Cara Mafalda, non avrai mai cinquant'anni, nemmeno tra un secolo

Stefano Di Michele

Cara Mafalda, cinquant’anni: da non crederci (infatti non ci crede neanche il tuo “papà”, il grande Quino, che di anni te ne riconosce solo quarantotto, ma non importa: alla vita gli anniversari tondi non servono, è solo roba per i giornalisti). Cinquant’anni è un’età impossibile, cara Mafalda, è l’età dei perfetti coglioni (che comincia a prendere forma verso i quaranta): si sogna molto meno, ci si adatta più facilmente agli altri – si diventa insopportabilmente noiosi.

    Cara Mafalda, cinquant’anni: da non crederci (infatti non ci crede neanche il tuo “papà”, il grande Quino, che di anni te ne riconosce solo quarantotto, ma non importa: alla vita gli anniversari tondi non servono, è solo roba per i giornalisti). Cinquant’anni è un’età impossibile, cara Mafalda, è l’età dei perfetti coglioni (che comincia a prendere forma verso i quaranta): si sogna molto meno, ci si adatta più facilmente agli altri – si diventa insopportabilmente noiosi. C’è la carriera, ci sono le convenzioni, vincono le convenienze. Il mondo – “questo manicomio rotondo”, dicevi – fa sempre piuttosto schifo, ma a cinquant’anni lo stomaco si è quasi sempre indurito, il fegato è meno sensibile, il cuore va’ a sapere.

    Quando ho letto “Mafalda compie cinquant’anni” – e via coi festeggiamenti!, ma sono solo quarantotto!, fa niente, si festeggia – ho avuto un tuffo tra cuore e gola: in un lampo ti ho vista mutata in orrida signora benpensante e di vasta stazza (il pancino che mettevi sempre fuori, per dialogare con il tuo ombelico, avanzando il sospetto che fosse direttamente la firma di Dio sugli esseri umani, faceva sospettare una futura rotondità), le labbra orribilmente rifatte come tutte le carampane che si vedono in giro, a discutere con la tua amica Susanita – che quella sempre di figli e mariti, mariti e figli voleva discutere e la triste sorte declamava, “casa mia, il quattrino non manca, un bel maritino al mio cuore è unito come un capello al bigodino”, e tu sbadigliavi, urlavi, le scaraventavi il bambolotto in testa.

    Poi dal lettino la sera osservavi la luna: “Poverina! Pensare che sei solo lo zerbino dell’universo”. Il mattino scrutavi a lungo pensierosa il pavimento: “E’ duro farsi coraggio per scendere nel mondo”. Il mondo com’era a te non piaceva per niente – e il mondo com’era intorno a te continuamente contestavi. Era insensato, il mondo fatto dai grandi. Cattivo. Violento. La guerra. La fame. La stupidità – vedevi. Vedevi dei bimbi chiedere la carità. Tornavi a casa. Salivi su una sedia. Aprivi l’armadietto dei medicinali. Prendevi un cerotto. Poi restavi perplessa a guardarlo. “E ora, come si fa ad attaccarsi questa roba sull’anima?”. Scrutatrice di giornali, ascoltatrice della radio: “Il Papa ha elevato una nuova preghiera per la pace…”. E tu: “E Dio era occupato come al solito, no?”.

    Chiamavi spesso in causa Dio – come sanno fare i bambini, non come i grandi che lo fanno per barattarlo e usarlo come scudo. E parlavi di politica con la tua amica Libertà – più piccola di te, e molto più di te anarchica. “Oggi non c’è alternativa: bisogna stare con il popolo… Io vado a stare con il popolo!”, diceva Libertà. E come si fa? La trovata geniale: uno sbirro, armato di manganello, all’angolo di strada. E la piccola anarchica così s’informa: “Scusi, per andare a stare con il popolo, da che parte?”.
    Anche il papà e la mamma, diventavano ovvie vittime della tua insofferenza per lo stato del mondo – il luogo scandaloso dove eri finita. Ecco la mamma con degli spilli tra le labbra, che ti accorcia il vestitino. E tu, perfida e innocente: “Non offenderti mamma, ma è la prima volta che vedo uscir dalla tua bocca tante cose acute”. Ogni tanto il papà accusava qualche colpo di fronte a una tua domanda ingenua e precisa: arrossiva, tossiva, rischiava il soffocamento.

    E allora di corsa andavi a prendere una sedia per metterti più comoda: “Cavolo, non pensavo di aver fatto una domanda tanto interessante!”. Come il Tenente Colombo, come Pippi Calzelunghe, appartieni alla grande storia dei ribelli miti, dei ribelli per davvero, dei ribelli per giustizia, per senso di libertà, per colpa dell’altrui stupidità: i migliori. Con addosso quel perenne dubbio che così bene, e con spavento, esprimevi: “E se nessuna ciambella riesce col buco?”. Volevi quella cosa – così elementare, così banalizzata, così dimenticata – che si chiamava mondo migliore. “O qualche deficiente ha smarrito i progetti?”. E’ un mondo pieno di deficienti, questo – lo sai, Malfalda. Così, si arriva all’estrema soluzione: “Poiché non riusciamo ad amarci gli uni con gli altri, perché non proviamo ad amarci gli altri con gli uni?”. Non avrai mai cinquant’anni, cara Mafalda. Nemmeno tra due anni. O tra cento. Sulla tazza del tè, ogni mattina, da molti anni mi urli: “Oggi mordo!”. Essenziale, per provare a cambiare qualcosa. E tu ancora sei necessaria così: piccola e mordace e saggia. (sdm)