Vieni avanti burino
Il ghiaccio, presto, il ghiaccio. I pesci devono restare freschissimi, anzi vivi. “Le formette, mi raccomando, subito”, ordina infatti l’uomo di fiducia del sindaco di Bari, Michele Emiliano, quando a Natale arrivano in omaggio “quattro spigoloni, venti scampi, ostriche imperiali, cinquanta noci bianche, otto astici, cinquanta cozze pelose, due chili di allievi locali di Molfetta”.
Il ghiaccio, presto, il ghiaccio. I pesci devono restare freschissimi, anzi vivi. “Le formette, mi raccomando, subito”, ordina infatti l’uomo di fiducia del sindaco di Bari, Michele Emiliano, quando a Natale arrivano in omaggio “quattro spigoloni, venti scampi, ostriche imperiali, cinquanta noci bianche, otto astici, cinquanta cozze pelose, due chili di allievi locali di Molfetta”. Per chi, essendo rimasto al pleistocene della rucola e delle aragoste, non sapesse nulla degli allievi locali di Molfetta, sono seppioline che si mangiano, naturalmente, crude. Il crudo è il nuovo Rolex. La scalata sociale prevede tavole imbandite di piattoni con dentro ghiaccio tritato finemente (avverbio riferibile, in questo contesto, soltanto al ghiaccio) e, adagiati nel loro letto funebre, gamberi che, non potendo urlare, muovono le antenne e le zampe. Così i commensali possono divertirsi a tirare il colpo di grazia, una forchettata, una coltellata, i più entusiasti una strisciata letale di carta di credito, e poi via in bocca, contenti, perché il massimo della freschezza pulsante significa il massimo dello status symbol. La scena dell’aragosta di “Io e Annie” è archeologia, e lo è anche “Considera l’aragosta” di David Foster Wallace, dove si racconta la bollitura di un numero folle di aragoste al Festival del Maine. La nuova mitologia danarosa prevede pesce a cui batta ancora il cuore: nei ristoranti romani alla moda, gli ingressi fanno sfoggio di queste spaventose cassette piene di frutti di mare e scampi che si muovono all’unisono cantando con la voce dell’anima: vieni avanti, burino.
La spigola non è reato, nemmeno se viene chiamata “spigolone”, e i regali di Natale al sindaco, per quanto eccessivi, non possono venire scambiati per tangenti (anche perché mancava il ghiaccio). Gli allievi locali di Molfetta non sono teneri alunni di Molfetta venduti ai trafficanti di organi, ma sushi barese. Gli spaghettini al caviale da centottanta euro di Luigi Lusi hanno però l’aggravante, oltre al conto-Margherita, di quel suffisso diminutivo, “ini”, che si immagina ripetuto mille volte dal personale: spaghettino, carpaccino, antipastino, champagnino, per mettere i commensali a proprio agio, farli sentire a casa nel salottino (Camilla Baresani, in un bel saggio sui ristoranti del momento per motivi di cronaca e di malaffare, pubblicato su Linkiesta.it, scrive che in questi luoghi è ritenuto fondamentale essere “coccolati” dai ristoratori). Però non resisto, devo fare coming out: sono stata da “Assunta Madre”, a Roma, il regno del pesce vivo, e dopo l’arrivo dell’antipastino che non ho mangiato perché potevo al massimo farci amicizia, essendo vivissimo, il sommelier, costretto dalla politica aziendale a fare battute, mi ha sussurrato che, non essendoci Belen, mi sarei potuta buttare su Fabrizio Corona, entrato in quel momento con uno stuolo di adoratori: gli scampi si appassionavano al rito umiliante dell’intratttenimento e ridevano, il carpaccino, più snob, sussultava di indignazione moralista. Lo spigolone non è stato ordinato, per il terrore di vedere correre un cuoco, anzi uno chef, che desiderasse metterne in mostra gli ultimi palpiti. Si va in quei ristoranti per divertirsi, per farsi notare, per arrampicarsi socialmente, per fare incontri utili e in qualche caso corruttibili, e si rischia invece di affezionarsi al menu e di portarlo a casa in un secchiello.
Il Foglio sportivo - in corpore sano