Le manette di Mao
E’ lunedì sera e Wang Lijun guida verso Chengdu, nel cuore della Cina occidentale, quattro ore e mezza di auto dalla sua Chongqing. E’ il 6 febbraio, l’ultima giornata di festa per il nuovo anno, l’anno del Drago. L’amata Mercedes bianca, questa volta, è rimasta a casa. Deve muoversi in incognito, leggermente camuffato. E’ solo: il suo autista è stato arrestato quattro giorni prima, insieme ad altri dieci dei suoi uomini della polizia della megalopoli di Chongqing.
E’ lunedì sera e Wang Lijun guida verso Chengdu, nel cuore della Cina occidentale, quattro ore e mezza di auto dalla sua Chongqing. E’ il 6 febbraio, l’ultima giornata di festa per il nuovo anno, l’anno del Drago. L’amata Mercedes bianca, questa volta, è rimasta a casa. Deve muoversi in incognito, leggermente camuffato. E’ solo: il suo autista è stato arrestato quattro giorni prima, insieme ad altri dieci dei suoi uomini della polizia della megalopoli di Chongqing. Mancano due ore a mezzanotte quando Wang Lijun ferma l’auto davanti al consolato americano, a Chengdu. Ancora non lo sa, ma ci passerà un’intera giornata. Una cosa, però, il superpoliziotto Wang la sa bene: sta per fare l’atto politico più rischioso degli ultimi anni in Cina.
Fino agli arresti del 2 febbraio, Wang Lijun era il braccio armato del politico più ambizioso del paese, l’ex ministro al Commercio Bo Xilai. Allontanato a Chongqing nel 2007, a duemila chilometri dalla capitale in cui per anni era stato protagonista della vita del Partito, l’ambizioso Bo (il suo nome proprio, traslitterato, suona “sci-lai”) aveva studiato una formula per ritornare alla guida del paese dall’ingresso principale: rendere la provincia d’esilio, Chongqing, un territorio grande come l’Austria abitato da trenta milioni di persone, il laboratorio politico della nuova Cina. Con cinque anni davanti – i nuovi leader del Partito saranno ufficializzati il prossimo autunno – Bo avrebbe potuto fare di Chongqing una vetrina della sua visione del paese, un’alternativa a quelli che, dei due pilastri del dopo Mao (nazionalismo e sviluppo economico), avevano nettamente privilegiato il secondo.
La filosofia di Bo è lontana dalla linea mercatista che si è imposta fra i dirigenti delle industrializzatissime regioni della costa: una rete di welfare per tutti i cittadini, ostilità marcata verso le multinazionali occidentali e soprattutto, come recita il suo credo, “cantare le lodi dei rossi e colpire duramente i neri” – dove rossi sono gli eroi dell’era maoista e i neri sono i criminali e i corrotti, da reprimere senza alcuna pietà. Le sue iniziative patriottiche, votate a una ripetizione esasperata di ritornelli, simboli e codici estetici dell’era rivoluzionaria, suonano come miele per le orecchie dei numerosi nostalgici tra i ranghi del Partito e dell’esercito. Tutti, prima o poi, sono passati a vedere un’ideale di società in azione che, per loro grande stupore, sembrava funzionare in modo sempre più efficiente. Negli ultimi anni, chiunque si sentisse minimamente a disagio tra i paradossi della convivenza tra comunismo e libero mercato in Cina doveva per forza venire in pellegrinaggio a Chongqing. Cinque dei sette membri del comitato centrale del Partito hanno visitato la città modello, lasciando ognuno grandi lodi all’abilità di Bo (degno erede del padre, l’eroe della rivoluzione Bo Yino). Anche il futuro segretario generale del Partito Xi Jinping (all’estero si preferisce “futuro presidente”, desta meno imbarazzo) si è presentato più volte alle porte della città modello. L’ha fatto notare a Bo, con la sottigliezza che gli è solita, uno che è venuto spesso a studiare da vicino Chongqing, l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger: “Mi pare di aver capito che la prima cosa che il nuovo vicepresidente Jinping ha fatto, dopo l’elezione, sia stata venire qua per tre giorni”, ha detto durante la sua visita di settembre.
Con la sua città-stato a garantire per lui, Bo Xilai si era allargato su scala nazionale, come alfiere di un’altra Cina possibile, quella in cui era arrivato il momento di dividere la torta dei traguardi economici raggiunti, badando bene a redistribuire tutto con equità. Bo il campione dei valori dimenticati, tanto ambizioso da farsi installare un neon con scritto “Segretario Bo, tu lavori duro”, calco del vecchio slogan popolare che, al suo posto, vedeva nientemeno che “Nonno Mao”.
La trasformazione di Chongqing in un caso di scuola, però, è in gran parte merito di quel Wang Lijun che la notte del 6 febbraio ha scelto di asserragliarsi nel consolato americano di una città vicina. O, meglio, del vicesindaco “RoboCop”, come era stato soprannominato per il piglio da campione della gestione giacobina della sicurezza. Esautorato il capo precedente della polizia, condannato all’iniezione letale nel luglio 2010, Bo aveva garantito a Wang poteri illimitati. Alle sue dipendenze c’era un corpo di sicurezza con uniformi, nomi ed equipaggiamento differenti rispetto a quelli del resto del paese. Un cambiamento arbitrario, con il solo scopo di dare a Chongqing delle forze di polizia proprie e forse, all’occorrenza, anche indipendenti.
Con l’assenso di Bo Xilai, Wang aveva ordinato arresti altolocati, con notevole sfoggio di irriverenza – come quando avevano messo in prigione il figlio dell’eroe della rivoluzione Peng Zhen perché aveva difeso in tribunale un boss locale. A Wang, in polizia da quando aveva 25 anni, non era servito molto tempo per farsi un nome costruito sul ricorso alla forza senza troppe remore e sull’amore per le scenate plateali. Non c’è racconto su di lui che non riporti, ad esempio, l’irruzione nell’hotel dove soggiornava il boss Yang Fu, già campione di boxe, steso dallo stesso Wang Lijun con un montante al viso. In meno di due anni a Chongqing, la premiata ditta Bo Xilai - Wang Lijun aveva portato in carcere duemila criminali (inclusi anche membri del Partito dati per corrotti), tredici dei quali condotti al patibolo e chissà quanti rimasti uccisi tra le maglie dei passaggi intermedi. Per un paese dalla corruzione così vistosamente dilagante, i record dei manettari di Chongqing avevano garantito al modello neo maoista un sostegno solido e trasversale.
Tanto che, in vista del ricambio ai vertici del Partito, diventato improrogabile a dieci anni dall’ascesa di Hu Jintao, la fazione di Bo Xilai poteva mirare a un numero di posti per nulla minoritario. La transizione andava curata in ogni passaggio, sperando di ripetere un avvicendamento come quello tra Jiang Zemin e l’attuale segretario generale Hu Jintao nel 2002, caso unico di cambio al vertice di un Partito comunista senza spargimenti di sangue. Con il mondo attento a ogni dettaglio di quella nuova cremlinologia che cresciuta attorno ai palazzi di Pechino e con i cittadini euforici per i microblog di Weibo (una sorta di Twitter cinese) bisogna preservare una facciata pubblica impeccabile (non sono più i tempi di Jiang Zemin, che nell’89 era arrivato alla nomina travestito da operaio su un’utilitaria Volkswagen). E la coreografia per il cambio, dopo un lavorìo carsico durato anni, era stata stabilita: l’attuale vicepresidente Xi Jiping al posto del presidente, il vicepremier Li Keqiang al posto del primo ministro.
Per Bo Xilai s’era preparato un posto nel Politburo, il consiglio di nove gerarchi del Partito, quello che rende la leadership più opaca, impersonale e compatta. Il Politburo non si occupa delle decisioni ordinarie, per quelle ci sono già i ministri. Il suo compito principale è garantire la presa del Partito sulla società, sull’economia e sull’esercito, garantire l’immagine che la Cina ha e dà di se stessa. Sotto al Politburo c’è un sistema in buona parte segreto eppure enorme, con capillari in tutto l’apparato pubblico, militare e politico, per condizionare le decisioni, raccogliere informazioni, garantire che tutto nel paese segua armonicamente i piani dei nove gerarchi del Partito. La lotta per quei posti sembrava essersi assestata su un’equa divisione tra le posizioni simili a quella di Bo Xilai e la parte del Partito più tentata dal capitalismo senza freni.
C’erano stati confronti, ma sempre a distanza, sempre alimentati da finezze, come impone il galateo del Partito. Wang Yang, ad esempio, leader della provincia del Guangdong, il cuore industriale che circonda Shanghai, aveva risposto alla metafora della torta citata da Bo Xilai: “Per rendere la torta più grande, dobbiamo concentrarci sullo sviluppo economico”, aveva detto, ammiccante, in un suo discorso. Il vento, però, era sempre più a favore di chi predicava la redistribuzione della ricchezza. Un favore crescente, da mesi, che porta qualche sospetto anche sulla gestione dei recenti casi di dissidenza nel Guangdong (le rivolte nel villaggio di Wukan e quelle di Haimen contro la costruzione di una centrale a carbone). Se si considera che nulla sulla stampa cinese nasce spontaneo e che il Partito ha imparato ad alimentare ad arte qualche piccolo scoop negativo (per evitare che gli scoop li facciano altri e per dimostrare una presunta apertura al dialogo e al nuovo, ha scritto Anne-Marie Brady), il fatto che i manifestanti abbiano ottenuto tutto ciò che chiedevano, permettendo alla stampa di celebrare la clemenza del mercatista Wang Yang lascia il sapore tipico dell’artefatto. Il leader apprezzato su scala nazionale per la sua fede nel mercato più spregiudicato, Wang Yang, sfrutta l’occasione per dipingersi amico del popolo, per sembrare anche lui un po’ Bo Xilai. Ha capito dove va il vento: per essere vincenti, virare verso Xilai, dimostrarsi concilianti con i vecchi valori maoisti, che tanto bene hanno funzionato nella città di Chongqing.
Tutto questo, però, prima di febbraio, prima dell’inizio dell’anno del Drago, quello in cui il braccio armato di Bo Xilai si è ritrovato di colpo, da capo plenipotenziario della polizia, a vicesindaco con delega ai beni culturali e alla cura del verde pubblico di Chongqing. Un cambiamento troppo brusco per non esser notato, una piccola crepa che rischiava di attirare le attenzioni indesiderate di quelli che da tempo aspettavano un passo falso del manettaro Bo. Il padre del (sempre meno credibile) miracolo Chongqing aveva fatto di tutto per evitarlo: mesi prima aveva protetto il suo superpoliziotto Wang Lijun da un’indagine nata in una città più a nord est, Tieling. Gli accusatori parlavano di livelli di corruzione da città del peccato. E Wang Lijun, a Tieling, aveva comandato tutte le operazioni di polizia per ben nove anni. Per mesi, Bo Xilai ha tenuto il suo uomo fidato al riparo dagli attacchi.
Poi, all’improvviso, la sua iniziativa ha cambiato di segno e gli uomini fidati di Wang Lijun sono stati arrestati. In linea con l’ossessione cinese per i proverbi, ce n’è uno anche per spiegare il ripensamento di Bo. L’ha trovato una fonte del Financial Times: “Quando il cane non serve più per dar la caccia ai conigli, lo si mette in padella per mangiarlo”. Solo che il cane, in questo caso, l’ha fatta franca. Di lui non s’è saputo nulla per quattro giorni. E ora è riemerso, asserragliato in un consolato americano.
A nessuno piace sapere che il re della lotta al crimine, la scatola nera delle trame che hanno influenzato l’idea che la Cina ora ha del suo futuro, è da ore a tu per tu con ufficiali degli Stati Uniti. Per salvarsi, Wang Lijun potrebbe raccontare ai diplomatici qualche retroscena interessante, condendolo a suo piacimento.
Tutti danno per assodato che in quelle ore passate al consolato Wang faccia richiesta d’asilo – domanda respinta, dicono fonti del New York Times, per non creare imbarazzi proprio ora che il futuro segretario Xi Jinping stava per volare negli Stati Uniti, dove avrebbe incontrato il presidente Obama, il suo staff e gli agricoltori dell’Iowa. Le ore passano, Bo Xilai è furioso e prova un gesto disperato, mandando settanta mezzi della polizia, tra auto e camionette, ad assediare il consolato. Una mossa arrogante, da colpo di stato: sigillare le vie attorno a una sede diplomatica straniera, in una città vicina, chiaramente al di fuori della propria giurisdizione. L’uomo immagine del neo maoismo non è l’unico a essere preoccupato: anche Pechino manda i suoi agenti della pubblica sicurezza a presidiare il consolato.
Alle sei di martedì pomeriggio, a meno di ventiquattr’ore dal suo arrivo, Wang Lijun esce, accompagnato dal suo vecchio sindaco Huang Qifan. Si deve far largo fra un miscuglio di uniformi, quelle degli uomini che una volta comandava e quelle degli agenti mandati dal corpo centrale del Partito. Sarà portato via, chiaramente, dai secondi – non prima di urlare, secondo alcuni testimoni, “sono una vittima dell’ambizione e dei crimini di Bo Xilai, racconterò tutto per far cadere lui e sua moglie”.
L’indomani, alle otto e mezza del mattino, Wang Lijun è sul volo CA 4113 per Pechino, scortato da sette alti ufficiali. Le autorità della città in cui pochi giorni prima dettava la sua legge informano, con un comunicato, che “il vicesindaco Wang Lijun, che è stato sottoposto a pesanti carichi di lavoro e notevole stress mentale per un lungo periodo, è seriamente indisposto a livello fisico. Di comune accordo, si è preso un soggiorno medico per curarsi”. Gli osservatori di tutto il mondo si rileggono più e più volte la storia, cercando indizi, dettagli dissonanti, una spiegazione. Se cercava asilo, perché se n’è andato “di sua spontanea volontà”, come dicono fonti diplomatiche americane? Si fa strada l’ipotesi che abbia cercato un porto sicuro dove attendere l’arrivo delle forze del Partito, da Pechino, alle quali poi si è consegnato. Secondo il sito di dissidenti all’estero Boxun, Wang Lijun ha saputo di un colpo di mano organizzato dal capo delle forze di sicurezza del Partito e da Bo Xilai per ostacolare l’incoronazione del futuro presidente Xi Jinping. Una notizia a cui non si concederebbe più di un sorriso, se non fosse che le fonti di Boxun sono le stesse che hanno permesso al sito internet di diffondere per primo la notizia dell’ingresso di Wang Lijun nel consolato americano (notizia, come s’è visto, più che verificata).
Di certo c’è che Bo Xilai, invece di lanciarsi verso Pechino per dare le sue spiegazioni, è andato a visitare un importante avamposto militare nello Yunnan, per dimostrare che buona parte dell’esercito è ancora dalla sua. Secondo alcune voci, starebbe preparando una manifestazione di popolo, per mettere bene in chiaro il sostegno popolare di cui ancora godrebbe. Ha scritto una lettera in cui si prende tutta la responsabilità di avere promosso Wang Lijun alla sua destra “senza aver fatto indagini sufficienti sul suo conto”. L’11 febbraio, Bo Xilai ha incontrato il premier canadese Stephen Harper, in visita in Cina. Ma a giudicare dalla copertura della stampa cinese, su cui nulla finisce per caso, la sentenza su Bo è già stata scritta. I resoconti della visita del primo ministro canadese, diffusi dall’agenzia statale Xinhua e ripresi dai giornali di Partito, questa volta titolano: “Il primo ministro canadese visita Chongqing”. Per il prodigioso Bo Xilai, questa volta, nessuna citazione. Nessun riferimento, nemmeno una fotografia. Al suo posto, il nome di quella città che, grazie a lui, era diventata la vetrina dei successi magnifici e progressivi della politica neo maoista. Un miracolo apparente, che forse, a questo punto, potrebbe avere costruito invano.
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