La zizzania del Pd

Claudio Cerasa

Vasto o non Vasto? Casini o non Casini? Di Pietro o non Di Pietro? Vendola o non Vendola? Monti o non Monti? Terzo polo o Quarto polo? Bersani o non Bersani? Fiom o non Fiom? Primarie o non primarie? Congresso o non congresso? Direzione o non direzione? Tedesco o spagnolo? Grande Coalizione o piccola coalizione?

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    Vasto o non Vasto? Casini o non Casini? Di Pietro o non Di Pietro? Vendola o non Vendola? Monti o non Monti? Terzo polo o Quarto polo? Bersani o non Bersani? Fiom o non Fiom? Primarie o non primarie? Congresso o non congresso? Direzione o non direzione? Tedesco o spagnolo? Grande Coalizione o piccola coalizione? Negli ultimi tempi, probabilmente ve ne sarete accorti, il Partito democratico non ha perso occasione per dare modo agli osservatori di notare l’esistenza di un numero sempre maggiore di punti di frattura presenti all’interno del, diciamo così, vivacissimo mondo del centrosinistra italiano. E così, dal rapporto con il governo Monti fino alla complicata questione delle alleanze con i compagni della foto di Vasto, capita ormai con una certa continuità di non riuscire a capire, al di là delle dichiarazioni di rito e delle interviste di facciata, che cosa passi per la testa dei vari Pier Luigi Bersani, Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Enrico Letta, Giuseppe Fioroni, Dario Franceschini, Stefano Fassina e tutti gli altri principali azionisti di maggioranza del Partito democratico. Ecco: siamo partiti da questa premessa e abbiamo provato a fare due passi nel pazzotico labirintone democratico, e, dopo aver parlato per alcuni giorni con amici, colleghi, conoscenti, seguaci, collaboratori e semplici compagni dei più importanti esponenti del partito, abbiamo buttato giù una piccola mappa per farvi orientare meglio nel complicato universo del centrosinistra e farvi capire qualcosa di più sulle traiettorie scelte dai più importanti dirigenti del Pd per prepararsi, con calma, alle prossime elezioni.

    I muscoli del segretario. Pier Luigi Bersani sa che se vorrà traghettare il Pd fino alle politiche del 2013 dovrà riuscire a vincere una scommessa non facile: far coesistere all’interno dello stesso partito il fronte degli iper-montiani (fronte convinto che il governo guidato dal professor Monti sia la mecca del riformismo italiano) con il fronte degli scettico-montiani (fronte convinto che il governo guidato dal professor Monti non sia la mecca del riformismo italiano ma solo una parentesi indispensabile per ridare ossigeno al paese, e niente di più). Finora, Bersani è riuscito a farsi promotore con generosità di una sorta di Terza via democratica, e nonostante alcuni passi falsi compiuti negli ultimi mesi – primarie di Genova e Palermo – il segretario sa di non avere grandi avversari lungo il percorso che lo separa da qui alle prossime elezioni. Certo: a fine anno ci saranno (se ci saranno) le primarie per la premiership del centrosinistra, ma in cuor suo il segretario è convinto che le primarie saranno una semplice formalità. E se poi anche Matteo Renzi dovesse decidere di scendere in campo il leader del Pd ha già un piano per evitare di regalare la vittoria a Nichi Vendola: far gareggiare anche un candidato molto di sinistra, come Enrico Rossi o persino Anna Finocchiaro, capace di rosicchiare consenso a Nichi e non creare anche a livello nazionale un altro caso Genova. In tutto questo, poi, bisogna dire che il profilo con cui Bersani proverà a rinnovare il volto del Pd sarà sempre di più legato non tanto alla vecchia foto di Vasto quanto a un’altra foto che domani verrà scattata a Parigi, e che ritrarrà insieme il leader del Pd con il leader dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel e con il leader dei socialisti francesi François Hollande. Bersani, che ha investito molto nella foto-manifesto di Parigi, anche a costo di esporsi all’accusa di voler trasformare il Pd in un partito socialdemocratico, è convinto che agganciare il centrosinistra alle esperienze degli altri centrosinistra europei possa essere un modo per raggiungere due obiettivi non secondari. Il primo: innescare un meccanismo virtuoso che possa dare al paese la possibilità di arrivare alle elezioni con due grandi partiti a vocazione maggioritaria capaci di contendersi la premiership all’interno di un nuovo schema bipolare (per capirci, Pse italiano da un lato e Ppe italiano dall’altro). Il secondo: riuscire, attraverso il rapporto costruito con le altre leadership socialdemocratiche del Continente, a dare al Pd la copertura giusta per salvare il partito da qualsiasi tentazione neocentrista e per rivendicare allo stesso tempo il proprio profilo alternativo alle piattaforme neoliberiste europee (modello Merkel, naturalmente, e, più sommessamente, modello Monti). Il segretario, naturalmente, sa che la maggioranza del suo partito ha, sulle politiche del governo Monti, un giudizio molto diverso (e molto meno severo) rispetto al suo, e anche per questo Bersani è consapevole che nei prossimi mesi non potrà fare a meno di imbattersi in alcune imboscate che gli verranno organizzate dai nemici interni del Pd. In realtà, però, il tempo gioca a favore di Bersani. E considerando che per il centrodestra le prossime amministrative con ogni probabilità saranno un mezzo disastro, i bersaniani sono convinti che da maggio in poi nessuno si sognerà di mettere in discussione la leadership del segretario. Nessuno, sì: almeno ad alta voce nessuno.

    Il piano B dell’ex segretario. Walter Veltroni è uno dei dirigenti del Pd che ha tratto più benefici dall’insediamento del governo Monti. L’ex segretario è stato il primo esponente del Partito democratico ad aver teorizzato un anno fa la necessità di promuovere una “fase di decantazione” per ridare stabilità al nostro paese, e il fatto che successivamente il governo Monti abbia accolto alcune delle proposte presentate nel gennaio del 2011 dai veltroniani al Lingotto (dalla riforma delle pensioni al pareggio di bilancio) ha ridato all’ex sindaco di Roma nuova centralità all’interno del Pd. Veltroni – le cui posizioni negli ultimi tempi si sono sovrapposte così tanto con quelle dei lettiani al punto che dalle parti di Modem spesso arrivano gustose veline relative alle presunte smanie di leadership del vicesegretario – sostiene di non avere alcun tipo di ambizione personale, e ai suoi interlocutori, molti dei quali lo vedono indaffarato a costruirsi a poco a poco un profilo da spendibile riserva della Repubblica, confida spesso di volersi soltanto occupare di non far perdere al Pd l’occasione di rigenerarsi con l’esperienza del governo Monti. Con l’espressione “rigenerarsi” Veltroni sottintende un teorema condiviso da tutti gli ipermontiani del Pd, che più o meno è questo: “Monti rappresenta un vero e concreto esempio di riformismo per il centrosinistra e l’idea che questa esperienza, per noi, debba essere soltanto una parentesi è quanto di più suicida si possa sostenere nel nostro partito”. Tradotto dal politichese significa che l’ex sindaco di Roma è convinto che il famoso 42 per cento dell’elettorato che non si sente rappresentato oggi da nessun tipo di partito debba essere ricercato non a sinistra (tesi bersaniana) ma bensì al centro (tesi veltroniana-lettiana-fioroniana-franceschiniana-renziana-prodiana). L’ex segretario del Pd, per il futuro, e per il 2013, crede, anche lui, che sia necessario rimettere “i partiti al centro della politica”, e sogna di poter dare un contributo al Pd per allontanarsi dai radicalismi di sinistra e riallacciare i rapporti con il centro (e con tutto il Terzo polo). Veltroni sa che la sua visione differisce molto rispetto a quella del segretario (che dà ormai per scontato che il centro sia destinato a essere attratto nell’orbita del centrodestra postberlusconiano) ma nonostante questo su Bersani, l’ex leader Pd, non dà un giudizio del tutto negativo. Certo: ogni volta che l’ex sindaco di Roma si esprime sul tema non è mai particolarmente generoso (un mese fa, a un suo interlocutore, disse che il voto che darebbe a Bersani è “zero”) ma allo stesso tempo, con sincerità ogni volta che si ritrova costretto a dare dei voti a Bersani ammette che tutti gli altri potenziali competitor presenti nel centrosinistra sono impresentabili, e che valgono meno di zero e che quindi valgono meno del segretario. Dunque, per il 2013, lo schema di Veltroni è chiaro: tentare di riagganciare il Terzo polo e costruire un grande cartello di centrosinistra (il sogno è farlo guidare a Monti o a un montiano, ma Veltroni sa che è un sogno difficilmente realizzabile). E se poi le cose non dovessero andare bene, e se le elezioni dovessero certificare uno scenario di ingovernabilità, a quel punto Veltroni non metterebbe alcun veto sul secondo colpo in canna, ovvero su una nuova fase di decantazione sul modello Salvati. Che significa? Per conoscenza chiedere a Enrico Letta.

    Il “tutti insieme” del vice Bersani. Enrico Letta è senza dubbio il dirigente del Partito democratico che in questa fase più si riconosce nell’esperienza del governo Monti. Il vicesegretario del Pd – che da buon fustigatore degli anti montiani è sempre il primo a tirare le orecchie a tutti gli esponenti del suo partito che periodicamente definiscono l’esecutivo Monti o troppo di destra, o troppo centrista o troppo simile al governo Badoglio – nonostante lo sfortunato episodio del famoso pizzino fatto recapitare a inizio legislatura al presidente del Consiglio, e poi malignamente inquadrato dalle telecamere, resta il principale esponente del così detto partito dei montiani del Pd. La sua sintonia con l’attuale presidente del Consiglio, però, ha avuto anche l’effetto di allontanare, e non di poco, il vicesegretario dalle posizioni del cerchio magico bersaniano. E chissà, forse lo avrete notato. C’è un dirigente del Pd (magari un bersaniano) che annuncia di andare in piazza per protestare con la Fiom e contro il governo Monti? Ecco che arriva la dura critica di qualche lettiano. C’è un dirigente del Pd (magari un bersaniano) che accusa l’Europa di essere un covo di diabolici neoliberisti pronti a farsi dettare la linea da quei brigantoni della Bce? Ecco che arriva la dura reprimenda di qualche lettiano. C’è un dirigente del Pd (magari un bersaniano) che non condanna quegli alleati della foto di Vasto che quotidianamente mandano a quel paese le politiche del governo Monti? Ecco che arriva la dura censura di qualche lettiano. “Il discorso è semplice – è il ragionamento di Letta – non si può tornare a Vasto, e non possiamo affidare il paese a forze irresponsabili. E in questo senso, se vogliamo davvero far respirare il paese, dobbiamo metterci tutti insieme, con serietà, per dar vita a una grande fase costituente”. Per Letta, però, la sintonia con il pensiero montiano ha delle implicazioni che non riguardano solo le piccole dinamiche interne al Partito democratico. Letta, infatti, con discrezione, è diventato l’esponente del Pd che più degli altri crede nella possibilità di prolungare il tagliando del governo Monti oltre il 2013. Un po’ per le ragioni illustrate due settimane fa da Michele Salvati sulla prima pagina del Corriere (“Serve una seconda ricostruzione… l’opera e l’impegno di questo governo dovranno protrarsi molto oltre la primavera del 2013”), un po’ perché il vicesegretario del Pd crede che le forze che appoggiano Monti hanno il dovere di creare, anche dopo il 2013, le condizioni per promuovere una nuova fase di decantazione (che Letta chiama “Costituente”). Anche per questo, il vice Bersani sostiene sia una priorità per il Parlamento approvare al più presto una nuova legge elettorale (con soglia di sbarramento non troppo alta e premio di maggioranza non troppo grande) che permetta ai partiti di scegliere il candidato e la coalizione non prima ma dopo le elezioni: e che insomma dia la possibilità al Parlamento di valutare, con calma, e nel momento giusto, se esistono o no le condizioni per dar vita, davvero, a un’altra grande coalizione. Ed è vero che l’ipotesi di un Monti bis è oggettivamente un’ipotesi che al momento rientra nel casellario della fantapolitica; ma è altrettanto vero che se si dovesse aprire uno spiraglio per una sorta di Monti dopo Monti di sicuro il Pd dovrà ringraziare (o, a seconda dei casi, maledire) proprio il suo vicesegretario.

    Max e l’opzione senza Bersani. Lo schema a cui Massimo D’Alema pensa ogni volta che si ritrova a immaginare il futuro del centrosinistra è sempre quello, ed è sempre lo stesso ormai da un paio di anni: il Partito democratico deve spostare il suo baricentro sul suo versante più sinistro, diventando quasi un sol uomo con i vendoliani di Sinistra e libertà, e deve allearsi con l’Udc (solo l’Udc, però, ché al Terzo polo D’Alema non ha mai creduto davvero) dando a Pier Ferdinando Casini il compito di raccogliere al centro tutti quei voti dei moderati che il Pd, per forza di cose, non riesce più a racimolare. Certo: a prima vista si direbbe che lo schema di D’Alema coincide perfettamente con lo schema di Bersani, e con il famoso “mettere insieme i progressisti e i moderati” a cui il segretario del Pd fa periodicamente riferimento. Il discorso in parte è vero, ma al contrario di Bersani (sinceramente convinto che possa essere ancora il Pd a raccogliere autonomamente, e senza stampelle, il voto dei progressisti e dei moderati) D’Alema teorizza un percorso diverso, sostenendo che per riuscire a strappare l’Udc al centrodestra (missione quasi impossibile) ci sia solo un modo: mettere al centro dei giochi Pier Ferdinando Casini e offrirgli o la presidenza del Consiglio (ipotesi che ovviamente non fa, diciamo, impazzire Bersani) o la presidenza della Repubblica (ipotesi che D’Alema sponsorizza da anni e con una tale forza da aver creato qualche attrito con il mondo prodiano). L’ex presidente del Consiglio, quando illustra questa sofisticata teoria ai suoi interlocutori (teoria che tra l’altro viene ampiamente condivisa da uno dei fondatori del Pd, quel Goffredo Bettini che a metà degli anni Novanta a Roma realizzò proprio il sogno di D’Alema, mettendo a capo di una coalizione di centrosinistra un centrista come Francesco Rutelli), porta spesso come esempio i casi di due piccoli laboratori locali su cui il presidente del Copasir ha investito molte energie. Il primo è quello di Macerata, dove un anno e mezzo fa il Pd e l’Udc hanno sostenuto insieme (e con successo) lo stesso candidato alla presidenza della provincia (Tonino Pettinari). Il secondo è quello di Brindisi, dove sempre un anno e mezzo fa il Pd e l’Udc hanno sostenuto insieme (e con successo) lo stesso candidato alla presidenza della provincia (Massimo Ferrarese). Due casi di scuola, dice D’Alema. Sia perché in entrambe le occasioni l’alleanza Pd+Udc si è rivelata vincente. Sia perché in entrambi i casi è successo quello che Bersani teme che D’Alema voglia fare con lui: offrire la guida della coalizione a un candidato centrista, per garantirsi poi l’appoggio dei centristi. Nelle Marche e in Puglia ha funzionato. E secondo D’Alema lo schema, diciamo, potrebbe funzionare bene anche a livello nazionale.

    Popolari, Passera e grande coalizione. Giuseppe Fioroni e Dario Franceschini, pur da posizioni diverse, sono oggi i veri custodi del vecchio tesoretto di voti lasciato in eredità dall’ex presidente del Senato Franco Marini (che oggi non ha più né la fantasia né la voglia di occuparsi con assiduità delle noiose questioni correntizie). Fioroni e Franceschini da tempo fanno parte di due fronti che si trovano in perenne conflitto tra di loro (con il primo nella minoranza veltroniana di Modem e il secondo che – dopo essere passato vertiginosamente prima dal dalemismo all’anti dalemismo, poi dal veltronismo all’anti veltronismo, quindi dall’anti bersanismo al bersanismo – si trova ora vicino al segretario del Pd); ma la nascita del governo Monti ha avuto l’effetto di far tornare i due ex Ppi su posizioni non troppo distanti l’una con l’altra. Al punto che in privato Franceschini ammette di sentirsi molto più vicino alle idee dei popolari alla Fioroni che alle posizioni dei bersaniani alla Fassina. Già, ma quali sono le posizioni di Fioroni? E perché mai dovrebbe interessarci cosa pensa il leader minoritario di una corrente minoritaria del Pd? Per due ragioni. La prima è che le posizioni di Fioroni sintetizzano bene il pensiero di tutti coloro che temono che il Pd, spostandosi troppo sul suo versante sinistro, si stia trasformando in un Pds 2.0. La seconda è che le posizioni di Fioroni rappresentano anche un termometro utile a capire cosa si muove in quella misteriosa zona grigia del Pd che sogna la nascita di una nuova formazione centrista. Fioroni, infatti, così come gli altri popolari, difficilmente abbandonerà a breve termine il Pd. Ma nell’attesa che il suo partito riesca a stracciare definitivamente la foto di Vasto (in senso letterale: i popolari del Pd chiedono al partito di non allearsi mai più né con Vendola né con Di Pietro) la verità è che l’ex ministro dell’Istruzione, triangolando con il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, non perde occasione per approfondire le relazioni con tutti i tecnici che fanno parte di questo governo e che hanno buone chance di giocare una propria personale partita al termine di questa legislatura. E con due ministri su tutti: Andrea Riccardi (a cui i popolari del Pd hanno chiesto di candidarsi come sindaco a Roma per contrastare l’altro candidato del Pd Nicola Zingaretti) e Corrado Passera (a cui Fioroni ha confidato che se si dovesse candidare alle elezioni non potrebbe fare altro che stare dalla sua parte). Al di là però degli scenari di fantapolitica, il punto è che i popolari sognano di poter dare un contributo attivo al medesimo progetto a cui discretamente lavorano tanto Enrico Letta quanto alcuni compagni di corrente di Fioroni (i veltroniani di Modem): un Monti bis. “Noi – è il ragionamento dei popolari – vogliamo rimanere nel Pd, e crediamo ancora in questo progetto; ma dall’altra parte sappiamo che un partito come il nostro, se si ostina a considerare come suoi unici alleati due partiti anti riformisti e anti montiani come l’Idv e Sel, è destinato a un fallimento sicuro. E dunque che fare? La soluzione è una: un Monti bis anche nel 2013. O se volete, per essere più chiari, e dicendolo a voce bassa, possiamo chiamarla, la soluzione, pure con il suo vero nome. E il nome naturalmente è quello: la gran-de coa-li-zio-ne”.

    Tra primarie e liste civiche. I due sindaci che andranno più tenuti d’occhio in vista delle prossime elezioni sono senza dubbio Michele Emiliano e Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, nonostante le forze impiegate in questi giorni per sfidare a duello tutti gli osservatori maliziosi che hanno provato a infierire sui suoi rapporti con l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, si considera ancora in pista a livello nazionale, e non ha perso affatto la voglia di sfidare la classe dirigente del Pd. Naturalmente, Renzi sa che i sondaggi che lo riguardano non gli garantiscono la stessa probabilità di successo che aveva sei mesi fa ai tempi della Leopolda, ed è consapevole del fatto che il rischio che corre, in caso di partecipazione alle primarie, è quello di fare la stessa figura fatta da Davide Faraone a Palermo: ottenere un ottimo risultato senza avere però ancora la forza per impensierire gli avversari. Renzi ovviamente questo lo sa, ma nonostante ciò, qualora il centrosinistra dovesse convocare davvero primarie per individuare il candidato premier, il sindaco di Firenze (che tre mesi fa ha affidato a Giuliano Da Empoli la guida del think tank che elaborerà la sua piattaforma governativa e che tra venti giorni presenterà il suo nuovo libro sulla Rottamazione 2.0 e sulla “Rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter”) non ha intenzione di tirarsi indietro. E la stessa intenzione di non tirarsi indietro ce l’ha quello che oggi è, nonostante la nota bizzarra storia delle cozze pelose, degli spigoloni e delle ostriche imperiali, il sindaco più popolare del Pd: Michele Emiliano. Il sindaco di Bari, come è noto, è uno dei critici più feroci del montismo di governo (due settimane fa, proprio a questo giornale, confidò che dal suo punto di vista il governo del Preside, per continuità con il precedente esecutivo, è tale e quale al governo Badoglio), e da ormai qualche mese a questa parte rivendica con convinzione la sua teoria: per salvare il Pd dalla morsa letale dei tecnici bisogna creare un super listone nazionale (magari in collaborazione con i vari Sel, Idv e movimenti demagistrianiani vari) da affiancare al Partito democratico per raccogliere autonomamente i voti di quell’elettorato anti montiano che oggi non riesce a riconoscersi nel profilo del Pd di governo. Il progetto in un primo momento è stato osservato con sospetto e diffidenza dal mondo bersaniano. Ma negli ultimi tempi il segretario ha lanciato segnali non di chiusura verso l’idea di Emiliano, e lo stesso sindaco non esclude che nei prossimi mesi, proprio per non perdere contatto con il mondo movimentista delle liste civiche, il leader del Pd possa dare il suo assenso al listone. Succederà? “Di sicuro – dice Emiliano – se il Pd non vuole morire sotto il peso del governissimo qualcosa si dovrà inventare, e non capire che il partito dei sindaci può salvare anche il segretario francamente credo che oggi sia una vera e propria follia”.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.