero i manifestanti, ma chi fossero: c’erano liberali del movimento Yabloko, gruppi di nazionalisti e sostenitori dei diritti gay, comunisti e comitati dell’esperanto. Dal palco arrivava musica tipo “Peremen”, un inno degli anni Ottanta contro il regime sovietico, ma anche canzoni più popolari. Qualcuno chiedeva di liberare il milionario Khodorkovsky, altri protestavano contro l’arresto delle Pussy Riot, le ragazze punk finite in carcere dopo un concerto illegale. Non sarà facile rivedere insieme, in una sola piazza, gente così diversa per abitudini e convinzioni, ma sarà ancora più complicato trovare un politico in grado di rappresentarla, però queste persone esistono e sono ormai la maggioranza in città.
I posti dei “gupniki”, quelli delle periferie
A Pietroburgo non ci sono state grosse manifestazioni di recente, ma l’umore della classe media è simile a quello che si vede nelle strade di Mosca. Anche qui, la scorsa estate, Putin ha dovuto sostituire il governatore della provincia. La legge prevede che questa carica non sia decisa dai cittadini attraverso il voto, ma sia affidata dall’alto, direttamente dal Cremlino, secondo la regola del potere verticale. Così, quando la popolarità di Valentina Matviyenko si è abbassata al minimo storico, i piani alti hanno messo al suo posto un ex agente dei servizi segreti, Gregori Poltavchenko. “Voi pensate che una cosa del genere potrebbe accadere nel resto dell’Europa?”, chiede Oleg, un impiegato che passa la sera al bar Fidel, locale culto sulla Dumskaya. “Il punto è questo: la nostra società è diventata stabile negli ultimi dieci anni e questo è merito soprattutto di Putin, ma ora stiamo passando alla stagnazione – dice Oleg – Vogliamo diventare davvero un paese moderno? Bene, allora è il caso che questi personaggi da film degli anni Sessanta si diano da fare, oppure che si tolgano di mezzo”.
A giudicare dal numero di auto della polizia che si alternano davanti al Fidel e agli altri bar della Dumskaya, si direbbe che questa strada sia uno dei pensieri maggiori per le autorità del posto: la scorsa estate, dopotutto, i giovani artisti del gruppo Voina sono partiti da una di queste baracche per disegnare un pene enorme sul ponte mobile che si leva di fronte alla sede dei servizi segreti. Ma la sensazione di pericolo maggiore si avverte in un locale fuori dal centro, sulla prospettiva Ligovskey. Il Metro appartiene a quella categoria di luoghi che si possono trovare soltanto per caso, è così russo che sfugge persino agli elenchi da zoo safari delle guide Lonely Planet. Per vedere com’è fatto bisogna attraversare due livelli di sicurezza: prima due buttafuori robusti procedono con la perquisizione alla ricerca di pistole e coltelli; poi una signora in pantofole pretende di guardare dentro tasche e borse per trovare gomma da masticare. Superati i controlli si entra in una palazzina di quattro piani piena di sedicenni in canottiera che ballano, ragazze in gonna corta, ballerini seminudi sui cubi, cameriere tagiche che spazzano il pavimento e musica techno. “Quello è un posto da gupniki”, dice Oleg sorridendo. “Gupniki” è un modo poco carino per descrivere i ragazzi che vengono dalle campagne e dalle periferie. Secondo Oleg, anche loro adesso stanno contro Putin.
Più politica, meno apparati
Il presidente ha tracciato con precisione la distanza fra sé e gli oppositori: da una parte c’è la stabilità, dall’altra l’incubo del putsch, e forse il ricorso alla fotografia del caos da colpo di stato è direttamente proporzionale alla storia di questa nazione, che ha cambiato poche volte forma di governo e quando lo ha fatto è stato attraverso una rivolta, un trauma o un trapasso, ma si è mossa di rado secondo criteri liberali. Certo, gli intellettuali del Jean-Jacques hanno un senso tragico della Russia e fra loro ci sarà chi coltiva il sogno romantico della rivoluzione, roba da raccontare ai nipoti con qualche bella foto color seppia, ma da qui alla marcia sulla Duma ce ne passa. Fatta eccezione per i nazionalisti, che hanno un portamento abbastanza marziale, la gente di Novi Arbat tutto sembra fuorché carne da putsch. I gruppi che protestano per le strade di Mosca non hanno leader carismatici come quelli che guidarono l’Ucraina verso la rivolta nel 2004; non sono organizzati quanto i serbi di Otpor nelle proteste contro Milosevic; e non hanno neppure il sostegno sul quale contarono i giovani di Tbilisi nella rivoluzione colorata. Putin non affronta una guerra civile o un colpo di stato, ma un’opposizione politica che parte dalla classe media, dai burzhoi di città, dai giovani professionisti che sono cresciuti sotto il suo governo e oggi chiedono al Cremlino di completare le riforme, di guardare oltre la stabilità, di risolvere gli equivoci che bloccano lo sviluppo del paese. Il blocco è già numeroso e rischia di crescere nei prossimi anni: per vincere, per dare senso al suo programma decennale, il presidente dovrà usare più politica che apparati. E dovrà farlo prima che l’Ararat torni sul bancone del Jean-Jacques.
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