Perché la Cgil riesce a tenere ancora bloccata la trattativa sul Lavoro

Sergio Soave

La girandola di incontri, prima collegiali, poi separati, poi di nuovo collegiali, convocati dal governo con le rappresentanze sindacali e di impresa per la definizione della riforma del mercato del lavoro sembrano aver risuscitato procedure di contrattazione che, nel recente caso della riforma delle pensioni, erano state assai ridimensionate. La distinzione tra consultazione e contrattazione, d’altra parte, è assai più labile di quel che appaia.

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    Si è svolto al dicastero di via Veneto un incontro fra il ministro del Lavoro, Elsa Fornero e i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Presente anche il leader dell'Ugl, Giovanni Centrella. Al centro dei colloqui il tema dell'articolo 18.

    La girandola di incontri, prima collegiali, poi separati, poi di nuovo collegiali, convocati dal governo con le rappresentanze sindacali e di impresa per la definizione della riforma del mercato del lavoro sembrano aver risuscitato procedure di contrattazione che, nel recente caso della riforma delle pensioni, erano state assai ridimensionate. La distinzione tra consultazione e contrattazione, d’altra parte, è assai più labile di quel che appaia. Quella che invece sembra evidente è una contrazione significativa del potere contrattuale delle rappresentanze in questa fase di crisi economica gestita da un esecutivo “tecnico”. Per rendersene conto basta fare un paragone con quel che accadde con il governo di Carlo Azeglio Ciampi, anche quello un “governo del presidente” con il compito di affrontare una grave crisi economica in un periodo di eclissi della politica, ridotta al timoroso silenzio dall’offensiva giudiziaria. Allora si parlò non senza argomenti di una “supplenza” sindacale che surrogava la rappresentanza politica, e la più importante delle riforme economiche, la sostanziale abolizione della scala mobile, fu adottata in seguito a un sofferto ma fondamentale accordo con i sindacati. E’ vero che il segretario della Cgil di allora, Bruno Trentin, dopo aver firmato l’accordo si dimise, perché considerava quel passo una sconfitta di tutta una strategia, ma in sostanza si dimostrò che il sindacato era in grado di esercitare una funzione decisiva anche quando doveva gestire una ritirata.

    La forza contrattuale dimostrata allora fu però rapidamente sperperata per una serie di errori, a cominciare dalla battaglia condotta da Sergio Cofferati contro la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che finì con l’esaurire la spinta riformista della Cgil, di cui pure Cofferati era stato un esponente di punta.

    Forse, per comprendere il fenomeno del declino del potere contrattuale del sindacato, si dovrebbe indagare meglio il rapporto tra qualità della contrattazione e potere contrattuale. Anche in periodi di immensa forza contrattuale, le rappresentanze sociali hanno concluso accordi che si sono dimostrati nel tempo dannosi per l’economia produttiva e quindi in definitiva per i loro stessi rappresentati, i lavoratori e le imprese. Il caso più classico è quello dell’accordo interconfederale del 1975, firmato da Gianni Agnelli e da Luciano Lama, in cui si introdusse un meccanismo di rivalutazione automatica ed egualitaria dei salari che produsse un’inflazione incontrollabile, si abolì la differenziazione territoriale, con l’effetto di penalizzare l’economia meridionale, si inventò la cassa integrazione straordinaria che servì in molti casi a tenere in vita artificiosamente imprese decotte riducendo la competitività del sistema.

    Non è un caso se molte delle riforme considerate necessarie oggi rappresentano una correzione delle conseguenze di quell’accordo. Senza entrare nei particolari, questo esempio serve a mettere in luce che non basta un forte potere contrattuale per garantire la qualità della contrattazione.

    Il processo contrattuale risente ovviamente delle condizioni economiche generali, non solo in modo diretto per la disponibilità più o meno rilevante di valori economici contrattabili, ma anche per il modo in cui i risultati contrattuali vengono percepiti. In una fase di crescita i vantaggi ottenuti da una specifica categoria vengono interpretati come “conquiste” destinate a essere prima o poi estese a tutti, in una fase di declino o di incertezza vengono considerati come privilegi di alcuni che gli altri sono destinati a pagare. L’inamovibilità dei dipendenti pubblici, per esempio, o le loro condizioni di lavoro meno sottoposte a una disciplina produttiva, solo pochi anni fa erano considerate come risultati da estendere, oggi provocano reazioni di segno opposto nei lavoratori del settore privato, dove, peraltro, le garanzie più robuste dei dipendenti delle grandi imprese (a cominciare dal fatidico articolo 18) appaiono ai dipendenti di quelle minori e ai lavoratori precari come causa della loro condizione meno favorita.
    La fisarmonica della contrattazione, cioè il meccanismo secondo cui a una fase di miglioramenti settoriali ne seguiva una di estensione generalizzata dei benefici, non suona più. Così alla lunga una cattiva qualità della contrattazione, che ha trascurato o apertamente contrastato la produttività come fonte del reddito, ha finito con il creare una situazione di depressione salariale, che a sua volta ha ridotto la forza contrattuale delle rappresentanze. Anche in questo caso la qualità del prodotto, che è la contrattazione, definisce la competitività del produttore, che sono le rappresentanze sociali.

    Naturalmente non tutti i sindacati, non tutte le rappresentanze d’impresa, sono eguali, come dimostra la dialettica che anima la discussione in Confindustria dopo la separazione del settore automobilistico e le differenze che spesso diventano contrapposizioni tra le confederazioni sindacali (e la Fiom che si comporta come se fosse un sindacato-partito autonomo dalla stessa Cgil). La linea adattativa della Cisl ha tenuto aperto lo spazio negoziale, ha mantenuto una disponibilità costruttiva ad affrontare i problemi della produttività, innovando il sistema negoziale, sia al livello nazionale sia a quello aziendale. La Cgil “reale” nella azione concreta delle sue categorie e delle rappresentanze aziendali segua anch’essa di fatto una linea adattativa, ma ai vertici resta legata a  principi astratti che l’hanno esclusa in molti casi dalla contrattazione.

    Gestire una fase di crisi in cui gli spazi contrattuali di miglioramento sono ridottissimi e la pressione della disoccupazione è difficile da sostenere mette le rappresentanze sociali in una condizione critica, che richiede coraggio e innovazione. La contrattazione è uno strumento essenziale della dialettica sociale e della stessa vita democratica, ma deve essere ripensata con umiltà e capacità di ascolto e di rapporto con i rappresentati da parte di tutti i suoi protagonisti.