I misteri del Marchionne montiano
“Incontro perfetto”. Sergio Marchionne, sbarcato a Palazzo Chigi alla guida di una Panda rossa, ha definito così l’appuntamento con il premier Mario Monti che fu consigliere di Fiat in anni remoti, tra il 1998 e il 1993, quando John Elkann, che avrebbe invitato al suo matrimonio nel 2004, frequentava ancora il liceo a Parigi. “Perfetto”, probabilmente, perché Marchionne ha potuto sbandierare davanti a Monti, per cui nutre da sempre (ricambiato) sincera simpatia, l’ultima nata italiana di casa Fiat, la Nuova Panda, invece che ripetere che non intende far le valigie e lasciar l’Italia per Detroit.
“Incontro perfetto”. Sergio Marchionne, sbarcato a Palazzo Chigi alla guida di una Panda rossa, ha definito così l’appuntamento con il premier Mario Monti che fu consigliere di Fiat in anni remoti, tra il 1998 e il 1993, quando John Elkann, che avrebbe invitato al suo matrimonio nel 2004, frequentava ancora il liceo a Parigi. “Perfetto”, probabilmente, perché Marchionne ha potuto sbandierare davanti a Monti, per cui nutre da sempre (ricambiato) sincera simpatia, l’ultima nata italiana di casa Fiat, la Nuova Panda, invece che ripetere che non intende far le valigie e lasciar l’Italia per Detroit.
Perfetto, forse, perché il manager ha saputo ribaltare l’evento a modo suo: la convocazione a Roma, sollecitata a sinistra per inchiodare la Fiat a rispettare l’“italianità” del gruppo, è diventata l’occasione per sfoggiare l’ultima nata del gruppo, ovvero fatti e non parole. A partire dagli investimenti in corso: 700 milioni a Pomigliano, l’unico stabilimento che marcia a pieno regime (anzi, marcerebbe se non ci fosse lo stop imposto dallo sciopero delle bisarche); un miliardo e mezzo circa tra Mirafiori e Grugliasco, come già assicurato a Piero Fassino, sindaco di Torino, per montare le linee su cui dovranno nascere Alfa, il Suv Maserati e le linee della Jeep. Chi altri in Italia ha in programma, di questi tempi, investimenti industriali per quasi due miliardi e mezzo? “Eppure di Fiat in Italia si parla solo in termini critici – commenta Giuseppe Berta, storico dell’economia ed esperto del Lingotto – C’è una certa esagerazione, anche nei toni. Come mi ha fatto notare lo stesso Fassino”. In parte, a favorire quest’ostilità, ha contribuito la ruvidità dello stesso Marchionne, che non brilla certo per diplomazia. I suoi inizi con il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, non sono stati idilliaci, almeno finché il ministro non ha chiarito che il governo non aveva alcuna intenzione di “dire a un’azienda quel che deve fare”. In passato, lo stesso Marchionne aveva avuto confronti a muso duro con Corrado Passera, allora amministratore di Intesa e grande creditore, ai tempi del convertendo, di casa Fiat, e ora ministro dello Sviluppo economico.
In parte, pesano scommesse che si sono rivelate un boomerang: Fabbrica Italia, lanciata con grande enfasi, è ben lontana dal traguardo di un milione e 400 mila vetture annue da produrre nel nostro paese entro il 2014. Anzi, da quel giorno d’aprile in cui Marchionne lanciò la sua sfida, le auto montate in Italia sono scese da 900 mila a mezzo milione o giù di lì.
Nel frattempo, nonostante il sì di Pomigliano e Mirafiori al nuovo contratto, le prospettive italiane della Fiat non sono migliorate, semmai sono diventate ancor più cupe: lo stesso Marchionne ha sottolineato nell’intervista al Corriere della Sera che, “senza costi competitivi, dovremo ritirarci da due stabilimenti”. Frasi che sembrano fatte apposta per suscitare la caccia alla prossima vittima: Mirafiori e la stessa Pomigliano? Ipotesi smentite dall’azienda che ha detto di avere concentrato gli investimenti nei siti incriminati. Ma, al di là delle smentite che a volte sono una notizia data due volte, attorno alla strategia di Marchionne s’è creato un clima “giallo”, quasi di mistero: dietro le sortite dell’ad del Lingotto c’è solo il linguaggio franco, ai limiti dell’asprezza, di un manager che si definisce “una ciofeca come comunicatore”?
Oppure c’è una strategia raffinata? “La realtà – risponde lo storico dell’industria, Berta – è che Marchionne parla il linguaggio di un manager che si confronta sul mercato globale, una cornice che non permette di fare sconti”. L’Europa dell’auto è senz’altro afflitta da un’enorme sovracapacità produttiva: 11 milioni di auto in più che non saranno assorbite dalla domanda. Di qui la necessità di tagliare la produzione, come a suo tempo si è fatto negli Stati Uniti. Ma nessuno, per ora, ha il coraggio di seguire la terapia d’urto suggerita da Marchionne: fare per l’auto ciò che a suo tempo si fece per l’acciaio.
Uno slogan infelice, se si pensa ai costi sociali ed economici affrontati a suo tempo per smontare la vecchia siderurgia. Di sicuro una proposta che non tiene conto del clima politico di Parigi, dove il nuovo presidente, chiunque sia, non accetterà a cuor leggero di smantellare le fabbriche di Peugeot, o di quello di Berlino, che non ha alcuna intenzione, dopo aver sborsato pochi anni fa miliardi a fondo perduto per salvare Opel, di accettare la chiusura delle fabbriche possedute da General Motors. Anche per questo sia Peugeot sia GM hanno risposto picche alla collaborazione con il gruppo automobilistico torinese.
In questa cornice, Marchionne il risanatore rischia di essere un profeta ascoltato solo nel nuovo mondo: a Detroit, ma anche in Brasile e, presto, senz’altro in Russia. Fors’anche in India, caso mai andasse in porto l’alleanza con Suzuki. Intanto, per far marciare i cinque stabilimenti italiani, sarà necessario produrre per la Chrysler. Purché Mirafiori o Melfi siano in grado di competere con il Messico o il Canada. E non sarà facile.
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