Questione di quidditas

La zizzania politica non c'è ma si vede (fino alle elezioni)

Salvatore Merlo

“Noi sosteniamo il governo Monti lealmente, in opere e omissioni”. La battuta di Angelino Alfano funziona abbastanza e rende l’idea di quello che (non) accade. Casini, Bersani, Alfano e i loro partiti, dopo molti mesi di cauta e imbarazzata concordia, superata la fase dei vertici clandestini nell’ombra del Palazzo, e anche quella delle strette di mano alla luce del sole, a meno di due mesi dalle elezioni amministrative riscoprono un po’ i pregi della litigiosità, del teatro politico.

    “Noi sosteniamo il governo Monti lealmente, in opere e omissioni”. La battuta di Angelino Alfano funziona abbastanza e rende l’idea di quello che (non) accade. Casini, Bersani, Alfano e i loro partiti, dopo molti mesi di cauta e imbarazzata concordia, superata la fase dei vertici clandestini nell’ombra del Palazzo, e anche quella delle strette di mano alla luce del sole, a meno di due mesi dalle elezioni amministrative riscoprono un po’ i pregi della litigiosità, del teatro politico. “Non si tocca la Rai, né la giustizia”, dice Alfano: “Prima di tutto il lavoro”; e Bersani ironico a modo suo gli risponde: “Sono felice che anche lui abbia scoperto la tuta blu”. Sui quotidiani si affacciano, nei titoli e nelle pieghe di alcune interviste, allusioni sulla tenuta del governo, quando basterebbe osservare la flemma di Mario Monti – nemmeno un accenno di preoccupazione – per misurare la differenza che passa tra l’effetto di scena e la realtà delle cose.

    Il professore li riceverà oggi a Palazzo Chigi, i segretari politici desiderosi di distinguersi l’uno dall’altro, di recuperare ciascuno il proprio “quid” perduto nella melassa di una maggioranza tripartita che nessuno vuole chiamare grande coalizione. Pier Ferdinando Casini, il meno agitato fra tutti, quello forse più convinto di avere l’acqua per l’orto, ieri pronosticava agli amici, serafico: “Parlerà soprattutto Monti. Berlusconi va rassicurato, ammesso che ce ne sia davvero bisogno. Non si vuole fare nulla a dispetto suo. Malgrado lui non possa pretendere che il governo non metta bocca neanche un po’ su Rai e Giustizia”. Il che significa un nuovo direttore generale alla Rai (Enrico Bondi?) espressione pura del tecnomontismo. Insomma la televisione di stato e la Giustizia non sono dei veri problemi, Casini le ha definite “bambinate” in un’intervista sul Corriere della Sera, perché al leader dell’Udc (come ad Alfano e Bersani, che però conservano un istinto concorrenziale sul mercato dei voti) non sfugge l’intenso lavoro di mediazione che ha già sgombrato il campo dai veri rischi.

    C’è il teatro, il palcoscenico sul quale ognuno dei leader recupera la propria individualità, è c’è poi il backstage nel quale lavorono i gruppi parlamentari: al Senato il disegno di legge sulla curruzione è già stato stralciato, con l’accordo di tutti, delle parti considerate divisive, pericolose. E quanto agli assetti della televisione di stato, è ormai chiaro che nessuno ha intenzione di riformarne la governance. Rimangono le frequenze televisive, ed è vero – come si lamentano i legati del Pdl – “che Corrado Passera non risponde da quindici giorni”, ma anche lì nessuno percepisce un pericolo che non sia puramente irrazionale. La sinistra del Pd, l’Idv e l’Udc raccolgono firme perché Passera vada avanti con l’asta sulle frequenze, ma poi Roberto Rao, alter ego di Casini, come ha scritto anche il Foglio ieri, spiega che “il meccanismo dell’asta è quasi impossibile da portare avanti”. Ed è la politica che torna ad affacciarsi, con le sue ambiguità e i suoi recessi sfumati, nell’apparente piattume della tecnocrazia. Anche l’Aventino del Pd risponde a logiche politiche, persino di equilibrio interno alle correnti. Lo ha spiegato ieri Repubblica: “Se sarà l’intero Pd a chiedere al segretario di fare dei nomi per il consiglio di amministrazione Rai, Bersani potrà respingere gli appetiti evitando la lotta tra le correnti. Avrà mani libere per scegliere lui”.
    “Gli attriti sono la fisiologia in una logica di coalizione come quella nella quale ci muoviamo”, dice l’ex sottosegretario berlusconiano Andrea Augello, che, assieme a Daniela Santanchè (“anche l’ammuina è politica”) avverte meno di altri dirigenti la necessità di drammatizzare. Come Alfano, anche Bersani vuole dimostrare tutta la sua quidditas. Al primo, Gianni Letta ha fortemente consigliato di fare movimento, di prendere posizione su tutto, di “emergere” come prodotto ben definito di marketing politico. E Alfano si è liberato un po’ della grisaglia lessicale a vantaggio di uno slang a suo modo berlusconizzato (tipo: “Le banche devono dare i soldi al popolo”). Le esigenze di Bersani non sono poi così diverse. Da qui al 2013 si gioca la leadership del centrosinistra, anche sul mercato del lavoro e sull’articolo 18. Gli basta uno scampolo di bandiera concesso dal ministro Fornero per potersi dichiarare vincitore. E sa di averlo praticamente in pugno. “Nelle ultime ore c’è qualche spiraglio positivo”, ha detto. Ma il teatro non si fermerà oggi. “Tocca aspettare dopo le amministrative”, dicono gli smaliziati.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.